Catch-27: Il pensiero contradditorio sull’allargamento dell’UE
In breve
- La guerra della Russia in l’Ucraina ha riacceso il dibattito sull’allargamento dell’UE, che viene ora visto dalla maggior parte degli Stati membri come una risposta al contesto geopolitico e come uno strumento per rafforzare l’UE nelle zone di vicinato.
- Tuttavia, se gli argomenti geopolitici a favore dell’allargamento sono ancora più forti oggi di quanto non fossero 20 anni fa, è probabile che il processo incontri più ostacoli di allora.
- Nella maggior parte degli Stati membri le preoccupazioni per la trasformazione che le riforme istituzionali potrebbero comportare prevalgono rispetto all’interesse per l’allargamento. I principali ostacoli comprendono i possibili cambiamenti nell’equilibrio di potere all’interno dell’UE, la questione irrisolta della tutela dello Stato di diritto e i conflitti bilaterali.
- Per rendere credibile l’offerta di ingresso ai Paesi candidati, al vertice di dicembre l’UE dovrebbe definire un processo di riforma interna oltre che un calendario per le prossime fasi del processo di allargamento.
- Indipendentemente dall’esito del dibattito sulle riforme interne, entro il 2030 l’UE dovrebbe essere pronta a offrire ai Paesi candidati almeno la partecipazione al mercato unico, l’accesso alle risorse di bilancio e lo status di osservatore presso le istituzioni europee.
Introduzione
Per molto tempo l’Unione europea è sembrata un club inaccessibile. Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea dal 2014 al 2019, dichiarò apertamente che non ci sarebbero state nuove adesioni durante il suo mandato. Tuttavia, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022 e le turbolenze geopolitiche che ne sono conseguite hanno risvegliato il dibattito sull’allargamento dell’UE.
Nel giugno 2022 l’UE ha concesso lo status di candidato all’Ucraina e alla Moldavia in risposta all’aggressione della Russia. Ciò ha riportato il tema dell’allargamento all’ordine del giorno e ha posto nuovamente l’attenzione sugli altri Paesi dei Balcani occidentali candidati a entrare nell’UE. L’UE ha delineato per la prima volta una prospettiva di adesione per tutti e sei i Paesi dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Kosovo, Macedonia del Nord e Serbia) nel 2003 in occasione del vertice di Salonicco, concludendo che essi “diventeranno parte integrante dell’UE”. Tuttavia, 20 anni dopo, cinque dei sei (tutti tranne il Kosovo) sono paesi candidati e solo quattro di questi (Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia del Nord) hanno avviato i colloqui di adesione. Durante la visita in Macedonia del Nord nella primavera del 2022, il capo della politica estera dell’UE Josep Borrell ha dichiarato che i Balcani occidentali sono una priorità strategica per l’UE e che il loro allineamento con l’UE riguardo alla Russia dimostra il loro impegno verso i valori europei, aggiungendo che le circostanze attuali rappresentano un “momento di risveglio per l’Europa, un momento per rinvigorire il processo di allargamento al fine di ancorare saldamente i Balcani occidentali all’UE”.
Ogni autunno la Commissione europea pubblica il cosiddetto “pacchetto allargamento” con una valutazione dettagliata del livello di preparazione dei Paesi candidati all’adesione all’UE, che ne analizza il grado di preparazione per ciascuna delle 35 aree di negoziato politico e definisce quanto resta da fare per soddisfare i criteri di adesione. Negli ultimi anni, tali rapporti sono stati sconfortanti. I progressi compiuti sono stati scarsi, in molte aree l’allineamento dei Paesi candidati si è bloccato e si è assistito, al contrario, a un allontanamento dall’Unione. Quest’anno la Commissione ha proposto di aprire i negoziati di adesione con l’Ucraina, la Moldavia e la Bosnia-Erzegovina e di concedere lo status di candidato alla Georgia “una volta raggiunto il necessario grado di conformità”. Nella prossima riunione del Consiglio europeo, prevista per dicembre 2023 a Bruxelles, i capi di Stato dell’UE decideranno se approvare le proposte della Commissione.
Non esiste invece una relazione analoga sul livello di preparazione dell’UE stessa all’allargamento, sebbene la sua “capacità di assorbimento” sia un requisito essenziale per accettare nuovi membri. Il Consiglio europeo ha citato per la prima volta la capacità di assorbimento al vertice di Copenaghen del 1993 ma l’UE non ha mai fornito alcuna definizione precisa, il che significa che non è un criterio misurabile, a differenza della serie di requisiti che i Paesi candidati devono soddisfare.
Il fatto che l’UE sia pronta per l’allargamento non dipende da standard oggettivi o dall’adozione di raccomandazioni concrete proposte da esperti o politici. La vera misura della sua capacità di assorbimento riguarda la possibilità che gli Stati membri siano in grado di raggiungere un consenso politico su quando e a quali condizioni procedere a un allargamento. Questo dibattito è influenzato da molteplici fattori quali l’interesse nazionale, i rapporti di forza, l’opinione pubblica e le aspettative sull’obiettivo ultimo del processo di integrazione, aspetti che si rivelano in definitiva molto più importanti delle considerazioni di natura tecnica o legale. Affinché l’UE sia in grado di accettare nuovi Paesi non sarà sufficiente spuntare tutte le caselle della valutazione annuale della Commissione, ma occorrerà che gli Stati membri raggiungano un accordo generale che tenga conto delle rispettive posizioni e del contesto geopolitico in cui si trova l’Europa.
Per valutare il grado di preparazione politica dell’UE all’allargamento e comprendere le sfide future, abbiamo incaricato la rete di ricercatori nazionali dell’ECFR di condurre un sondaggio tra i responsabili politici e i policy thinker di tutti gli Stati membri dell’UE. L’obiettivo era scoprire quali tematiche dominano i dibattiti nazionali sull’allargamento, quali sono le principali speranze, preoccupazioni e aspettative sull’allargamento e come gli Stati membri percepiscono il futuro del progetto europeo in vista di una imminente espansione. Sulla base dei risultati di queste indagini, dei dati riguardo all’opinione pubblica, delle interviste con esperti e funzionari governativi e delle dichiarazioni pubbliche dei leader politici, il presente documento analizza i progressi compiuti dall’UE nei preparativi per il prossimo allargamento e il modo in cui può sfruttare l’attuale slancio.
Il ritorno dell’allargamento
La stanchezza da allargamento è finita. Se l’allargamento impossibile è stato il mantra dell’UE per più di un decennio e l’adesione della Croazia nel 2013 è stata l’eccezione che ha confermato la regola, oggi i Paesi europei (fatta eccezione per l’Ungheria) vedono l’allargamento in generale come una risposta appropriata alla nuova realtà geopolitica.
L’aspetto che più sorprende è l’inversione di tendenza tra i leader dei Paesi che in passato avevano mostrato scarso entusiasmo per l’allargamento e che oggi hanno cambiato completamente atteggiamento. Parlando a Bratislava nel maggio 2023, il presidente francese Emmanuel Macron, che nel 2019 ha bloccato l’apertura dei colloqui di adesione con l’Albania e la Macedonia del Nord, ha dichiarato che “la questione non è se dobbiamo allargarci… ma piuttosto come dobbiamo farlo”, aggiungendo che l’UE dovrebbe ammettere nuovi Paesi “il più rapidamente possibile”. Tre settimane prima, in un discorso al Parlamento europeo, il cancelliere tedesco Olaf Scholz aveva dichiarato che “abbiamo optato per un’Europa più grande”, spiegando che non si tratta di una questione di altruismo, ma di garantire una pace duratura in Europa dopo la Zeitenwende della guerra di aggressione della Russia.
Anche altri Paesi precedentemente scettici nei confronti dell’allargamento, come Svezia, Danimarca, Belgio o Paesi Bassi, hanno assunto una posizione diversa. Alcuni Stati membri hanno inserito riferimenti all’allargamento dell’UE nei loro documenti strategici. Ad esempio, la più recente strategia di sicurezza danese indica l’adesione dei Paesi candidati orientali e sudorientali come una priorità per ulteriori partenariati.
