Dalla crisi alla riforma: Come la Tunisia può trasformare il Covid-19 in un’opportunità

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In breve

  • Le elezioni del 2019 in Tunisia hanno espresso un voto contro l’establishment e dato vita a un panorama politico frammentato che ha reso difficile formare un governo.
  • Il Parlamento è profondamente diviso e mancano basi chiare per una politica stabile ed efficace, mentre il nuovo presidente non ha alcuna esperienza politica né un partito alle spalle per attuare la sua agenda.
  • Le elezioni del 2019 potrebbero aver finalmente posto fine all’accordo transazionale di condivisione del potere portato avanti da Ennahda e dai rappresentanti del vecchio regime, che a lungo hanno ignorato le grandi sfide socio-economiche del Paese.
  • Ora il governo può sfruttare la buona risposta alla pandemia del COVID-19 per arrivare a un compromesso che distribuisca l’onere delle riforme economiche tra i principali attori politici e i gruppi di interesse.
  • In caso contrario, l’aumento delle tensioni economiche e sociali potrebbe galvanizzare le forze anti-democratiche e destabilizzare la Tunisia.
  • L’Unione Europea dovrebbe aiutare attivamente il governo tunisino a intraprendere la strada delle riforme avviando un dialogo strategico per ridefinire le priorità e individuare gli interessi comuni.

Introduzione

Le elezioni presidenziali e parlamentari che si sono svolte in Tunisia a settembre e ottobre 2019 sono state una pietra miliare del processo di democratizzazione del Paese. L’ascesa di figure antipartitiche e di movimenti radicali ha ricordato alle élite politiche tunisine quanto le profonde disuguaglianze socio-economiche e la corruzione continuino a destabilizzare il fragile sistema politico del Paese. La frammentazione del panorama politico dimostra che il consenso raggiunto nel 2014, che aveva portato stabilità mettendo fine alla polarizzazione, è ormai giunto al capolinea. Molti elettori sono stanchi di un sistema socio-economico e culturale retaggio del regime di Ben Ali e perpetuato dalle élite. Proprio questo rifiuto ha caratterizzato le elezioni del 2019, che hanno visto un netto calo del sostegno ai maggiori partiti tunisini e l’emergere di movimenti poco articolati, alcuni dei quali hanno avanzato richieste radicali su questioni come la moralità nella vita pubblica e la sovranità.

Lo scenario politico è dunque mutato profondamente a seguito delle elezioni. La frammentazione delle forze laiche, unita alla batosta elettorale di Ennahda, ha messo fine ai compromessi transazionali che avevano caratterizzato la politica tunisina nei cinque anni precedenti. La crisi che ha inghiottito i partiti incapaci di soddisfare le richieste del popolo e la sommatoria di vecchie e nuove divisioni politiche hanno generato un ambiente in cui a prevalere è l’incertezza. Il voto di sfiducia del gennaio 2020 nei confronti del primo ministro designato Habib Jemli, sostenuto dagli islamisti, e i ritardi nella formazione di un’amministrazione guidata da Elyes Fakhfakh, hanno evidenziato le difficoltà di formare un governo che sia efficace e stabile e quindi in grado di affrontare i problemi socio-economici che affliggono la Tunisia dal 2011.

Il COVID-19 ha ulteriormente complicato le dinamiche in questo periodo di transizione e aggravato problemi di ormai lunga data come la crisi economica, la disuguaglianza sociale e regionale, l’inadeguatezza dell’assistenza sanitaria e l’instabilità politica, mettendo alla prova le capacità e l’unitarietà della coalizione al potere.

Tuttavia, il COVID-19 potrebbe anche rivelarsi una forza trainante per la ristrutturazione economica, in quanto offre l’opportunità di affrontare sfide di ampio respiro e di creare accordi per distribuire il peso delle dolorose riforme. Nonostante l’inerzia politica degli ultimi anni, sta emergendo un consenso tra le élite tunisine sulla necessità di porre fine alla guerra di logoramento che i gruppi di pressione da tempo conducono contro i tentativi di riforma economica. A meno di accettare importanti compromessi e prendere altre decisioni necessarie per raggiungere questo obiettivo, i leader politici tunisini rischiano di minare ulteriormente la legittimità delle istituzioni statali; l’aumento della tensione economica e sociale che ne deriverebbe potrebbe dare nuovo slancio alle forze antidemocratiche e destabilizzare il Paese. Oggi più che mai, le sfide che la Tunisia deve affrontare richiedono una forte leadership politica.

Questo documento esamina il motivo per cui l’Unione Europea e i suoi Stati membri dovrebbero spingere attivamente il governo tunisino a intraprendere la strada delle riforme. Il terremoto politico è tutt’altro che casuale: si tratta infatti di un fenomeno profondo che sta sconvolgendo il sistema partitico del Paese, come evidenziano la popolarità di piattaforme politiche radicali, l’emergere di nuove divisioni politiche e lo scollamento tra le aspirazioni popolari e i rappresentanti eletti. La Tunisia si trova oggi ad affrontare un momento delicato della transizione. La portata delle sfide che attendono il Paese sarà anche un banco di prova per le relazioni UE-Tunisia. Nel breve termine, l’UE può incoraggiare maggiore flessibilità da parte delle istituzioni finanziarie internazionali nei confronti della Tunisia, al fine di aiutare il Paese a ristrutturare il debito per creare uno spazio politico che permetta al governo di attuare le riforme economiche. Nel lungo periodo, la Tunisia e l’UE dovrebbero impegnarsi in un dialogo strategico che comprenda non solo il commercio e la sicurezza, ma anche gli investimenti, la modernizzazione economica, l’economia verde e la digitalizzazione. Così facendo, l’UE potrebbe diventare l’ancora esterna di cui la Tunisia ha bisogno per consolidare la propria democrazia.

Il voto anti-establishment e un panorama politico frammentato

Le elezioni tunisine del 2019 hanno delineato quello che il politologo Sharan Grewal definisce “un paesaggio politico mutevole, con un sistema di governo frammentato e molti volti nuovi”, afflitto da demagogia e polarizzazione. Il nuovo Parlamento a Palazzo del Bardo è profondamente diviso e mancano le basi per una coalizione di governo. Il nuovo presidente a Palazzo di Cartagine, Kais Saied, è un professore di diritto costituzionale di 61 anni che non ha alcuna esperienza politica né un partito su cui contare per attuare il suo programma.

