“Cina, Russia e Turchia stanno sfruttando l’instabilità dei Balcani: solo l’Ue può risolvere i conflitti”

L’analisi sull’importanza dell’adesione all’Europa dei Paesi dell’ex Jugoslavia.

A vent’anni dalle guerre che segnarono la fine della Jugoslavia la stabilizzazione dei Balcani occidentali è una strada ancora in salita, disseminata da dispute interregionali, conflitti a bassa intensità, scontri per i confini terrestri e divisioni etnico-religiose. E mentre il processo (o l’aspirazione) verso l’adesione all’Unione europea sembra aprire varchi alla speranza di una pacificazione, Turchia, Cina e Russia si stanno muovendo molto rapidamente per approfittare dell’instabilità della regione. Ankara sta cercando apertamente di riconquistare il suo ruolo imperiale in Bosnia-Erzegovina, Albania, Serbia e Kosovo, Putin cerca di mantenere la sua influenza in Serbia e Pechino, con milioni di investimenti, sembra capace di colmare più velocemente dell’Europa il vuoto nella regione, a partire dal Montenegro. Così che, tra molti passi avanti e tante cadute, le relazioni geopolitiche che coinvolgono i Balcani occidentali stanno diventando sempre più cruciali, e delicate. A questo punto, la spinta europea per risolvere le dispute interne e aprire le porte all’adesione, potrebbe essere l’unica strada percorribile. L’importanza dell’influenza europea nella regione la spiega dettagliatamente Beáta Huszka, analista dello European Council on Foreign Relations, nel rapporto appena pubblicato dal titolo “Il potere della prospettiva: perché l’adesione alla Ue è ancora importante nei Balcani occidentali”

Fra tutti i conflitti in corso nei Balcani, quale pensa sia il più complesso da risolvere nel prossimo futuro?
«Tra tutte le problematiche relazioni bilaterali nei Balcani credo che il conflitto tra Serbia e Kosovo sia il più difficile da risolvere, poiché riguarda una questione di status irrisolta. È una questione delicata, dal momento che la controversia vede posizioni diametralmente opposte e reciprocamente esclusive che comportano anche gravi rischi per la sicurezza. Gli altri problemi bilaterali citati nel rapporto sono altrettanto complessi, ma non rappresentano una sfida imminente per la pace e la sicurezza. Definisco queste controversie sui confini “dormienti” o semi-attive. Tuttavia, quando lo status di un territorio è messo in discussione assistiamo a una paralisi istituzionale – come quella in corso in Bosnia -, a lungo termine una condizione insostenibile. Per quanto riguarda il Kosovo la mancanza di riconoscimento internazionale gli impedisce di aderire a organizzazioni internazionali, il che ovviamente limita le sue possibilità di sviluppo. Non solo: la mancanza di riconoscimento come Stato da parte della Serbia e della Russia pone delle limitazioni alla sua personalità giuridica internazionale, e agisce come una camicia di forza in vari settori della vita, che vanno dal commercio ai servizi finanziari fino alla politica energetica».

Questi conflitti interregionali hanno una matrice comune?

«Molti di questi problemi sono un retaggio dell'ex Jugoslavia, quando le delimitazioni tra le repubbliche non erano sempre definite con precisione. Anche la questione Kosovo-Serbia è un retaggio jugoslavo. Già negli Anni 80 il Kosovo aspirava a separarsi dalla Serbia. Il Kosovo, analogamente alla Vojvodina, era una provincia autonoma della Serbia durante il periodo jugoslavo e godeva di tutte le prerogative delle repubbliche, tranne il diritto all'indipendenza. Questa particolare situazione ha permesso al Kosovo di sviluppare le proprie istituzioni autonome, che hanno preparato il terreno alle aspirazioni di uno Stato indipendente». 

L'Europa può essere decisiva nella risoluzione dei conflitti?
«L'Ue può avere il massimo impatto sostenendo la prospettiva dell'integrazione, che ha già dimostrato chiaramente evidenti benefici per la sicurezza nei Balcani occidentali. Uno degli esempi più evidenti è l'accordo di Ohrid firmato tra albanesi e macedoni nel 2001, che ha chiuso un conflitto etnico a bassa intensità nella Macedonia settentrionale. L'Ue ha reso l'attuazione dell'accordo condizione necessaria per l’ingresso nell’Unione e, così facendo, ha motivato le élite politiche del Paese a soddisfare le sue direttive». 

Quali sono gli effetti diretti di questi conflitti per l’Europa? 
«Oltre agli scontri etnici in Paesi vicini agli Stati membri e la fragilità delle loro democrazie, ci sono altri problemi che possono colpire l’Europa, come la migrazione illegale dalla regione, che è in gran parte dovuta alle terribili prospettive economiche delle popolazioni dei Balcani. Nel 2014-15 circa 100.000 persone hanno lasciato il Kosovo a causa della povertà. Oggi il crescente numero di immigrati dall'Albania fa parte dei motivi per cui la Francia è diventata così scettica sull'ulteriore allargamento. Inoltre, le tensioni in atto nella regione offrono spazio di influenza agli attori esterni, come Russia, Cina e Turchia».