I nostri ricercatori nazionali dipingono un quadro sorprendentemente coerente delle motivazioni strategiche che spiegano questo cambio di rotta tra gli esponenti politici europei. L’allargamento è ampiamente considerato non tanto come un mezzo per promuovere i valori e le regole europee in quanto tali, ma piuttosto come uno strumento principalmente geopolitico. In 13 Paesi i nostri ricercatori nazionali riferiscono che l’allargamento è considerato un modo per rispondere ai cambiamenti geopolitici e hanno riscontrato, da una parte, un ampio consenso sul fatto che esso aiuterebbe l’UE ad affermarsi come attore strategico dominante nell’immediato vicinato e, dall’altra, un chiaro timore che una mancata integrazione dell’UE possa spingere i Paesi candidati – in particolare nei Balcani occidentali – nella sfera di influenza russa o cinese. Come si legge nel comunicato del vertice informale dell’UE tenutosi a Granada il 6 ottobre, “l’allargamento è un investimento geostrategico in pace, sicurezza, stabilità e prosperità”. La logica geopolitica dell’allargamento è condivisa da Paesi con culture strategiche e interessi di sicurezza diversi, come Francia e Polonia, Portogallo e Slovacchia, Svezia e Repubblica Ceca.
Tuttavia, esistono posizioni diverse in Europa riguardo a come realizzare l’obiettivo geopolitico dell’allargamento. La linea di demarcazione più significativa è quella tra coloro che considerano l’allargamento dell’UE come una garanzia di sicurezza e uno strumento di stabilizzazione e coloro che ritengono invece che garantire la sicurezza (attraverso l’adesione alla NATO) debba essere una precondizione per l’allargamento dell’UE. L’Ucraina è, ovviamente, il punto focale di questo dibattito. La svolta copernicana francese sull’allargamento riguarda il fatto che, a differenza del passato, Parigi vede ora l’allargamento come un catalizzatore della sovranità europea piuttosto che come un ostacolo a questo tradizionale obiettivo transalpino. Nel febbraio 2023 il ministro degli Esteri francese Catherine Colonna ha sottolineato che “l’Ucraina sarà più forte e l’Europa sarà rafforzata dall’Ucraina”. Secondo la Francia, l’UE con l’Ucraina potrebbe diventare un potente attore geostrategico in un ambiente sempre più competitivo e un pilastro dell’architettura di sicurezza europea post-2022, anche perché il forte esercito ucraino sarebbe complementare agli sforzi dell’UE per aumentare il suo peso militare. L’allargamento dell’UE a est è quindi un passo importante e quasi indispensabile per realizzare il sogno a lungo coltivato dalla Francia di una Europe puissance.
Questo sogno non è condiviso dai Paesi dell’Europa centrale e orientale, oggi ancora meno che in passato. La guerra di Mosca contro l’Ucraina ha dimostrato l’essenzialità degli Stati Uniti per la sicurezza dell’UE, una convinzione molto diffusa che non è controbilanciata dalla consapevolezza che un’America post-Biden potrebbe rendere necessaria o addirittura inevitabile una più forte cooperazione in materia di difesa e sicurezza all’interno dell’UE. I nostri ricercatori hanno rilevato che la priorità geopolitica per i leader politici in Polonia e negli Stati baltici non sono le future adesioni all’UE ma l’allargamento della NATO, un’opinione che sembra essere condivisa anche dal più giovane membro della NATO, la Finlandia. Il primo ministro finlandese Petteri Orpo ha collegato l’allargamento dell’UE all’ulteriore allargamento della NATO, menzionando la necessità di coinvolgere gli Stati Uniti solo come garante ultimo della sicurezza dell’Europa. I Paesi potenzialmente più colpiti dalle minacce alla sicurezza nel vicinato orientale dell’UE vogliono dare priorità all’allargamento dell’alleanza transatlantica, con l’adesione all’UE come passo successivo. È stato questo l’ordine di adesione seguito dai Paesi dell’Europa centrale e orientale: la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca hanno aderito alla NATO nel 1999 e all’UE cinque anni dopo; anche i Paesi candidati all’UE Albania, Montenegro e Macedonia del Nord sono già membri della NATO. Gli Stati membri centrali e orientali ritengono che solo l’appartenenza alla NATO possa garantire la sicurezza: sebbene la clausola di difesa reciproca dell’UE, sancita dall’articolo 42.7, preveda l’obbligo per i Paesi di fornire assistenza a uno Stato membro vittima di un’aggressione, essi non la ritengono credibile o degna di attenzione. Per loro, l’adesione all’UE senza le garanzie della NATO non fornirebbe ai nuovi membri il livello di sicurezza e stabilità necessario per il successo del loro processo di integrazione e potrebbe addirittura rappresentare un rischio per la sicurezza dell’UE.
Nel frattempo, i vertici politici di alcuni Paesi dell’Europa occidentale, tra cui Germania, Spagna, Belgio e Paesi Bassi, sono molto più titubanti sull’allargamento della NATO. Al vertice NATO di Vilnius del luglio scorso la Germania ha assunto una posizione conservatrice nei confronti dell’adesione dell’Ucraina alla NATO, sostenendo una dichiarazione che non approvava completamente un percorso di adesione dell’Ucraina. Berlino teme che il presidente russo Vladimir Putin metta alla prova l’impegno dell’Occidente nei confronti dell’articolo 5 e che nella NATO non ci sia la volontà di entrare in guerra con la Russia per l’Ucraina. Ma la Germania è anche scettica sugli impegni di difesa dell’UE e si chiede se e come l’UE sarebbe in grado di rispettarli in caso di conflitto con la Russia. [1] In un certo senso, la Germania condivide la preoccupazione degli Stati membri dell’Europa centrale e orientale, ma non riesce a trovare risposta a questo dilemma: da un lato, non sostiene la priorità dell’allargamento della NATO, ma dall’altro non condivide pienamente l’entusiasmo francese per la trasformazione dell’UE in un potente attore geopolitico.
Il dibattito tra i leader europei sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina, ed eventualmente la Moldavia, così come le discussioni in corso sulla prospettiva di adesione dell’Ucraina alla NATO, pesano molto sul dibattito relativo all’allargamento dell’UE e potrebbero, in ultimo, costituire un ostacolo all’adesione dell’Ucraina all’UE.
Gli europei per l’allargamento
Nell’opinione pubblica l’atteggiamento nei confronti dell’allargamento dell’UE è cambiato in maniera altrettanto radicale. Secondo l’ultimo Eurobarometro di giugno 2023, il 53% dei cittadini dell’UE è favorevole all’allargamento in linea di principio, mentre il 37% è contrario. Se i numeri dei favorevoli non sono schiaccianti, segnalano comunque l’inversione di una tendenza che durava da tempo.
Da anni si registrava una sostanziale diminuzione dell’entusiasmo verso i futuri allargamenti. Nel 2012 uno studio rilevava che il sostegno all’allargamento era diminuito praticamente in tutti i Paesi, indipendentemente dal livello iniziale e dallo status di membro o dalla data di adesione del Paese. Il minimo era stato toccato nel 2008, dopo la crisi finanziaria: se già nel 2002 in molti Paesi, tra cui Francia, Austria e Germania, si registrava una scarsa propensione all’allargamento, in seguito anche i più favorevoli mostravano tendenze in calo. E la stanchezza da allargamento non riguarda solo i vertici della politica: dal 2010 in poi una maggioranza stabile di europei ha continuato a dichiararsi contraria a ulteriori allargamenti dell’UE. In generale, l’opinione pubblica dei nuovi Stati membri, compresi quelli che hanno aderito all’UE nel 2004 (Repubblica Ceca, Estonia, Cipro, Lettonia, Lituania, Ungheria, Malta, Polonia, Slovenia e Slovacchia), nel 2007 (Bulgaria e Romania) e nel 2013 (Croazia) si rivela costantemente e significativamente più favorevole all’allargamento rispetto ai vecchi Stati membri.
Dal febbraio 2022, tuttavia, il sostegno degli europei all’allargamento dell’UE è aumentato in quasi tutti gli Stati membri. Nella primavera del 2023 Lituania, Spagna e Croazia erano i Paesi dove l’opinione pubblica era più favorevole a un ulteriore allargamento dell’UE, con maggioranze rispettivamente del 77%, 74% e 71%, ma anche in Lettonia, Malta, Polonia, Slovacchia, Ungheria, Irlanda, Portogallo e Svezia una solida maggioranza (oltre il 60%) assumeva la stessa posizione. Perfino negli Stati membri in cui l’opinione pubblica è stata a lungo scettica nei confronti dell’allargamento, come i Paesi Bassi, la Finlandia e la Danimarca, si è verificato un cambiamento significativo nell’opinione pubblica. In ben 24 Paesi il numero dei sostenitori dell’allargamento è superiore a quello degli oppositori.