Questo scenario frammentato, che sembra mancare di una visione chiara e strutturata, è il risultato di anni di declino della credibilità di una classe politica che non è riuscita ad affrontare le sfide più critiche per il Paese. Il netto rifiuto degli elettori nei confronti dei rappresentanti e dei partiti dell’establishment espresso alle urne nel 2019 nasce dalle promesse non mantenute di cinque anni prima, soprattutto per quanto riguarda le riforme sociali ed economiche. A ben guardare, l’esito tanto delle elezioni legislative quanto di quelle presidenziali è una chiara condanna delle élite.

Un Parlamento frammentato

Alle elezioni legislative, che hanno coinvolto 31 partiti o liste elettorali, il vincitore uscente Ennahda (partito di conservatori islamici) e il secondo classificato Qalb Tounes (Cuore della Tunisia), quest’ultimo un nuovo partito laico fondato dal magnate dei media e proprietario di Nessma TV Nabil Karoui, hanno portato a casa rispettivamente solo il 24% e il 18% dei seggi. Tale frammentazione è comprensibile data l’assenza di una soglia elettorale. Ma il nuovo Parlamento segna una rottura significativa se si considera che Nidaa Tounes ed Ennahda detenevano in precedenza rispettivamente il 40% e il 32% dei seggi, e che in totale erano rappresentati 18 partiti o liste elettorali.

Dato che Ennahda e Qalb Tounes ora controllano rispettivamente solo 54 (di cui due grazie a deputati affiliati) e 27 seggi, sono ben al di sotto della soglia di 109 necessaria per la maggioranza assoluta in Parlamento e non sono pertanto in grado di formare un governo da soli, benché siano pronti a formare un’alleanza nonostante abbiano portato avanti una campagna elettorale che li ha visti nettamente contrapposti.

Attayar (Corrente Democratica), un partito liberale anti-corruzione, si è alleato con il Movimento Achaab (Movimento Popolare), un partito socialista, laico e arabo-nazionalista, per aumentare la sua influenza nella coalizione di governo. Tuttavia, le differenze ideologiche impediscono qualsiasi convergenza fatta eccezione per un numero limitato di argomenti come la lotta alla corruzione, il rifiuto delle pratiche delle élite del regime di Ben Ali e la difesa della sovranità economica negli accordi internazionali.

Altri quattro gruppi parlamentari occupano collettivamente 65 seggi:

  • La Coalizione Karama (“Dignità”), un raggruppamento conservatore relativamente rigido, si è classificata al quarto posto, con 19 seggi. La sua ascesa come movimento anti-establishment è sintomatica della frustrazione pubblica nei confronti dei politici, anche alla luce dei compromessi di Ennahda sulle questioni religiose e sui valori della rivoluzione. Forse la caratteristica più importante della Coalizione Karama è lo status di primo grande concorrente elettorale a destra di Ennahda: prima delle elezioni del 2019, Ennahda era l’unico partito religiosamente conservatore rappresentato in Parlamento.
  • Il Partito Destouriano Libero (PDL), con 16 seggi, è l’erede del Raggruppamento Costituzionale Democratico, sciolto nel marzo 2011. Il PDL è un raggruppamento anti-islamista che si oppone alla normalizzazione di Ennahda.
  • La Riforma, con 16 seggi, riunisce i rappresentanti eletti di piccoli partiti oltre a tre membri di Nidaa Tounes. È una forza laica, vicina alla comunità imprenditoriale.
  • Tahya Tounes, con 14 seggi, è la base parlamentare di Youssef Chahed, che ha servito come primo ministro dal luglio 2016 al gennaio 2020 e che ha lasciato Nidaa Tounes nella seconda metà del 2018. Chahed è in conflitto con Karoui, che ritiene l’ex primo ministro responsabile della propria detenzione dal 23 agosto al 10 ottobre 2019 in relazione a un’indagine su frodi fiscali e riciclaggio di denaro. Karoui sostiene infatti che Chahed abbia pianificato l’indagine per impedirgli di fare campagna elettorale.
Tunisia's parliamentary groups (June 2020)

Contrariamente alle elezioni parlamentari, il voto presidenziale ha inferto un duro colpo all’establishment producendo una vittoria schiacciante per un candidato, Saied, che ha sconfitto Karoui con il 72,71% dei voti (2,7 milioni di cittadini). Lo slogan di Saied, “Il popolo vuole”, fa eco alla rivoluzione del 2011 e ha trovato terreno fertile tra i cittadini desiderosi di riprendersi il potere togliendolo a un’élite opportunista che ha portato la democrazia tunisina nella direzione sbagliata. Saied, un professore antipartitico e relativamente sconosciuto, ha riscosso consensi tra la maggioranza dei tunisini intenzionati a punire un’istituzione politica che, ai loro occhi, ha tradito la rivoluzione del 2011 e ha trovato sostegno soprattutto tra i giovani: il 37% degli elettori che hanno votato per lui al primo turno delle elezioni presidenziali hanno tra i 18 e i 25 anni.

Saied rappresenta una sorta di “boomerang della rivoluzione”: avendo costruito la sua vittoria sull’estraneità al sistema politico dei partiti, sembra intenzionato a non utilizzare la presidenza per crearne uno suo. Se, da un lato, l’indipendenza è probabilmente una delle ragioni del suo successo, dall’altro essa lo priva di alleati all’interno delle istituzioni, in quanto il suo potere deriva esclusivamente dal risultato delle urne e dalla sua relativa popolarità tra gli elettori.

La fine del “patto di transizione”

Negli anni successivi alla rivoluzione del 2011 la scena politica tunisina si è organizzata in funzione dell’opposizione tra i “modernisti” liberali e di sinistra e gli “islamisti” rappresentati da Ennahda. Nell’estate 2013, al culmine della tensione tra le due fazioni, Ennahda e i rappresentanti del vecchio regime hanno optato per una soluzione pragmatica, raggiungendo un accordo di scambio per condividere il potere fondato sulla normalizzazione di Ennahda in cambio della reintegrazione dell’ex élite all’interno di quello che è stato descritto come un “patto di transizione”. Il modello del consenso emerso nel 2014 ha riunito i principali rappresentanti delle due parti in un governo unitario, ponendo fine a un periodo di accesa polarizzazione politica ma senza affrontare né i limiti di Ennahda e Nidaa Tounes né la mancanza di credibilità dell’élite politica. Le elezioni del 2019 potrebbero aver finalmente messo fine a questo patto di transizione.