Quali sono i lasciti più pericolosi dell'ex Jugoslavia?
«Secondo me l'eredità più pericolosa è la situazione in Bosnia ed Erzegovina, dove nessuna soluzione sembra essere possibile. La leadership della Republika Srpska semplicemente non vuole cooperare per rendere lo Stato in grado di funzionare, ostacolando continuamente le istituzioni e minacciando di indire un referendum sull'indipendenza. Tuttavia, il problema non riguarda solo i serbi-bosniaci. È chiaro che la struttura istituzionale dello Stato è disfunzionale, ma le élite politiche etnicamente definite non hanno la motivazione per trovare un compromesso. L'Ue non può intervenire in questa situazione per affrontare il lungo stallo istituzionale della Bosnia-Erzegovina perché le élite politiche bosniache hanno poco interesse nell’ingresso nella Ue. Ciò li rende poco disposti a soddisfarne le richieste». 

Torniamo al conflitto Serbia-Kosovo: quali sono i principali problemi da risolvere?
«Gli ostacoli che pone Belgrado all'attuazione di molti degli accordi tecnici si riduce al suo non riconoscimento della sovranità statale del Kosovo, mentre la riluttanza di Pristina a rispettare alcune delle sue promesse è motivata dalla paura che la Serbia voglia minare il suo funzionamento come stato indipendente. Le maggiori questioni in sospeso, oltre all’accordo sullo status del Kosovo, includono la mancata costituzione dell'Associazione dei Comuni serbi, che è molto importante per la parte serba, i persistenti ostacoli alla libera circolazione dei due Paesi, le difficoltà del reciproco riconoscimento dei diplomi e i continui ritardi nel trasferimento dei registri catastali in Kosovo rappresentano un problema sia per i cittadini del Kosovo, sia per i serbi e gli albanesi».

Secondo lei in che modo la Serbia potrebbe essere persuasa a smettere di ostacolare il riconoscimento del Kosovo?
«Chiaramente l’accordo sullo status del Kosovo deve essere accettabile per la Serbia. Il presidente Vucic ha recentemente affermato che la Serbia fermerebbe la sua campagna contro il riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo se e quando gli albanesi smetteranno di chiedere che la Serbia riconosca il Kosovo come Stato. Sembra che la Serbia abbia bisogno di guadagnare qualcosa o almeno di guadagnare qualcosa da un accordo finale per considerarlo accettabile. La domanda è: quale sarebbe un prezzo giusto / accettabile per la Serbia per accettare, almeno tacitamente, il Kosovo come Stato indipendente? Albin Kurti, il nuovo primo ministro del Kosovo, respinge assolutamente l'idea di una sorta di scambio territoriale, quindi questa opzione sembra essere fuori discussione. Un accordo senza concessioni territoriali soddisferebbe la parte serba? Una soluzione del genere sarebbe accettabile per gli albanesi del Kosovo? Queste sono alcune delle domande che i negoziatori solleveranno una volta ripresi i colloqui tra le due parti».

Quali Paesi sono più vicini agli obiettivi dell'Ue?
«Tutti i Paesi balcanici mirano all’entrata nella Ue. Il Montenegro è il più avanzato nei negoziati di adesione ed è anche membro della Nato. La leadership politica della Serbia è piuttosto impegnata nell'integrazione, come dimostrato dalla sua volontà di avviare negoziati con il Kosovo, anche se a volte questi sforzi sembrano poco convinti. Allo stesso tempo, la Serbia ha anche stretti legami con la Russia e non sempre allinea la sua politica estera a quella dell'Ue. Il precedente governo del Nord Macedonia, guidato da Zaev, era molto orientato verso l'Ue, motivo per cui ha concordato con la Grecia il nome del Paese. Tuttavia, se VMRO tornasse al potere alle prossime elezioni, questo orientamento potrebbe facilmente cambiare. Anche l'Albania e il Kosovo stanno cercando di avvicinarsi all'Ue.  Allo stesso tempo, la maggior parte di questi Paesi non fa abbastanza quando si tratta di riforme democratiche e dello stato di diritto, parte degli obiettivi Ue nei Balcani. Ritengo che questo deterioramento sistematico e continuo della governance democratica e della protezione dei diritti umani sia la ragione principale del diffuso scetticismo sull'allargamento dei Balcani di alcuni Stati membri dell'Ue, principalmente della Francia, ma non solo. In Montenegro, molto avanti nei negoziati Ue, i violenti attacchi contro giornalisti critici nei confronti del governo e l’interferenza politica nei media rappresentano una seria sfida alla libertà della stampa. Nella maggior parte di questi Paesi, i governi si stanno muovendo verso posizione autoritarie, che minano la governance democratica e rappresentano il mancato impegno sui principi europei».

Pubblicato su La Stampa il 30 Marzo 2020.

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