Inoltre, il sostegno all’allargamento è complessivamente più elevato rispetto a quanto accadeva prima dell’ultimo grande allargamento del 2004. Alla fine degli anni ‘90 l’allargamento era diventato una delle principali priorità dell’UE. Il Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 aveva ribadito l’impegno dell’UE nei negoziati di adesione con Cipro, Estonia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia e Ungheria, iniziati nel marzo 1998 e aveva avviato quelli con Bulgaria, Lettonia, Lituania, Malta, Slovacchia e Romania. Nell’aprile 1999 il sostegno medio all’allargamento nei 15 Stati membri dell’UE era pari ad appena il 44%, quasi 10 punti percentuali in meno rispetto a oggi. Se lo stato dell’opinione pubblica è un indicatore importante del desiderio di allargamento dell’UE, quest’ultima sembra più pronta oggi che 25 anni fa.
Eppure, le vecchie abitudini sono dure a morire. Nei Paesi tradizionalmente esitanti, come Francia, Danimarca, Austria, Paesi Bassi e Germania, i dubbi restano diffusi: solo il 29% degli austriaci, il 35% dei francesi e il 42% dei tedeschi sono favorevoli all’ingresso di nuovi Paesi nell’UE nel prossimo futuro.
Inoltre, alcuni segnali indicano che il sostegno pubblico non dovrebbe essere dato per scontato. Quando l’UE ha concesso lo status di candidato all’Ucraina e alla Moldavia nel giugno 2022, il 57% degli europei si è dichiarato favorevole all’allargamento - quattro punti percentuali in più rispetto a un anno dopo. È quindi legittimo chiedersi quanto sia sostenibile il rinnovato interesse verso l’allargamento.
Le tendenze politiche in Europa non fanno che accrescere questa preoccupazione. Un confronto tra i risultati delle elezioni del Parlamento europeo del 2019 e i più recenti sondaggi d’opinione mostra che il livello di sostegno per i partiti anti-UE e populisti in tutta l’UE è destinato ad aumentare, il che non è di buon auspicio per il processo di allargamento. La nostra analisi delle tendenze politiche negli Stati membri dell’UE, basata sui cambiamenti del sistema partitico già in atto, ha rilevato che in 12 Stati membri - tra cui Francia, Germania, Italia e Austria - il contesto politico interno diventerà probabilmente meno favorevole all’allargamento nei prossimi mesi e anni. Questo non fa che rendere ancora più urgente cavalcare l’attuale slancio per compiere progressi significativi nel processo di allargamento, senza ritardare decisioni importanti.
Lo stato dell’arte
L’UE ha quindi la rara opportunità di sfruttare questo sostegno per portare avanti il processo di allargamento. Ma nonostante l’ampio consenso sul fatto che l’allargamento contribuirebbe a rafforzare l’UE nell’immediato vicinato e le permetterebbe di agire come attore geopolitico, la nostra ricerca ha dimostrato che il dibattito su come e quando allargare è appena all’inizio negli Stati membri dell’UE. L’aumento del sostegno è una reazione alle attuali turbolenze geopolitiche e non è dettato da un profondo cambiamento politico e concettuale. In realtà, la rilevanza della questione dell’allargamento nel discorso politico di quasi tutti gli Stati membri è ancora contenuta. La maggior parte dei nostri ricercatori nazionali ha riferito che le posizioni nazionali sul bilancio, sulle riforme istituzionali o sulla metodologia di allargamento non sono ancora state definite. A un anno dalle storiche decisioni del giugno 2022, sono ancora poche le conclusioni dei governi europei su come tradurre le dichiarazioni politiche in passi politici concreti e significativi.
Francia e Germania si distinguono per essere i due Paesi che più spingono per far avanzare il dibattito. L’unico documento esaustivo su come adattare l’UE all’allargamento è stato presentato da un gruppo di esperti indipendenti convocati da Parigi e Berlino. All’inizio di novembre il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock ha ospitato la Conferenza sull’Europa per discutere della riforma e dell’allargamento dell’UE. Il governo polacco ha esposto la sua posizione sulle riforme suggerite nel documento di riflessione in una lettera di fine settembre, mentre l’Austria ha avanzato suggerimenti su come modellare e accelerare il processo di allargamento nei Balcani occidentali in un altro documento non pubblicato. [2] Oltre a questi sforzi e a quelli dei think tank svedesi e lituani (ispirati dai rispettivi governi nazionali), non ci sono stati altri contributi nazionali al dibattito a livello europeo.
Alcune iniziali posizioni sono comunque già emerse con chiarezza. I nostri ricercatori nazionali riferiscono che esiste un ampio consenso contro un allargamento “big bang” come quello del 2004 e a favore di un approccio basato sul merito per tutti gli Stati membri. Tuttavia, alcuni Paesi sono più concentrati sull’adesione dei Paesi dei Balcani occidentali, mentre altri si dedicano maggiormente all’adesione dell’Ucraina e della Moldavia.
La decisione dell’UE di concedere all’Ucraina e alla Moldavia lo status di candidato ha spinto gli Stati membri che si concentrano sul vicinato sudorientale piuttosto che su quello orientale ad agire. Sebbene il nuovo sostegno all’allargamento possa contribuire a rilanciare il moribondo processo di adesione dei Paesi dei Balcani occidentali, la predominanza dell’Ucraina nel dibattito politico e la sua rilevanza geopolitica hanno minacciato di mettere in ombra la causa balcanica. Nel giugno 2023 il ministro degli Esteri austriaco Alexander Schallenberg ha annunciato un nuovo raggruppamento di Stati membri, gli “Amici dei Balcani occidentali”, di cui fanno parte Austria, Croazia, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Italia, Slovacchia e Slovenia, che intende sfruttare l’attuale spinta all’allargamento per accelerare l’integrazione dei vicini sudorientali dell’UE. Questi Paesi hanno firmato la Dichiarazione di Göttweig nel giugno 2023, in cui si sottolinea che “è fondamentale che l’UE faccia pieno uso della politica di allargamento anche come strumento geostrategico” e si afferma che si vuole “vedere i nostri partner dei Balcani occidentali al tavolo dell’UE il più spesso possibile, sia formalmente che informalmente, come partecipanti o osservatori”. La dichiarazione si concentra esclusivamente sui Balcani occidentali e non menziona altri Paesi candidati. A settembre Schallenberg e il ministro austriaco per gli Affari europei, Karoline Edtstadler, hanno anche inviato un “non-paper” all’UE, in cui hanno dichiarato che l’integrazione dei Paesi dei Balcani occidentali nell’UE dovrebbe essere accelerata. Come la Dichiarazione di Göttweig, il documento non si sofferma in alcun modo sulla questione dell’Ucraina e della Moldavia.
La Germania, sebbene non faccia parte del gruppo degli Amici dei Balcani occidentali, ha detto chiaramente che i Paesi balcanici non devono essere lasciati fuori e che un allargamento che non li includa sarebbe politicamente problematico. Parlando al Parlamento europeo nel maggio 2023, Scholz ha invitato l’UE a mantenere le promesse fatte ai Balcani occidentali e ad accelerare la loro integrazione, in quanto venire meno a tali impegni potrebbe aumentare la frustrazione e la delusione in una regione che attende l’integrazione nell’UE da molto tempo. Alla luce del sostegno degli Amici dei Balcani occidentali e della Germania nei confronti dei Paesi balcanici, è difficile immaginare che l’Ucraina e la Moldavia entrino nell’UE prima dei vecchi Stati candidati.
Non esiste un gruppo di “Amici dell’Ucraina (o dell’Europa orientale)”. Tuttavia, gli Stati dell’Europa orientale e del nord ritengono che l’adesione dell’Ucraina sarebbe una vera svolta per l’UE e che, sebbene l’approccio basato sul merito resta fondamentale, l’Ucraina rappresenta un caso particolare. I nostri ricercatori nazionali hanno riferito che in Estonia, Svezia, Polonia e Belgio l’Ucraina è considerata una priorità e che è difficile ipotizzare un allargamento che non la includa.
Ciononostante, le relazioni tese tra Bruxelles e la Polonia - un Paese chiave del gruppo per le sue dimensioni, la sua posizione e il suo ruolo centrale nel sostegno all’Ucraina - e il suo relativo isolamento politico all’interno dell’UE potrebbero essere il motivo per cui non è ancora nata una cooperazione più stretta tra questi Paesi. A partire dalla primavera del 2023 i rapporti tra Polonia e Ucraina si sono deteriorati anche a causa dello scontro sulle importazioni di grano, mettendo in crisi il ruolo di Varsavia come principale sostenitore dell’adesione di Kyiv all’UE. Ora che la Polonia si trova emarginata nell’UE e la Svezia torna a malincuore a dirsi favorevole all’allargamento, l’asse Varsavia-Stoccolma, che nel 2008 aveva dato vita all’idea del Partenariato orientale che ha plasmato la politica dell’UE nei confronti del vicinato orientale per oltre un decennio, non sembra avere immediate possibilità di rinascita.