Il modello del consenso vanta pochi successi in termini di riforme sociali ed economiche soprattutto a causa dello stato di crisi permanente di Nidaa Tounes che, incapace di rinnovarsi, è stato dilaniato da guerre interne tra clan contrapposti, come nel caso dei sostenitori dell’ex presidente Beji Caid Essebsi, fondatore del partito, e Chahed.

Ennahda, nel frattempo, non è riuscita a dare vita a un programma di riforme economiche e sociali che avrebbe permesso di organizzare i “perdenti” del processo di modernizzazione, ovvero i poveri delle campagne e la classe medio-bassa delle aree periurbane, in una base di stampo religioso. Dopo essere stato al governo dal 2011 al 2019 (con la parentesi del governo tecnocratico di Mehdi Jomaa da gennaio 2014 a febbraio 2015), Ennahda ha perso la sua identità come movimento di protesta per dedicare tutte le sue energie a preservare il potere e a gestire le controversie interne su chi sarebbe succeduto a Rached Ghannouchi alla presidenza.

Il modello del consenso è stato essenziale per stabilizzare il Paese, ma ha di fatto paralizzato gli sforzi volti ad affrontare le sfide economiche, in quanto le parti si sono astenute dal prendere decisioni coraggiose per non farsi carico dei costi delle riforme, preferendo invece impegnarsi nella lotta per il controllo delle risorse statali. L’incapacità di affrontare le disuguaglianze regionali e i problemi economici profondi e di lunga data ha segnato l’avvio di un persistente declino economico. La situazione finanziaria del Paese è diventata insostenibile, in quanto la spesa pubblica è passata dal 24% del PIL nel 2011 al 30% nel 2018, mentre il gettito fiscale è aumentato del 23-25% nello stesso periodo. I conseguenti squilibri finanziari hanno causato un aumento del debito estero dal 44,5% del PIL nel 2011 all’85,5% nel 2019. Anche la spesa pubblica è aumentata, ma ne hanno beneficiato soprattutto i dipendenti statali, ad esempio attraverso l’aumento degli stipendi e delle indennità per il settore pubblico, piuttosto che i disoccupati o gli abitanti delle zone più interne del Paese, da sempre trascurati. Dopo la rivoluzione, quasi ogni anno le popolazioni delle zone più interne del Paese hanno organizzato grandi proteste e l’emigrazione irregolare è aumentata.

Gli architetti del modello del consenso non solo sono venuti meno alle promesse di creare un governo più efficace, ma si sono anche aggrappati al potere attraverso negoziati opachi tra le élite e compromessi volti a mantenere lo status quo, escludendo i movimenti di protesta dal processo di elaborazione delle politiche pubbliche e rapportandosi con loro esclusivamente in termini di clientelismo e solo nel breve periodo. Il modello del consenso avrà anche stabilizzato la politica tunisina dopo il 2013, ma ha inasprito le questioni sociali aumentando il malcontento popolare; ha sì rafforzato la base parlamentare del governo, ma ha anche ampliato il divario tra i partiti e le relative circoscrizioni. La crescente disillusione dei tunisini nei confronti del processo politico ha così determinato l’esito delle elezioni parlamentari del 2019, da cui tutte le parti coinvolte nel processo di transizione sono uscite sconfitte.

Nidaa Tounes, che ha ottenuto 86 seggi in Parlamento nel 2014 (prima che le divisioni interne li riducessero ad appena 25), ne ha conquistati solo tre alle elezioni del 2019. I partiti lanciati da Nidaa Tounes, Tahya Tounes e Machrou Tounes, hanno registrato un tracollo passando rispettivamente da 43 seggi a 14 e da 15 a 4. Ancora peggio è andata ai partner della coalizione junior: la Free Patriotic Union ha perso tutti e 16 i seggi che deteneva e Afek Tounes ne ha mantenuti solo due su otto. La frustrazione generata dai compromessi raggiunti da Nidaa Tounes ha contribuito anche all’ascesa dei neoliberali Qalb Tounes e dell’autoritario PDL di Abir Moussi, entrambi sostenitori della richiesta originaria di Nidaa Tounes per la rinascita di un forte stato “bourguibista” (così chiamato per la politica laica dell’ex presidente Habib Bourguiba).

Disincanto verso i partiti dell’establishment, non verso la democrazia

Lo sconvolgimento del panorama politico non è l’unico effetto del malcontento dei cittadini rispetto al patto di transizione. Negli ultimi anni l’affluenza alle urne è diminuita significativamente, passando dal 67,7% delle elezioni legislative del 2014 ad appena il 35% delle elezioni comunali del 2018.

Voter turnout in Tunisia

Il netto contrasto tra le manovre autoreferenziali delle élite e il significativo declino socio-economico ha suscitato in alcuni osservatori la preoccupazione che i tunisini possano diventare sempre più favorevoli a una soluzione autoritaria. Ad esempio, secondo un sondaggio pubblicato da Afrobarometer nel settembre 2018, “insieme alla percezione di un mancato miglioramento della capacità del governo di gestire le principali sfide che il Paese deve affrontare, assistiamo a un drastico declino del sostegno alla democrazia da parte dei tunisini”. Solo il 46% degli intervistati ha dichiarato di preferire la democrazia a qualsiasi altra forma di governo, con un calo di 15 punti percentuali rispetto al 2013. Tuttavia, il fatto che il PDL, apertamente ostile alla rivoluzione, abbia ottenuto appena il 6% dei voti nelle elezioni parlamentari del 2019 suggerisce che, finora, il sostegno all’autoritarismo tra i tunisini resta molto contenuto.

Le elezioni del 2019 riflettono dunque il disincanto nei confronti dei partiti dell’establishment piuttosto che della democrazia stessa. I tunisini non contestano tanto i principi democratici quanto la forma che essi hanno assunto dal 2014, caratterizzata da un cartello di partiti politici che monopolizzano il potere con il pretesto del consenso. L’esito delle elezioni del 2019 offre ora l’opportunità di correggere la traiettoria del processo democratico, come fanno sperare diverse dinamiche in atto. L’affluenza alle urne per il ballottaggio presidenziale tra Karoui e Saied è stata la più alta dal 2011, con 3,8 milioni di votanti. Al primo turno Saied è stato sostenuto anche dal 32,9% dei cittadini che non avevano votato nel 2014 e dal 13,3% dei nuovi iscritti. Questi risultati riflettono il desiderio diffuso di un profondo rinnovamento politico, di un governo efficiente e di una migliore politica pubblica.

Nonostante la delusione dell’opinione pubblica verso la politica a partire dal 2011, l’affluenza alle urne nelle elezioni parlamentari e presidenziali del 2019 dimostra un impegno verso la democrazia. I tunisini hanno ancora fiducia nella loro capacità di influenzare la politica, che deve però trovare conferma nel sistema democratico. Il consolidamento della democrazia in Tunisia richiederà una maggiore rappresentanza delle grandi fasce di popolazione tradizionalmente emarginate e un nuovo approccio per affrontare le sfide sociali, economiche e culturali del Paese.

Un sistema partitico in frantumi

All’indomani delle elezioni del 2019, sarebbe fuorviante dividere il sistema politico in base all’opposizione tra partiti islamisti e partiti laici. La Colazione per la Dignità, ad esempio, va oltre un’agenda politica esclusivamente islamista, in quanto i suoi membri sottolineano la necessità di lasciarsi alle spalle il sistema socio-economico e culturale del regime di Ben Ali, assumendo una posizione a metà tra gli ideali sovranisti e il conservatorismo culturale. Inoltre, le aspirazioni della popolazione in materia di efficacia di governo, sovranità nazionale e moralità nella vita pubblica attirano l’attenzione di un ampio spettro di forze politiche, che vanno dagli ultra-secolaristi agli ultra-conservatori, troppo diversi per ipotizzare di costruire una piattaforma politica comune. L’interazione tra vecchie e nuove divisioni ha creato uno scenario politico di profonda incertezza.

Partiti politici scollegati dalla società

I partiti che si sono formati sotto il regime di Ben Ali, sia legalmente sia in segreto, hanno patito il retaggio di un sistema autoritario che aveva impedito loro di ottenere il sostegno popolare e, ad eccezione di Ennahda, sono scomparsi dalla scena politica dopo la rivoluzione.

Le pratiche democratiche del post-2011 hanno fatto poco per colmare il divario tra i partiti e la popolazione. Le proteste pubbliche incentrate su questioni specifiche (come l’accesso all’impiego, all’acqua e al reddito da risorse naturali) e le iniziative comunitarie non sono sfociate in una rappresentanza politica organizzata. Anche la sinistra di ispirazione marxista non è riuscita a uscire dai confini dei circoli intellettuali e della burocrazia sindacale.

Nella maggior parte dei casi, i partiti che sono emersi dalla rivoluzione sono la creazione di personaggi di alto profilo in cerca di un veicolo per soddisfare un’ambizione personale. Per tutte queste ragioni i partiti non sono riusciti ad affermarsi tra il pubblico.

Ennahda è sopravvissuta ai suoi alleati di un tempo grazie a una base ben organizzata e consolidata e alla fedeltà dei suoi sostenitori, ai quali fornisce un’identità politica segnata dall’esperienza traumatica della repressione. Il deludente risultato del candidato di Ennahda alle elezioni presidenziali e la perdita dei seggi in parlamento riflettono l’incapacità di ampliare la base elettorale del partito attraverso un programma politico rinnovato, sfociata nelle divisioni interne e in un indebolimento complessivo.

Ennahda's declining popularity (number of votes)

Qalb Tounes non ha ancora indetto una conferenza del partito, ma ha già conquistato terreno erodendo parte del territorio politico di Nidaa Tounes grazie a un’identità modernista propria. Il suo successo è dovuto principalmente a un’iniziativa benefica autocelebrativa lanciata da Karoui nel 2017 e promossa da Nessma TV. Particolarmente attivo nei governatorati del nord-ovest (che sono tra i più svantaggiati del Paese), il partito ha assunto, grazie a una attenta operazione mediatica, il ruolo di portavoce delle richieste popolari di riforme sociali ed economiche efficaci. Tuttavia, questo esercizio di clientelismo non fornisce alcuna nuova risposta alle sfide sociali. Coloro che si sono avvicinati a Karoui per calcoli opportunistici hanno di fatto indebolito la rappresentanza parlamentare del partito, che aveva perso un quarto dei deputati già alle elezioni dello scorso anno.

A seguito del declino e delle tensioni interne di Ennahda e Qalb Tounes, tematiche ritenute fondamentali dall’opinione pubblica per promuovere le riforme sociali, come la sovranità nazionale e la moralità nella vita pubblica, sono uscite all’agenda del governo. D’altro canto, le forze politiche disposte a farsene carico sono troppo eterogenee per offrire una valida alternativa.

Grandi ambizioni popolari senza rappresentanza politica

Il tema della sovranità nazionale, di cui Saied si è fatto paladino, ha trovato slancio nel dibattito pubblico degli ultimi mesi, dopo essere stato uno degli argomenti di punta delle forze politiche emergenti alle elezioni del 2019, sebbene utilizzato in modo scoordinato e talvolta demagogico. La Coalizione Karama ha ormai sostituito Ennahda come movimento di protesta. Il PDL vede la rivoluzione come una cospirazione internazionale e vuole cancellarne le conquiste. Il Movimento Popolare condivide l’ostilità dei partiti panarabisti nei confronti dell’influenza occidentale.

Il deterioramento della situazione fiscale e della bilancia dei pagamenti tunisina ha trascinato il Paese in una spirale di indebitamento, tanto da costringerlo per ben due volte a chiedere il sostegno del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che è stato concesso in cambio dell’impegno a riformare le finanze pubbliche e a intraprendere riforme economiche strutturali.

La dipendenza finanziaria e l’interferenza straniera nei dibattiti interni su questioni quali la criminalizzazione dell’omosessualità e l’uguaglianza di genere nella successione ereditaria hanno generato ostilità nell’opinione pubblica. Questo ha probabilmente contribuito a dare peso alla tematica della sovranità nelle campagne elettorali dell’anno scorso. Ma i dibattiti sulla sovranità rivelano anche la mancanza di una strategia nazionale per far fronte alle richieste della popolazione, indebolendo la posizione del governo tunisino nei negoziati internazionali.

L’altra accorata richiesta popolare emersa dalla campagna elettorale ha riguardato la moralità nella vita pubblica, con particolare riferimento alla corruzione che ostacola il cambiamento strutturale per mantenere il controllo di un’economia rentier. L’importanza della questione è stata la chiave del successo della Corrente Democratica nelle elezioni parlamentari e ha contribuito alla vittoria di Saied nella corsa alla presidenza.