Colpisce la relativa assenza degli Stati membri settentrionali e orientali nel dibattito sull’allargamento a partire da giugno 2022. Per molti osservatori, la concessione dello status di candidato all’Ucraina e alla Moldavia è stato un simbolo forte dello spostamento del centro dell’attenzione dell’UE verso est ma, paradossalmente, finora non c’è alcun segno che gli Stati membri dell’UE confinanti con l’Ucraina abbiano colto l’opportunità per farsi promotori dell’iniziativa. Il cambiamento politico in Polonia, con il nuovo governo pro-europeo guidato da Donald Tusk entrato in carica a dicembre, potrebbe offrire ai Paesi della regione l’opportunità di unire le forze per definire l’agenda dell’allargamento.
Infine, sebbene lo spostamento del centro di gravità dell’UE verso est non si sia ancora concretizzato, la possibile espansione dell’UE verso l’est e il sud-est dell’Europa e i cambiamenti che ciò comporterebbe per gli equilibri di potere in Europa hanno suscitato l’allarme di alcuni Paesi dell’Europa occidentale. L’ex primo ministro portoghese António Costa ha spiegato che “qualsiasi allargamento a est comporta lo spostamento del centro dell’attenzione dell’Europa verso il fronte orientale. Questo non è necessariamente un male, ma è comunque indispensabile dare un forte impulso all’alleanza atlantica”.
A maggio 2023 il Portogallo ha invitato un gruppo informale di Paesi con forti legami atlantici, tra cui Spagna, Francia, Irlanda, Belgio, Paesi Bassi e Danimarca, a discutere di “questioni di interesse comune e stabilire il giusto equilibrio tra le proiezioni continentali e atlantiche dell’Europa”. Il gruppo non ha un programma concreto, ma la sua formazione riflette la preoccupazione che il costo finanziario dell’allargamento possa andare a scapito dei loro interessi. Ad esempio, l’annuncio della Commissione europea, a maggio, di aver approvato un pacchetto di aiuti statali diretti pari a 1 miliardo di euro per gli agricoltori polacchi colpiti dalle conseguenze negative delle importazioni di grano ucraino ha innervosito Portogallo e Spagna, che hanno lamentato di non aver ricevuto una risposta positiva alla loro richiesta di sostegno per far fronte agli effetti di una grave siccità per due anni consecutivi. È chiaro che le implicazioni politiche e finanziarie dell’integrazione dei Paesi candidati nell’UE non riguarderanno solo gli Stati limitrofi, il cui commercio e la cui concorrenza ne risentiranno, ma si riverbereranno in tutta l’UE.
Il potere autotrasformativo dell’UE
L’allargamento non promette solo una trasformazione del vicinato dell’UE. A partire dal giugno 2022 esso è diventato sinonimo di uno sforzo per definire il futuro - o addirittura la finalité - del processo di integrazione dell’UE, rilevante quanto lo è stata l’adozione della Costituzione europea nel 2004. I nostri ricercatori nazionali riferiscono di una crescente consapevolezza da parte degli Stati membri del fatto che l’UE non sarà chiamata solo a motivare e a sostenere gli Stati candidati ad adattarsi, ma anche a modificare il suo funzionamento interno. La prospettiva dell’allargamento dell’UE - sia esso vicino o lontano - costituisce un inevitabile spostamento degli equilibri politici di potere nell’UE: tra grandi e piccoli, est e ovest, ricchi e poveri, statalisti e liberisti. L’UE potrebbe essere di fronte a una profonda trasformazione, a cui alcuni Paesi guardano con speranza e altri con timore, ma in pochi dubitano che sia sul punto di concretizzarsi.
Per la Francia l’ingresso di nuovi Stati membri nell’UE non è solo una risposta alle sfide geopolitiche, ma anche un modo per realizzare una profonda trasformazione del progetto europeo. Nel discorso tenuto a Bratislava nel maggio 2023, Macron ha affermato che l’UE deve allargarsi ed “essere ripensata in modo molto approfondito per quanto riguarda la sua governance e i suoi obiettivi”. Come ha detto Joseph de Weck, l’allargamento può essere la leva per concretizzare la visione di Macron di un’UE potente dal punto di vista fiscale, militarmente più autosufficiente e geopolitica. Gli esperti francesi avevano considerato la Brexit un’opportunità simile per un “rinascimento europeo”. Tecnicamente parlando, “allargamento” potrebbe non essere il termine più preciso per l’esito effettivo di questo percorso, che potrebbe rivelarsi piuttosto una ricostituzione dell’UE con l’aggiunta di nuovi Paesi.
La visione francese prevede un ampio ricorso al principio dell’integrazione differenziata. Secondo il segretario di Stato francese per gli Affari europei Laurence Boone “dobbiamo pensare a un’integrazione ‘differenziata’, per ‘ancorare’ i Paesi candidati o potenziali candidati all’Unione europea il più rapidamente possibile”. La Francia è generalmente a favore dell’idea di formare coalizioni di volenterosi e un’Unione europea allargata potrebbe offrire l’opportunità di metterla in pratica. Tuttavia, Parigi non ha definito i settori in cui l’integrazione europea potrebbe o dovrebbe avanzare in gruppi più piccoli, se e come sarebbe possibile una cooperazione più stretta in formato ridotto in settori che riguardano il mercato unico e quali sarebbero le implicazioni per il bilancio dell’UE. Ma se l’UE decidesse di perseguire questa idea, i nuovi membri entrerebbero in un’UE molto diversa da quella attuale.
Il governo tedesco di centro-sinistra è favorevole a una più profonda integrazione europea, come dimostra l’obiettivo a lungo termine di creare una “Europa federale” sancito nell’accordo di coalizione del 2021, ma la sua attenzione è rivolta sia all’efficienza istituzionale che alla coesione, piuttosto che a un’integrazione a più velocità o a più livelli. In un discorso tenuto a Praga nell’agosto del 2022, Scholz ha esplicitamente affermato che l’allargamento dipende dai cambiamenti istituzionali, citando l’estensione del voto a maggioranza qualificata (VMQ) utilizzato dal Consiglio europeo, invece del voto all’unanimità, in particolare in relazione alla politica estera e alla fiscalità. Ma un uso estensivo dell’integrazione differenziata che potrebbe potenzialmente trasformare l’UE non è tra le priorità della Germania. Nel frattempo, il Portogallo ha lanciato l’idea di un’Europa “à la carte”, proponendo una visione dell’UE come una casa con molte stanze abitate da gruppi diversi. Lisbona vorrebbe che l’allargamento e la riforma dell’UE procedessero di pari passo, un principio sancito nella dichiarazione del Consiglio europeo di Bruxelles di dicembre.
Sebbene gli altri Paesi non abbiano formulato approcci ben definiti al dilemma tra riforma e allargamento dell’UE, la loro esitazione a sposare le ambizioni di Francia e Germania è evidente nei rapporti forniti dai nostri ricercatori e nelle conversazioni con i leader politici di tutta l’UE. I Paesi del nord, la Polonia, la Repubblica Ceca e gli Stati baltici sono tutti scettici nei confronti di grandi cambiamenti istituzionali. Nelle interviste di background alcuni hanno persino espresso, più o meno apertamente, il sospetto che l’ambiziosa agenda caldeggiata da Parigi e Berlino sia in realtà finalizzata a impedire e non a consentire l’allargamento. [3] Che questo sia vero o meno, è chiaro che il programma di riforme potrebbe rallentare il processo di allargamento.
L’esecutivo polacco guidato da Diritto e Giustizia, recentemente sconfitto, ha sostenuto che l’UE è efficiente nelle crisi e che il suo assetto istituzionale è abbastanza flessibile da reagire a eventuali imprevisti. La Polonia respinge anche la critica secondo cui l’ultimo allargamento a “big bang”, di cui ha fatto parte, avrebbe influenzato negativamente il processo decisionale dell’UE. In realtà, la ricerca ha dimostrato che l’allargamento del 2004 non ha avuto un particolare effetto negativo sulla capacità decisionale dell’UE (il numero di decisioni è in realtà aumentato) e i nuovi Stati membri non hanno bloccato le decisioni dell’UE più di quanto abbiano fatto i membri di più lunga data. Il nuovo governo polacco guidato da Tusk adotterà probabilmente una retorica diversa sull’UE - ha infatti dichiarato che il suo obiettivo è quello di “accelerare il processo per riportare la Polonia a una piena presenza nell’Unione Europea” - ma non ci si deve aspettare un cambiamento fondamentale nella sostanza verso una revisione istituzionale.