L’ascesa di Saied, partito da una posizione politica del tutto periferica, e la sua mancanza di legami con l’establishment lo hanno aiutato a diventare simbolo delle aspirazioni dell’elettorato. La sua immagine poggia su austerità personale, vicinanza al popolo, impegno nella lotta contro la corruzione e a favore degli ideali della rivoluzione, nonché sulla sua posizione in materia di sovranità. Saied incarna concetti come l’uguaglianza davanti alla legge in virtù della sua professione, l’imparzialità e la neutralità dello Stato nel suo rifiuto della logica politica partitica che strumentalizza lo Stato, così come l’appartenenza culturale attraverso l’uso dell’arabo letterario (a volte a scapito di una comunicazione chiara). Se la sua assenza dalle lotte politiche di partito e, di conseguenza, la sua mancanza di un gruppo affiliato in Parlamento limitano la sua influenza negli affari pubblici, Saied resta comunque sensibile alle priorità della classe operaia e degli elettori più giovani. Qualora le preoccupazioni della popolazione non si traducessero però in politiche adeguate, esiste il rischio di una deriva demagogica e di una rivalità tra le élite che allontanerebbe il Paese dalla democrazia a scapito dello Stato e del popolo.

Un’era di stabile incertezza

Come già spiegato, il panorama partitico emerso dalle elezioni del 2019 impedisce a Ennahda di formare un governo di coalizione. La fragilità della coalizione di governo di Fakhfakh ha aumentato la tensione tra il ramo esecutivo e quello legislativo. Sebbene la costituzione tunisina sia stata concepita per ricomporre tale tensione attraverso un equilibrio di potere, lo scollamento tra le preoccupazioni dell’opinione pubblica e la rappresentanza partitica minaccia l’intero sistema.

Governo di minoranza

All’indomani delle elezioni del 2019, Ennahda ha stretto un’alleanza una tantum con Qalb Tounes e la Coalizione Karama per eleggere Ghannouchi come presidente dell’assemblea, posizione chiave per assicurare il coordinamento tra governo e parlamento. Tuttavia il partito non è riuscito a trovare il sostegno necessario per il suo candidato al ruolo di primo ministro, un tentativo che le spettava in qualità di principale partito in Parlamento. Jemli, che è stato Ministro per l’agricoltura dopo la rivoluzione, non ha saputo superare la diffidenza tra Ennada e i suoi principali alleati, la Corrente Democratica e il Movimento Popolare, per formare un governo di coalizione. Quando poi non è riuscito a convincerli nemmeno di essere abbastanza indipendente per entrare a fare parte di un gruppo di “esperti” selezionati in base alla loro competenza, integrità e indipendenza, ha compreso che non ci sarebbe stato modo di costruire una coalizione di governo sotto la sua guida.

Il 10 gennaio 2020 un voto parlamentare di sfiducia nei confronti di Jemli ha messo in luce per Ennahda la mancanza di alleati naturali, la sua eccessiva attenzione alle tensioni interne e la tendenza a scendere a compromessi con gli oppositori per rimanere al potere (cosa che ha aumentato le tensioni ed eroso la sua base elettorale). Dopo la votazione, Saied ha potuto intervenire per individuare il candidato “giudicato maggiormente in grado di formare un governo”, così come previsto dalla costituzione. Questo ha spianato la strada a Fakhfakh, benché egli fosse membro di un partito che non aveva seggi in Parlamento e che ha ricevuto solo lo 0,34% dei voti alle elezioni presidenziali del 2019 (il Forum Democratico per il Lavoro e la Libertà, che è stato membro della troika al governo dal 2011 al 2014).

Saied e Fakhfakh condividono, tra le altre cose, la stessa preoccupazione per le questioni sociali e per la necessità di porre fine al dominio dei partiti dell’establishment. Dopo settimane di intense trattative, Fakhfakh si è assicurato il sostegno parlamentare di un governo formato da dieci tra partiti e indipendenti. Questo mosaico di rappresentanti politici e tecnocrati indipendenti ha lasciato fuori Qalb Tounes e la Coalizione Karama. Il governo di coalizione è strutturato in base a un’alleanza tra Fakhfakh e il Blocco Democratico formato principalmente dalla Corrente Democratica e dal Movimento Popolare, che condividono un’agenda ampiamente riformista e anti-corruzione. Escluso dalle decisioni strategiche del governo, Ennahda sembra ormai relegato a una posizione scomoda volta a garantire il sostegno al governo in Parlamento, stretto tra una coalizione governativa in cui non svolge un ruolo centrale e un’alleanza parlamentare (con Qalb Tounes e la Coalizione Karama) che è stata fondamentale per l’elezione di Ghannouchi a presidente del Parlamento.

La coalizione di governo è altamente instabile a causa delle rivalità radicate e delle differenze ideologiche tra i suoi membri. Appena nominato, Fakhfakh ha esplicitamente liquidato il modello del consenso escludendo Qalb Tounes e la Coalizione Karama, trovandosi così a capo di un governo che Ennahda avrebbe voluto composto in maniera diversa. L’esclusione di Qalb Tounes dal governo è dovuta tanto ai problemi legali di Karoui che all’opposizione di Saied al partito in quanto paladino della moralità nella vita pubblica.

Ennahda non ha fatto mistero del suo desiderio di voler includere Qalb Tounes e la Coalizione Karama nella coalizione di governo, ma la perdita di influenza dei tre partiti in Parlamento, soprattutto dopo un’ondata di dimissioni dei deputati di Qalb Tounes, ha impedito la formazione di un governo alternativo.

La crisi sanitaria, economica e sociale creata dal COVID-19, che ha colpito la Tunisia all’inizio di marzo, ha temporaneamente allentato alcune delle pressioni politiche del partito sul governo di Fakhfakh. Ma la tensione tra i gruppi parlamentari rivali è destinata a durare a lungo.

Concorrenza estenuante tra centri di potere

La costituzione tunisina ha lo scopo di impedire la rinascita di un governo ad personam e il dominio di un unico partito. Per contrastare tali rischi, i membri dell’Assemblea Costituente hanno limitato l’influenza del Parlamento istituendo per il Presidente, eletto a suffragio universale per rafforzarne la legittimità, poteri autonomi in materia di difesa e di affari esteri. Il governo si colloca nel punto di equilibrio tra il potere parlamentare e quello presidenziale.

Le elezioni del 2019, tuttavia, hanno dato vita a due fonti di legittimazione concorrenti: la prima è il Parlamento, gestita da vecchi partiti politici in difficoltà, la seconda è rappresentata dalla figura del presidente che, come già detto, gode di grande sostegno popolare ma manca di un appoggio parlamentare.

La presidenza e il Parlamento si contendono l’influenza sulla coalizione di governo. La posta in gioco è il controllo dell’agenda parlamentare e quindi delle riforme. In chiave strategica, Ennahda teme una perdita di influenza all’interno della coalizione di governo, che minaccerebbe i suoi sforzi di integrazione e ne indebolirebbe la capacità di controllare le risorse statali e le nomine amministrative, cosa che si rifletterebbe inevitabilmente sulle reti di clientelismo e sulle prospettive di successo alle urne.

All’inizio, lo scoppio della pandemia sembrava aver intensificato la rivalità tra il nuovo primo ministro ed Ennahda. Il partito temeva che Fakhfakh avrebbe cercato di ottenere il controllo per consolidare la sua posizione e diventare così la figura di potere di riferimento. Invece, dopo settimane di trattative, il Parlamento ha votato autorizzandolo a governare per decreto durante la crisi, seppure ponendo alcuni vincoli.

La buona gestione della pandemia ha permesso al governo di guadagnare terreno. La crisi sanitaria ne ha rivelato capacità decisionali e attuative concrete, sotto la supervisione di un primo ministro che ha fornito una forte leadership, rafforzando così la sua stessa legittimità. Come ha dimostrato il successo del governo nella gestione della crisi sanitaria, l’efficienza governativa è indispensabile per rafforzare la legittimità del sistema politico.

Con la fine dell’isolamento, però, le divisioni politiche stanno riemergendo e paiono anzi intensificate. Questo ritorno alla normalità politica sembra accompagnato da una rinnovata esasperazione delle rivalità di partito, a scapito degli sforzi volti ad affrontare le preoccupazioni dell’opinione pubblica. A questo contribuisce anche l’escalation delle rivalità geopolitiche in Libia. Il 3 giugno il PDL ha infatti presentato una mozione parlamentare di denuncia contro l’intervento turco in Libia. La mozione, che ha ricevuto il sostegno di 94 deputati tra cui alcuni membri della coalizione di governo, ha aumentato la polarizzazione e ha ulteriormente indebolito la coalizione di governo ed è stata ampiamente considerata una sfida diretta a Ennahda. Ghannouchi ha reagito chiedendo la ridefinizione della coalizione per renderla più coerente e creare un senso di solidarietà tra i suoi membri; egli ha inoltre esortato l’inclusione di Qalb Tounes e della Coalizione Karama nella coalizione al potere, criticando apertamente Tahya Tounes e i deputati che hanno votato a favore della mozione.

Queste divisioni politiche sono state aggravate dalle rivalità e dall’assenza di coordinamento tra il presidente, il primo ministro e lo speaker del parlamento, reso invece particolarmente necessario dal clima attuale, per almeno due motivi. Il primo riguarda la necessità di rafforzare la coalizione di governo per sostenere le proposte di legge in Parlamento, cosa che darebbe a Fakhfakh la libertà di avviare le riforme. Il secondo riguarda invece la necessità di evitare agende conflittuali nei prossimi mesi, soprattutto da quando Saied ha annunciato che presenterà al Parlamento progetti di legge per soddisfare le richieste popolari relative ai servizi pubblici, alla sicurezza sociale e all’attuazione delle raccomandazioni della commissione di giustizia di transizione. Ghannouchi, indebolito dagli sforzi dei parlamentari rivali diretti a ottenere nei suoi confronti un voto di sfiducia, vorrebbe migliorare il suo rapporto con il presidente e il capo della coalizione di governo per mantenere la sua posizione.

Il coordinamento tra i tre leader porrebbe fine in larga misura alla concorrenza tra i rispettivi centri di potere, un passo necessario per l’attuazione di un programma di ripresa economica.

La crisi del COVID-19 come opportunità di riforma

All’inizio di marzo, pochi giorni dopo aver ottenuto il voto di fiducia del parlamento, il governo guidato da Fakhfakh è venuto a conoscenza del primo caso confermato di coronavirus in Tunisia. Temendo il collasso del sistema sanitario pubblico, l’amministrazione ha adottato un approccio proattivo per prevenire la diffusione del virus. A metà marzo il governo ha così sospeso tutti i voli internazionali e chiuso i confini, così come le scuole, i ristoranti e le moschee e ha annullato gli incontri pubblici e gli eventi culturali e sportivi, introducendo inoltre il coprifuoco notturno. Queste misure rigorose, che hanno in gran parte bloccato il Paese, si sono dimostrate efficaci nel controllare la diffusione della pandemia. Il 17 giugno la Tunisia registrava solo 1.128 casi confermati di COVID-19 e 50 decessi.

L’impatto della pandemia sulle sfide economiche della Tunisia

Se, da un lato, le misure restrittive del governo si sono dimostrate efficaci, dall’altro la pandemia sta aggravando però le disuguaglianze. Ciò è particolarmente evidente nell’accesso ai servizi sanitari. All’inizio della crisi il Paese disponeva di 331 posti letto di terapia intensiva, pari ad appena tre ogni 100.000 cittadini, di cui nessuno nelle regioni interne e di confine del Paese, a lungo trascurate.

Inoltre, la pandemia ha aumentato la pressione economica su un Paese che già si trovava ad affrontare difficoltà importanti, ad esempio nelle finanze pubbliche. Il COVID-19 ha avuto un forte impatto sull’economia, colpendo principalmente i gruppi sociali più fragili. L’attività economica informale, che rappresenta quasi il 40% del PIL e occupa circa il 32% della forza lavoro, è diminuita del 60% dall’inizio della crisi. Un terzo delle famiglie dichiara di aver dovuto ridurre la qualità e la quantità del cibo durante l’isolamento.

I danni all’economia formale sono particolarmente evidenti nel settore del turismo, che dal 2019 ha registrato un calo del 23%. Nel 2019 il turismo rappresentava il 5% del PIL e impiegava il 4,5% dell’intera forza lavoro. Gli esperti prevedono che il settore non tornerà alla normalità prima del 2022 – e si tratta di una previsione ottimistica. Anche il settore manifatturiero, che rappresenta circa il 18,5% della forza lavoro impiegata e il 15% del PIL, è sottoposta a forte pressione a causa delle interruzioni delle supply chain globali e del lockdown in Europa. Le esportazioni tunisine sono diminuite dell’8% quest’anno, principalmente a causa di un forte calo della domanda europea, nonché della chiusura degli impianti di produzione che hanno accompagnato l’evoluzione dell’epidemia di COVID-19. L’interruzione delle attività produttive causerà molto probabilmente il licenziamento dei lavoratori assunti a tempo determinato. Inoltre il virus ha avuto un impatto molto significativo anche sull’industria aerea, aggravando i problemi della compagnia di bandiera Tunisair.