Durante una visita a Bruxelles in ottobre, Tusk ha affermato che “a prescindere dalle posizioni francesi e tedesche [sulle riforme dell’UE], non sono necessari cambiamenti rivoluzionari”. I politici polacchi sostengono che la necessità di riformare l’UE prima dell’allargamento è esagerata e crea ostacoli artificiosi all’adesione di nuovi Paesi. Varsavia preferirebbe portare avanti la riforma istituzionale solo dopo l’ingresso di nuovi membri nell’UE. Ciò rispecchierebbe il processo di allargamento del 2004: il Trattato di Lisbona è stato adottato solo nel 2009.
Esiste comunque un ampio consenso tra gli Stati membri dell’UE sul fatto che le modifiche alla struttura dell’UE non dovrebbero comportare una modifica del trattato nel prossimo futuro. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del settembre 2023, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha dichiarato di essere aperta a modifiche del trattato, ma ha aggiunto: “Non possiamo - e non dobbiamo - aspettare una modifica del trattato per procedere con l’allargamento”. Durante la Conferenza sul futuro dell’Europa - una serie di dibattiti guidati dai cittadini tra il 2021 e il 2022 - un gruppo di Stati membri (Austria, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Slovacchia e Svezia) ha sostenuto la necessità di escludere del tutto le modifiche al trattato. Secondo fonti diplomatiche, al vertice informale di Granada del 4 ottobre questa posizione è stata confermata anche dalla grande maggioranza degli Stati membri dell’UE. [4]
Allo stesso tempo, la maggior parte dei Paesi è convinta che sia necessario un adattamento istituzionale, seppure senza apportare modifiche al trattato. La Finlandia si aspetta che la Commissione europea “formuli proposte su come salvaguardare la capacità decisionale di un’Unione più ampia e su come organizzare e finanziare i settori politici chiave con l’aumento del numero di Stati membri”. Il ministro degli Esteri sloveno Tanja Fajon ritiene che “l’UE con più di 30 Stati membri al tavolo non può essere efficiente come dovrebbe. Questa riforma non sarà un compito facile, ma è necessaria”. Sarebbe tuttavia infruttuoso cercare proposte concrete di riforma al di là del riconoscimento che alcuni cambiamenti sono inevitabili.
Voto a maggioranza qualificata
La questione fondamentale relativa a potere e sovranità è incarnata dalla controversia sull’estensione dell’uso del voto a maggioranza qualificata. Scholz sostiene che il voto all’unanimità e l’esercizio del potere di veto da parte dei singoli Paesi rischiano di impedire all’Unione di andare avanti e che tale rischio potrebbe aumentare con l’arrivo di nuovi membri. Per la Germania, il passaggio graduale al voto a maggioranza consentirebbe all’Europa di essere “in grado di mantenere una posizione solida sulla scena internazionale”. Nel maggio 2023 nove Stati membri (Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Slovenia e Spagna), a cui si è aggiunta in seguito la Romania, hanno lanciato il “Gruppo degli amici per la promozione del voto a maggioranza qualificata nella politica estera e di sicurezza comune dell’UE”, che ha scritto di essere “convinto che la politica estera dell’UE necessiti di processi e procedure adeguati per rafforzare l’UE come attore di politica estera”. L’appartenenza dell’Italia a questo gruppo è degna di nota, dato che il governo italiano è guidato dal Presidente del Consiglio euroscettico Giorgia Meloni, che si oppone a una maggiore integrazione e centralizzazione dell’UE, anche se il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha chiesto apertamente il voto a maggioranza in politica fiscale ed estera (e ha ipotizzato persino che il Parlamento europeo ottenga il diritto di avanzare proposte di legge).
Tuttavia, molti Paesi, in particolare nell’Europa centrale e orientale, rimangono molto scettici o del tutto contrari all’estensione del voto a maggioranza qualificata. In Polonia il governo di Diritto e Giustizia ha apertamente respinto tale riforma, sostenendo che essa apriva la strada alla centralizzazione e alla perdita di sovranità. Secondo il ministro degli Esteri polacco Zbigniew Rau, “la Polonia non sosterrà mai l’idea di passare dall’unanimità alla maggioranza qualificata nella politica estera e di sicurezza comune”. Il primo ministro ungherese Viktor Orban ha paragonato le presunte interferenze illegittime dell’UE nella politica interna degli Stati alle pratiche dell’Unione Sovietica, rifiutando senza mezzi termini anche il modello esistente. Da parte sua, l’Austria ha espresso la sua opposizione a riforme che comporterebbero una più profonda integrazione dell’UE e il cancelliere Karl Nehammer ha dichiarato che l’UE “non si inserirà mai in un unico sistema uniformato come gli Stati Uniti”, opponendosi a una maggiore integrazione dell’UE e all’idea di abbandonare il voto all’unanimità e citando l’individualità dei trascorsi storici dei singoli Paesi europei. Secondo il cancelliere, invece della “centralizzazione” di Bruxelles, l’Austria sarebbe favorevole al principio di sussidiarietà. Tra i nuovi Stati membri, solo la Slovenia fa parte del gruppo degli amici del voto a maggioranza.
Molti Stati membri non sono disposti a perdere il potere che detengono ora rinunciando al diritto di veto. I Paesi di piccole e medie dimensioni ritengono che la Brexit abbia già modificato a loro svantaggio gli equilibri di potere all’interno dell’UE. Come riferiscono i nostri ricercatori, alcuni Paesi dell’Europa centrale e orientale, come la Bulgaria e la Grecia, temono che la semplice estensione del voto a maggioranza qualificata rafforzi ulteriormente la Germania e la Francia e li privi di uno strumento che ritengono necessario per proteggere i propri interessi nazionali. In teoria, la cosiddetta clausola passerella del Trattato di Lisbona consente di estendere il voto a maggioranza qualificata se concordato all’unanimità senza modificare il Trattato, tuttavia una simile iniziativa metterebbe inevitabilmente in discussione la ponderazione dei voti in seno al Consiglio europeo, poiché i Paesi più piccoli probabilmente insisterebbero per rafforzare il loro potere di voto. Questo sarebbe impossibile senza una modifica del trattato.
Il dilemma del voto a maggioranza qualificata illustra il rischio che la riforma istituzionale rappresenta per il processo di allargamento. I Paesi più favorevoli all’allargamento temono maggiormente il dibattito sulla riforma dell’UE e il loro interesse nei confronti dell’allargamento non è necessariamente superiore alle preoccupazioni sulle potenziali conseguenze negative che la trasformazione dell’UE potrebbe comportare. Anche se diversi politici dell’UE sostengono di voler riformare l’Unione per adattarla all’allargamento, al momento arrivare a un accordo tra gli Stati membri sulle riforme sembra un obiettivo alquanto remoto. Nel frattempo, i Paesi candidati temono che il dibattito sulle riforme sia in realtà una cortina di fumo per nascondere la mancanza di volontà e di capacità di allargare ulteriormente l’UE.
Le sfide future
Sebbene la potenziale estensione del voto a maggioranza qualificata abbia finora attirato la maggiore attenzione, esistono altri fattori - di natura finanziaria, istituzionale e politica - che saranno determinanti per garantire la capacità di assorbimento dell’UE. Come indicano i nostri ricercatori, le principali preoccupazioni degli Stati membri riguardo all’allargamento comprendono sia il bilancio che la coesione dell’UE. Inoltre, le controversie bilaterali tra i Paesi candidati e tra questi e alcuni Stati membri rimangono un ostacolo fondamentale per l’avanzamento del processo di allargamento.
Nuovi fondi per l’UE
Ben 15 Paesi - sia contribuenti netti al bilancio dell’UE (come Paesi Bassi, Belgio e Germania) che beneficiari netti (come Polonia, Repubblica Ceca ed Estonia) – tra quelli analizzati dai nostri ricercatori hanno citato le conseguenze sul bilancio dell’UE tra le loro principali preoccupazioni.
Secondo le valutazioni preliminari, nell’ipotesi di non modificare gli attuali importi della politica agricola comune (PAC) e di coesione che gli attuali Stati membri ricevono, l’Ucraina avrebbe diritto a più di 180 miliardi di euro dal bilancio dell’UE, mentre i Balcani occidentali riceverebbero circa 50 miliardi di euro. Le stime del Segretariato del Consiglio europeo sono ancora più alte: il costo finanziario dell’adesione all’UE di Ucraina, Moldova, Georgia e dei sei Paesi dei Balcani occidentali ammonterebbe a 256,8 miliardi di euro. Ciò comporterebbe una riduzione dei sussidi agricoli per gli attuali beneficiari netti di circa un quinto e significherebbe che molti beneficiari netti diventerebbero contribuenti netti.