Questi sviluppi disastrosi hanno spinto il governo a dare priorità al sostegno dell’economia. Il governo di Fakhfakh ha rapidamente annunciato un pacchetto di aiuti del valore di 2,5 miliardi di dinari (876 milioni di dollari) per salvaguardare le imprese e preservare i posti di lavoro e ha inoltre stanziato 150 milioni di dinari (53 milioni di dollari) per l’assistenza sociale diretta, erogata tramite bonifici del valore di 200 dinari (70 dollari) a favore delle 700.000 persone le cui attività sono state sospese a causa del lockdown.

Organizzazioni come il FMI, la Banca Mondiale e l’UE hanno concesso collettivamente alla Tunisia circa 1,4 miliardi di dollari in aiuti, di cui $745 milioni dall’FMI e €600 milioni stanziati dalla Commissione Europea come pacchetto di assistenza macro-finanziaria. Tuttavia, ciò non è sufficiente a compensare gli effetti della pandemia in Tunisia.

La crisi rischia di esacerbare i problemi economici strutturali con cui il Paese lotta da oltre un decennio, tra cui il calo del tasso di crescita del PIL, un’elevata disoccupazione, bassi livelli di investimento e un aumento del debito pubblico. Secondo l’FMI, la crescita diminuirà dal 2,7% nel 2019 al -4,3% nel 2020. Il tasso medio di crescita del PIL è rimasto fermo all’1,8% tra il 2011 e il 2019, rispetto al 4,6% circa tra il 2005 e il 2010. Il tasso di disoccupazione raggiungerà probabilmente il 21,6% nel 2020, con 274.500 persone in più senza lavoro, in aumento rispetto al 15,5% circa del 2016 e al 13% del 2010. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, il tasso di povertà aumenterà dal 15% nel 2019 al 19,2% nel 2020.

La Tunisia soffrirà anche della recessione in paesi europei come la Francia e l’Italia, a cui è strettamente legata tramite investimenti, rimesse ed esportazioni. Gli economisti stimano che gli investimenti diretti esteri in Tunisia diminuiranno del 30-40%. Questo, oltre a un calo delle rimesse e un aumento della spesa pubblica, amplierà gli squilibri macroeconomici e aumenterà il debito pubblico, che dovrebbe raggiungere il 90% del PIL nel 2020, rispetto al 40% nel 2010 e al 73% nel 2019.

Riforme pubbliche in momenti di turbolenza

La precaria situazione economica limita il margine di manovra del governo tunisino nel tentativo di attuare riforme ambiziose che vanno dal settore pubblico, con focus sulle imprese statali, a un sistema rentier che danneggia l’ambiente imprenditoriale e riduce gli investimenti, a questioni di giustizia sociale come l’integrazione dei gruppi emarginati (non ultimi i disoccupati e le persone che lavorano nell’economia informale e nell’interno).

Nel prossimo futuro, la ristrutturazione del debito offrirebbe al governo, che sta attualmente lavorando a un piano di ripresa per il periodo 2021-2025, lo spazio politico di cui ha bisogno.

Il programma in cantiere dovrebbe anche offrire l’opportunità di attuare riforme strutturali. Piuttosto che concentrarsi su soluzioni rapide, le misure per la ripresa dovrebbero affrontare i problemi sistemici che affliggono il Paese da quasi un decennio. Ciò vale in particolare per la situazione fiscale, che da tempo richiede una riforma volta a gestire il deficit. La riforma del sistema fiscale sembra ormai inevitabile, anche alla luce di quanto affermato da Fakhfakh nel giugno 2020 riguardo al fatto che il debito estero ha ormai raggiunto “livelli pericolosi” e sta diventando insostenibile. La Tunisia ha bisogno di 4,5 miliardi e mezzo di dinari (1,6 miliardi di dollari) per finanziare il suo programma di ripresa e superare le difficoltà finanziarie. In tale contesto, anche la riforma delle imprese statali, le cui perdite aumentano il peso del debito pubblico, è diventata una priorità assoluta.

Tra il 2011 e il 2019, i vari governi tunisini che si sono succeduti hanno dovuto fungere da datori di lavoro di ultima istanza, aumentando significativamente le dimensioni del settore pubblico. Più di 90.000 persone, la maggior parte delle quali erano in precedenza lavoratori a contratto, sono entrate nel settore pubblico nel 2011 e nel 2012. Questo raddoppio delle assunzioni annuali ha portato a 616.000 il numero dei dipendenti del settore (escluse le aziende di proprietà pubblica). Insieme alle promozioni e agli aumenti salariali, la spinta alle assunzioni ha portato a un aumento della spesa per le retribuzioni del settore pubblico dall’11,8% del PIL nel 2011 al 14% nel 2019.

La governance delle imprese statali rappresenta un’altra grande sfida. A seguito della crisi del COVID-19, il governo ha annunciato un piano di salvataggio per ristrutturare queste società, compresa Tunisair. Il processo non sarà facile, dato che il reclutamento massiccio nel settore pubblico è stato uno strumento chiave per la distribuzione della ricchezza e il controllo esercitato dello Stato dall’indipendenza in poi, anche se è leggermente diminuito dopo gli aggiustamenti strutturali della metà degli anni ’80. Nonostante un peso importante sull’economia, l’occupazione nel settore pubblico si è dimostrata insostenibile dal punto di vista fiscale e inefficace nel prevenire lamentele di tipo socio-economico. Sebbene questo fosse emerso con grande chiarezza durante la rivoluzione del 2011, i governi al potere hanno continuato a perpetuare il vecchio sistema, aumentando le assunzioni pubbliche per alimentare le reti di clientelismo e garantire un minimo di armonia sociale.

Con lo smantellamento del sistema rentier, il governo libererebbe il potenziale di investimento della Tunisia. Dal 2011 in poi la concorrenza politica ha spinto i partiti politici ad affidarsi alle imprese per i finanziamenti, fornendo loro in cambio privilegi economici. Questi accordi hanno garantito i profitti delle imprese dotate di buoni contatti politici sotto il pretesto del pluralismo. Il deterioramento del contesto imprenditoriale e la prevalenza del clientelismo hanno spinto le aziende private a spostare le loro attività in settori relativamente improduttivi. Lungi dallo smantellare il sistema del mecenatismo, il pluralismo ha al contrario consolidato la posizione di nuovi gruppi di interesse legati alle élite politiche e imprenditoriali.