Queste previsioni non tengono conto dei periodi di transizione e degli opt-out che potrebbero ridurre significativamente le spese di bilancio dell’UE per i futuri membri. Un altro studio giunge a conclusioni meno allarmistiche: tenendo conto delle disposizioni relative alle limitazioni dei fondi per coesione e sussidi agricoli, si stima che l’Ucraina potrebbe avere diritto a 18,9 miliardi di euro all’anno, una volta terminati gli eventuali periodi di transizione. Lo studio sottolinea inoltre che lo Strumento per l’Ucraina (Ukraine Facility) proposto dall’UE, che ammonta a 50 miliardi di euro per i prossimi quattro anni (2024-2027), equivale a una spesa annuale pari a 12,5 miliardi di euro, una cifra non così lontana da quella stimata se l’Ucraina fosse un membro.
Tuttavia, la sfida di bilancio rimane enorme. Anche se l’adesione dei Paesi candidati potrebbe rivelarsi meno costosa di quanto previsto, una profonda revisione delle finanze dell’UE sembra inevitabile. Il fabbisogno finanziario dell’UE è già in aumento a causa di una serie di problematiche tra cui la crisi energetica, la guerra della Russia contro l’Ucraina e la migrazione, a cui l’attuale bilancio per il 2021-2027 (1.100 miliardi di euro) e la sua strutturazione non sono preparati a far fronte. Inoltre, a partire dal 2028 l’UE dovrà iniziare a rimborsare il fondo Next Generation EU per un valore pari a 800 miliardi di euro, i cui pagamenti annuali potrebbero raggiungere tra i 22 e i 27 miliardi di euro nel 2030, per poi diminuire gradualmente fino a raggiungere i 13,9 miliardi di euro alla fine del programma nel 2058. L’UE dovrà inoltre finanziare il crescente elenco di nuove priorità, tra cui gli investimenti nella tecnologia, nell’industria verde, nella difesa e nel Fondo sociale per il clima. Qualsiasi adesione graduale - “adesione a tappe” o adesione al mercato unico - presuppone che i Paesi candidati godano di un accesso molto più generoso ai fondi dell’UE prima ancora di ottenere pieni diritti politici.
Inoltre, l’UE dovrà generare ingenti risorse finanziarie per l’Ucraina, indipendentemente dal momento in cui sarà possibile la piena adesione del Paese. Il costo complessivo della sola ricostruzione dell’Ucraina è stato stimato tra i 411 e i 1.000 miliardi di dollari in un decennio, a cui l’UE contribuirà in modo significativo. Al vertice del Consiglio europeo di ottobre, i leader dell’UE hanno approvato l’utilizzo dei profitti derivanti dai beni russi congelati (che ammontano a 200 miliardi di euro nell’UE) per finanziare la ricostruzione dell’Ucraina, ma resta da vedere se, come e quando ciò avverrà.
Mentre le diffuse preoccupazioni sul futuro del finanziamento dell’UE inaspriscono il dibattito in corso sull’allargamento, la maggior parte degli Stati membri sembra ancora negare gli inevitabili compromessi e l’urgenza delle decisioni necessarie. Senza un aumento del bilancio attraverso maggiori contributi nazionali, nuove risorse proprie o un maggiore indebitamento, l’UE non sarà probabilmente in grado di coprire i costi crescenti. In alternativa, saranno necessari tagli significativi ai programmi esistenti, compresi i fondi di coesione e la PAC. La revisione intermedia del Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) di quest’anno ha offerto un resoconto sconfortante della questione del bilancio: il servizio del debito dell’UE, le nuove priorità e i costi dello Strumento per l’Ucraina (oltre all’impoverimento del bilancio a causa della guerra in Ucraina) renderanno particolarmente difficile trovare un accordo tra gli Stati membri e le istituzioni dell’UE su come adeguare il bilancio per renderlo sostenibile fino al 2027. È probabile che si decida di concedere 50 miliardi di euro per lo Strumento per l’Ucraina per quattro anni fino alla fine del 2027 (a condizione che l’Ungheria elimini la sua opposizione in cambio dell’erogazione dei fondi UE) che sarà finanziato da un aumento una tantum dei contributi nazionali, ma rimarrà il problema strutturale di come finanziare tali spese a lungo termine (oltre il 2028).
Germania, Svezia, Danimarca, Austria e Paesi Bassi hanno suggerito che la Commissione dovrebbe cercare di risparmiare sul bilancio esistente, mentre la Svezia ha presentato un documento che evidenzia come generare fino a 25 miliardi di euro attraverso tagli ai programmi esistenti. La Commissione ha proposto di introdurre nuove entrate nel bilancio dell’UE basate sui profitti delle imprese negli Stati membri, ma la maggior parte dei Paesi dell’UE è scettica nei confronti del piano: solo Grecia e Portogallo hanno accolto con favore il pacchetto. I ministri per l’Europa di Francia, Germania e Portogallo hanno pubblicato un articolo congiunto in cui esprimono il loro generale sostegno alla creazione di nuove risorse proprie per l’UE, ma altri Paesi rimangono esitanti.
La ricerca di nuove fonti di reddito è spesso un argomento impopolare nel dibattito europeo, sempre più polarizzato, perché suggerisce che l’UE ha ambizioni di centralizzazione. Ma se gli Stati membri non troveranno un accordo sulle nuove risorse proprie entro i prossimi due anni, la discussione sul bilancio in vista del QFP 2028-2034 rischia di diventare ancora più complessa del solito. Ciò limiterebbe ulteriormente il margine di manovra dell’UE nella sua politica verso i Paesi candidati.
Amici e nemici dello Stato di diritto
Sebbene la portata e il carattere della maggior parte delle riforme istituzionali necessarie affinché l’UE sia idonea all’allargamento rimangano piuttosto vaghe nel dibattito politico, esiste un ampio consenso sul fatto che lo Stato di diritto debba rimanere il criterio non negoziabile per l’adesione. Gli Stati membri sembrano essere ancora più preoccupati dalla possibilità che possano entrare nell’UE Paesi che potrebbero minare il sistema di valori e l’ordine basato sulle regole europee rispetto al potenziale impatto negativo sul processo decisionale dell’UE. I nostri ricercatori nazionali hanno rilevato che l’esperienza dei regimi illiberali in Ungheria e Polonia è stata spesso citata come monito del fatto che le istituzioni europee non sono in grado di gestire efficacemente i problemi legati al regresso democratico o al rifiuto totale delle decisioni dell’UE da parte di alcuni Stati membri. In ben 16 Paesi i nostri ricercatori hanno evidenziato una particolare attenzione alla coesione dell’UE e alla necessità di risolvere il problema dello Stato di diritto prima che l’UE inviti nuovi membri.
Il timore di accettare democrazie non consolidate o vulnerabili contribuisce al rifiuto delle soluzioni “fast track” e “big bang”. Il gruppo degli Amici dei Balcani occidentali pone meno enfasi su questi principi e sottolinea piuttosto la necessità di accelerare i colloqui di adesione degli Stati dei Balcani occidentali. Tuttavia, l’interesse primario del gruppo non è quello di consentire la piena adesione dei Paesi candidati il prima possibile (questo è un obiettivo a lungo termine), ma si concentra piuttosto su come procedere con un’integrazione graduale che richiederebbe un livello di allineamento inferiore nel prossimo futuro senza una forte condizionalità dello Stato di diritto.
Il rafforzamento degli strumenti dell’UE per la tutela dello Stato di diritto, come la condizionalità del bilancio dell’UE e l’articolo 7, emerge come una precondizione fondamentale per l’adesione soprattutto per Svezia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Irlanda (che fanno parte del gruppo informale degli Amici dello Stato di diritto), oltre che per Germania e Francia. Tuttavia, le idee su come proteggere lo Stato di diritto e affrontare le violazioni rimangono vaghe.
In tal senso, l’Ungheria è lo Stato membro più preoccupante nel processo di allargamento. L’Ungheria è un convinto sostenitore dell’accettazione di nuovi Paesi dei Balcani occidentali, in particolare della Serbia, con cui ha forti legami ma che non è riuscita ad allineare la sua politica estera e di sicurezza all’UE per quanto riguarda le sanzioni contro la Russia. Mentre l’UE e gli Stati Uniti hanno cercato di allontanare la Serbia dall’orbita russa e di portarla verso l’integrazione euro-atlantica, a giugno l’Ungheria e la Serbia hanno istituito un Consiglio di Cooperazione Strategica e hanno prontamente firmato 12 accordi bilaterali, tra cui quello per la creazione di una nuova società congiunta del gas, SERBHUNGAS, e un memorandum d’intesa per la costruzione di un oleodotto tra i due Paesi.
Orban ha mantenuto strette relazioni con il presidente serbo Aleksandar Vucic e con il leader della Republika Srpska in Bosnia-Erzegovina, Milorad Dodik, nonostante il loro comportamento distruttivo nella regione, tra cui le minacce alla statualità della Bosnia e l’incitamento alla violenza nel nord del Kosovo, e le loro strette relazioni con Putin. Orban ha persino minacciato di usare il potere di veto dell’Ungheria per impedire all’UE di sanzionare uno dei due leader. Dato che molti Paesi sono preoccupati per l’adesione di Paesi candidati illiberali, il comportamento dell’Ungheria rischia di compromettere il processo di allargamento.
In questo contesto, il populismo illiberale è una minaccia politica importante per l’allargamento, non perché i partiti populisti prenderanno inevitabilmente il potere in molti Paesi e faranno deragliare completamente il processo di allargamento (anche se le tendenze politiche non sono favorevoli), ma perché più Paesi abbracceranno regole illiberali che minano le fondamenta dell’UE, più ci sarà un’opposizione generale all’accettazione di nuovi Paesi.
A questo proposito, l’esito delle elezioni polacche può rappresentare un segno di speranza, in quanto indebolisce il campo “sovranista” nell’UE (lasciando l’Ungheria di Orban come principale sostenitore) che rifiuta chiaramente la condizionalità dello Stato di diritto. Dimostra che l’illiberalismo può essere contrastato e che i meccanismi dell’UE (comprese le procedure d’infrazione e le sentenze della Corte di Giustizia europea) svolgono un ruolo importante nel contenerlo mentre è ancora al potere. Ciò potrebbe contribuire ad alleviare i timori di alcuni Stati membri, preoccupati per la potenziale irreversibilità del regresso democratico. Il nuovo governo liberale polacco potrebbe anche farsi paladino della difesa dello Stato di diritto e dei meccanismi preventivi contro la sua rottura, includendo disposizioni adeguate nei trattati di adesione che verranno firmati in futuro.
La trappola dei conflitti bilaterali
Infine, l’UE non sarà in grado di far avanzare il processo di allargamento e di ripristinare la fiducia dei Paesi candidati se non riuscirà a gestire con successo le questioni bilaterali tra Stati membri e Paesi candidati. Gli Stati membri hanno ripetutamente usato il loro potere di veto per ritardare o bloccare l’adesione o i negoziati di adesione dei Paesi candidati a causa di questioni bilaterali, tra cui dispute territoriali e questioni relative alle minoranze, minando la credibilità e l’efficienza del processo di adesione.
Ad esempio, in passato la Slovenia ha bloccato l’apertura dei negoziati di adesione con la Croazia per una disputa sulla delimitazione marittima, mentre la Grecia ha posto il veto all’apertura dei colloqui di adesione con la Macedonia del Nord, dopo che il Paese è diventato candidato nel 2005, a causa di una disputa sul suo nome. La Grecia ha tolto il veto quando il Paese ha cambiato il suo nome in Macedonia del Nord nel 2018, ma la Macedonia del Nord si è poi trovata a subire il veto della Bulgaria per questioni legate alle minoranze. Nel 2022 la Bulgaria ha finalmente accettato di togliere il veto ai negoziati a condizione che la Macedonia del Nord modifichi la sua costituzione per includere un riferimento alla minoranza bulgara nel Paese, ma questa condizione non è ancora stata soddisfatta e incontra una notevole opposizione.
La Macedonia del Nord non è l’unico Paese che rischia di vedersi bloccare l’adesione a causa di questioni bilaterali. Le relazioni dell’Ungheria con l’Ucraina sulle questioni relative alle minoranze potrebbero interrompere il processo di adesione dell’Ucraina. I due Paesi hanno condotto negoziati bilaterali sulla minoranza etnica ungherese e sui suoi diritti linguistici in Ucraina, ma l’Ungheria ha già minacciato di usare il suo potere di veto se l’Ucraina non attuerà politiche più efficaci sui diritti delle minoranze e sulla lingua in particolare. Nel frattempo, la disputa marittima della Grecia con l’Albania e le recenti controversie sui diritti della minoranza greca in Albania potrebbero bloccare i negoziati di adesione dell’Albania.
Il passaggio al voto a maggioranza in politica estera potrebbe servire come rimedio agli ostacoli posti dal potere di veto degli Stati membri, ma la maggior parte dei Paesi esita a rinunciare al proprio potere di veto perché esso tutela le questioni di importanza nazionale. L’introduzione del voto a maggioranza qualificata per le decisioni nelle varie fasi del processo di adesione (apertura e chiusura dei capitoli negoziali) potrebbe offrire un minimo comune denominatore e rappresentare un compromesso che potrebbe liberare l’UE dalla trappola dei conflitti bilaterali.
Sciogliere il nodo
La guerra della Russia contro l’Ucraina rappresenta per l’Europa una serie di importanti sfide politiche e di sicurezza, ma offre un’opportunità politica unica per rilanciare l’idea dell’UE come progetto di pace. Come dimostra la nostra analisi, l’UE ha intrapreso un nuovo percorso di allargamento, innescato dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Gli Stati membri concordano sull’esistenza di una motivazione geopolitica per l’allargamento e il sostegno dell’opinione pubblica e della classe politica è a un livello record rispetto agli anni e alle fasi precedenti dell’allargamento. La portata e l’ampiezza della sfida sono paragonabili solo all’allargamento “big bang” del 2004. Tuttavia, sebbene le argomentazioni geopolitiche a favore dell’allargamento siano ancora più forti oggi rispetto a 20 anni fa, è probabile che il processo incontri più ostacoli di allora.
Il dibattito su come allargare l’UE è appena iniziato. La retorica geopolitica nasconde profonde preoccupazioni negli Stati membri sulle conseguenze dell’allargamento e un diffuso scetticismo sulla capacità di assorbimento dell’UE. Francia e Germania, che finora hanno mostrato il maggior interesse nel dibattito sull’allargamento a livello europeo, sembrano considerarlo innanzitutto un’opportunità per avviare una riforma dell’UE, che ritengono necessaria a prescindere da eventuali nuove adesioni. Essa comprende lo snellimento dei processi decisionali, il rafforzamento della politica estera dell’UE attraverso l’estensione del voto a maggioranza qualificata e il potenziamento della condizionalità dello Stato di diritto.
I due punti chiave in termini di riforme saranno le procedure decisionali (voto a maggioranza qualificata) e le garanzie per il rispetto dello Stato di diritto. È improbabile che un numero significativo di Paesi sia disposto ad accettare nuovi membri se non vengono risolti questi problemi. Tuttavia, esiste anche una significativa opposizione a cambiamenti di ampia portata in queste aree, che sembra destinata ad aumentare ulteriormente in futuro. Dato che per qualsiasi cambiamento significativo è necessaria l’unanimità, l’UE sembra avviata a negoziati lunghi e dall’esito incerto, che contraddicono l’urgenza autoproclamata di decisioni coraggiose di natura geopolitica.
Considerate le potenziali conseguenze distruttive che il dibattito sulle riforme potrebbe causare, nel migliore dei casi l’UE dovrebbe concordare un’agenda di riforme interne e annunciare al vertice UE di dicembre una roadmap nonché un calendario per le prossime fasi del processo di allargamento. Ma le riforme istituzionali dell’UE non devono ostacolare un progresso significativo nel processo di adesione né mettere in discussione le prospettive effettive dei Paesi candidati. Dare la priorità alle riforme interne prima dell’allargamento potrebbe avere un effetto negativo, mentre non è detto che l’allargamento venga sospeso fino al completamento del programma di riforme. Nella maggior parte degli Stati membri l’interesse per l’allargamento è superato dalle preoccupazioni per la trasformazione che tali riforme potrebbero comportare.
Raccomandazioni
Alla luce della realtà geopolitica odierna, è venuto per l’UE il momento di agire e offrire nei prossimi anni un percorso credibile per una più profonda integrazione almeno dei Paesi candidati.
In particolare, l’UE deve concordare una tabella di marcia dei preparativi per l’allargamento prima delle elezioni del Parlamento europeo del giugno 2024. Al vertice del Consiglio europeo di dicembre si dovrebbe prevedere l’adozione di una serie di riforme (simili per portata e obiettivi all’Agenda 2000 di Berlino che ha preparato il terreno per l’allargamento del 2004) da adottare durante le presidenze polacca o danese nel 2025. Tale “agenda di Varsavia” o “di Copenaghen” dovrebbe delineare le principali riforme del bilancio dell’UE, il voto a maggioranza in alcune aree politiche e altre misure necessarie a rendere l’UE adatta all’allargamento. Il pieno accesso al bilancio dell’UE non appena sono soddisfatti tutti i criteri di adesione dovrebbe essere un elemento chiave dell’offerta dell’UE. Il prossimo QFP (2028-2034) dovrebbe quindi essere dedicato alla preparazione per l’inclusione di nuovi Paesi. L’UE deve proseguire i preparativi economici e finanziari indipendentemente dal successo o meno della riforma istituzionale. In caso contrario, la sua offerta non avrà né la credibilità né gli incentivi necessari per indurre i Paesi candidati ad adeguarsi.
Tale “Agenda 2030” dovrebbe essere accompagnata da un aggiornamento dei Criteri di Copenaghen 3.0, che includa disposizioni di adesione come l’allineamento della politica estera dei Paesi candidati con la principale direzione geostrategica dell’UE. Gli Stati membri dovrebbero includere nei criteri di Copenaghen 3.0 una clausola secondo cui le questioni bilaterali tra gli Stati membri e i Paesi candidati devono essere risolte attraverso meccanismi esterni di risoluzione delle controversie: le controversie territoriali dovrebbero essere deferite alla Commissione arbitrale, mentre quelle sui diritti delle minoranze dovrebbero essere trattate dalla Corte europea per i diritti umani e da altri meccanismi di risoluzione delle controversie appropriati. Le questioni bilaterali non dovrebbero essere utilizzate per bloccare i negoziati di adesione all’UE; i sostenitori dell’allargamento devono insistere affinché ciò si rifletta nella metodologia di allargamento.
Per evitare che l’agenda dell’allargamento sia ostaggio della mancanza di riforme, l’UE deve raggiungere un accordo su un nuovo impegno nei confronti dei Paesi candidati entro i prossimi mesi. L’apertura dei negoziati di adesione con l’Ucraina e la Moldavia, l’annuncio di una tabella di marcia per l’adeguamento istituzionale e l’invocazione di una comunità di interessi e valori geopolitici, come previsto nella riunione di dicembre, non basteranno a ripristinare la credibilità dell’approccio dell’UE all’allargamento. L’UE dovrebbe dichiarare che, a prescindere dall’esito del processo di riforma interna, sarà pronta a offrire ai Paesi candidati almeno la partecipazione al mercato unico e all’agenda verde, nonché l’accesso al bilancio dell’UE e lo status di osservatore presso le istituzioni europee entro il 2030.
Ciò non deve assolutamente far pensare che tutti i Paesi candidati aderiranno automaticamente a tale quadro nel 2030. L’ingresso sarà possibile solo per quei Paesi candidati che hanno soddisfatto tutti i criteri di adesione e hanno concordato un quadro di tutela dello Stato di diritto basato sul principio della reversibilità dei benefici dell’UE con criteri chiaramente definiti. Il processo rimarrebbe quindi basato sul merito e ciascun Paese negozierebbe bilateralmente con l’UE gli accordi specifici (compresi i periodi di transizione). Basandosi su proposte come l’adesione graduale, le libertà” o il Partenariato per l’allargamento, tali accordi fornirebbero i massimi benefici ai Paesi candidati prima che diventino membri a pieno titolo delle istituzioni dell’UE, indipendentemente dall’esito della discussione sulla riforma istituzionale dell’UE. Idealmente, tutti i Paesi - sia quelli membri dell’UE che quelli che soddisfano i criteri di adesione ma non hanno ancora diritto di voto - dovrebbero negoziare una riforma globale dell’UE, che potrebbe includere modifiche al trattato.
Per creare un nuovo consenso su come procedere sarà necessario che un maggior numero di Stati membri, finora rimasti in silenzio, formuli chiaramente le proprie posizioni. Con un nuovo governo liberale, la Polonia potrebbe essere un Paese cardine per rivitalizzare la cooperazione tra l’Europa centrale, gli Stati baltici e gli Stati nordici. Questi Paesi condividono spesso le stesse posizioni nei dibattiti in corso, come l’importanza della questione dell’adesione dell’Ucraina e la convinzione che l’allargamento della NATO sia fondamentale per l’allargamento dell’UE. Insieme, questi Paesi potrebbero formare un “motore della politica di allargamento” in grado di sostenere un’adesione dei nuovi membri basata sul merito e su riforme moderate dell’UE. L’imperativo geopolitico, il forte impegno per il mercato unico e la libera concorrenza, nonché le solide credenziali nella politica dell’UE nei confronti dell’Ucraina potrebbero aiutarli a trovare soluzioni in grado di attirare il sostegno di altri Paesi.
Infine, gli Stati membri devono riconoscere che l’allargamento non è l’unica risposta alle attuali sfide geopolitiche che l’Europa deve affrontare. Le garanzie di sicurezza per l’Ucraina e la Moldavia sono una parte importante della conversazione e l’UE deve lavorare a stretto contatto con gli Stati Uniti e gli altri membri del G7 per sviluppare un partenariato di sicurezza e provvedere alle esigenze militari a lungo termine dell’Ucraina. Ciò potrebbe contribuire a riconciliare le posizioni di coloro che sostengono l’allargamento della NATO come precondizione per l’integrazione dell’Ucraina nell’UE con quelle di coloro che vi si oppongono.
Nota sugli autori
Engjellushe Morina è senior policy fellow del Programma Wider Europe dell’ECFR, con sede a Berlino. Il suo lavoro riguarda principalmente la geopolitica dell’allargamento dell’UE, le relazioni tra Kosovo e Serbia e gli aspetti geopolitici dell’agenda verde.
Piotr Buras è responsabile dell’ufficio di Varsavia dell’ECFR e senior policy fellow. La sua ricerca si concentra sulla politica estera e comunitaria della Polonia, sull’allargamento dell’UE e sulla politica tedesca.
Ringraziamenti
Gli autori desiderano esprimere la loro gratitudine alle molte persone che hanno reso possibile questo lavoro. Un ringraziamento particolare va a Gosia Piaskowska per il supporto al lavoro di ricerca e il collegamento con i ricercatori nazionali, nonché a Wojtek Marczewski e Zofia Kostrzewa per il supporto nella raccolta dei dati. La rappresentazione grafica di Nastassia Zenovich, così come le idee perspicaci e i preziosi suggerimenti di Vessela Tcherneva e Marie Dumoulin sono stati molto apprezzati. Questo rapporto non avrebbe visto la luce senza la perseveranza, il rigore e l’eccellente lavoro editoriale che Flora Bell ha svolto come redattrice.
Infine, questo progetto si basa sulla ricerca condotta dai 27 ricercatori associati dell’ECFR, il cui grande lavoro deve essere riconosciuto: Sofia Maria Satanakis (Austria), Vincent Gabriel (Belgio), Marin Lessenski (Bulgaria), Robin-Ivan Capar (Croazia), Hüseyin Silman (Cipro), Vladimír Bartovic (Repubblica Ceca), Christine Nissen (Danimarca), Viljar Veebel (Estonia), Tuomas Iso-Markku (Finlandia), Gesine Weber (Francia), Stephan Naumann (Germania), George Tzogopoulos (Grecia), Zsuzsanna Végh (Ungheria), Harry Higgins (Irlanda), Alberto Rizzi (Italia), Aleksandra Palkova (Lettonia), Justinas Mickus (Lituania), Tara Lipovina (Lussemburgo), Daneil Mainwaring (Malta), Niels van Willigen (Paesi Bassi), Adam Balcer (Polonia), Lívia Franco (Portogallo), Oana Popescu-Zamfir (Romania), Matej Navrátil (Slovacchia), Marko Lovec (Slovenia), Astrid Portero (Spagna) e Amna Handzic (Svezia).
Questo documento è stato reso possibile dal sostegno della Fondazione ERSTE, ma non rappresenta necessariamente il punto di vista della Fondazione ERSTE.
[1] Interviste degli autori a esponenti politici tedeschi, Berlino, maggio-giugno 2023.
[2] Documento austriaco non pubblicato, “Advancing gradual integration for the Western Balkans”, settembre 2023.
[3] Interviste degli autori a esponenti politici di Stati dell’UE, settembre 2023.
[4] Conversazioni degli autori con fonti diplomatiche, ottobre 2023.
ECFR non assume posizioni collettive. Le pubblicazioni di ECFR rappresentano il punto di vista degli autori.