Nell’ambito del suo piano di assistenza ai disoccupati e ai cittadini che lavorano nel settore informale, il governo prevede di fornire a centinaia di migliaia di tunisini l’accesso ai diritti di proprietà attraverso un condono sulle case costruite decenni fa, aiutandoli così ad aprire conti bancari e ad accedere al più ampio settore finanziario. Il governo prevede anche di distribuire terreni di proprietà dello Stato ai giovani disoccupati incoraggiandoli a organizzarsi secondo principi di solidarietà sociale ed economica. A tal fine, il 18 giugno il Parlamento ha approvato una legge sulla solidarietà sociale ed economica che mira a creare più di 200.000 posti di lavoro e ad aumentare il PIL del 10% nei prossimi anni.

Nonostante le divisioni all’interno della coalizione di governo, la crisi economica scatenata dalla pandemia potrebbe offrire alla Tunisia l’opportunità di attuare queste riforme coraggiose e necessarie. Tuttavia, la sfida sarà notevole data la fragilità del contesto politico e la frammentazione del Parlamento, e richiederà al governo di costruire una coalizione per il cambiamento basata su un accordo di condivisione degli oneri tra i gruppi sociali. Questo approccio sarà particolarmente importante dato che il governo sarà probabilmente costretto ad attuare misure di austerità impopolari. Il 14 giugno il primo ministro ha annunciato che il settore pubblico sarà soggetto a un congelamento degli stipendi e, potenzialmente, a tagli salariali se la situazione non migliorerà.

La crisi potrebbe rendere alcune circoscrizioni più aperte al cambiamento, ma solo se i leader politici sapranno proporre una visione chiara e formulare in maniera convincente la necessità di superare queste sfide. Il governo dovrà assicurarsi il sostegno della Confederazione Tunisina dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato (UTICA) nonché quello dell’Unione Generale Tunisina del Lavoro (UGTT), che a partire dal 2014 hanno drasticamente limitato la capacità dei governi di realizzare riforme economiche. Tra il 2014 e il 2019 i politici erano spesso ansiosi di assicurarsi il sostegno di tali organizzazioni per rimanere in carica ed erano quindi poco inclini ad assumere posizioni antagonistiche. Dopo aver mediato le discussioni sul modello di consenso emerso nel 2014, l’UGTT e l’UTICA hanno ottenuto il potere di veto su alcune decisioni del governo. Ciò è stato particolarmente evidente in relazione alla privatizzazione delle imprese statali, che l’UGTT ha respinto. L’organizzazione sostiene di essere contraria per motivi di tutela dei posti di lavoro; tuttavia, questa opposizione è spesso avvenuta a scapito della redditività finanziaria delle imprese statali.

Finora le élite economiche si sono rifiutate di accettare tasse più elevate per le grandi imprese e i proprietari immobiliari. Di conseguenza, la ristrutturazione fiscale si è generalmente basata su un aumento delle imposte indirette e su una riduzione della spesa pubblica. Ciò ha scaricato l’onere della riforma sui ceti medio-bassi minando il sostegno popolare alla riforma fiscale. Dato che le imposte sui consumi forniscono circa il 57% del gettito fiscale totale (mentre il resto proviene dalle imposte dirette), il governo deve ora raccogliere le risorse di cui ha bisogno, distribuendo al contempo l’onere di questo cambiamento tra le varie classi socio-economiche. Tuttavia, considerata l’esitazione dei governi precedenti ad aumentare le tasse per i ceti più abbienti e la fragilità della coalizione di governo, resta da vedere se l’attuale leadership attuerà questa misura.

Sulla scia delle elezioni del 2019, le riforme economiche dipenderanno fortemente dai negoziati e dai compromessi all’interno del sistema di governance tunisino. La chiave risiede nel trovare il consenso necessario per portare avanti riforme dolorose. Tuttavia, a differenza di quanto accaduto nel 2014-2019, questa volta il governo non avrà grande libertà di movimento dal punto di vista finanziario per placare le classi medie che dipendono dallo Stato, ovvero la principale circoscrizione dell’UGTT, offrendo salari più alti, maggiore occupazione pubblica o sussidi, né potrà comprare l’approvazione delle élite economiche rappresentate dall’UTICA.

La Tunisia dovrebbe sfruttare le forme istituzionalizzate di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro per negoziare la distribuzione del peso delle riforme economiche, cercando un consenso socio-economico e aprendo al governo uno spazio politico di cui vi è bisogno. Le divisioni all’interno della coalizione di governo potrebbero ostacolare questi tentativi, ma il governo non ha altra scelta che investire capitale politico in questo sforzo. La sfida principale consisterà nell’includere l’UGTT e l’UTICA in un accordo di ampio respiro, gestendo interessi contrastanti.

In un ambiente politico segnato dal crollo del modello del consenso e dall’aumento della sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti dei partiti dell’establishment, il governo dovrebbe avviare un dibattito strategico sul modello di sviluppo da seguire per la Tunisia. La crisi del COVID-19 offre oggi l’opportunità di sfruttare nuove dinamiche commerciali e accelerare la tendenza globale verso supply chain più corte. Le aziende europee potrebbero rivedere i loro processi di produzione just-in-time e l’utilizzo di fornitori in Asia, dando invece priorità a produttori più vicini a casa. La Tunisia potrebbe così diventare una destinazione interessante per questo tipo di investimenti. Tuttavia, per cogliere tale opportunità, il Paese deve ripensare il suo ruolo nel sistema commerciale globale, rinnovare le infrastrutture e le reti logistiche e offrire agli investitori qualcosa di più che una comoda posizione geografica.

La pressione sull’economia tunisina e l’incertezza economica globale innescheranno senza dubbio qualche cambiamento in questo settore. La debolezza della coalizione di governo e la necessità di sopravvivere politicamente potrebbero spingere la Tunisia a mantenere lo status quo piuttosto che andare contro posizioni di potere consolidate. Eppure il modello di sviluppo che la Tunisia ha costruito negli anni ’70, basato sul turismo e sull’outsourcing a basso costo, con incentivi agli investimenti e all’accesso ai mercati internazionali grazie a salari bassi e limitazioni all’attività sindacale, non è più sostenibile. I politici del Paese, insieme alle organizzazioni datoriali e dei lavoratori, devono trovare un compromesso che distribuisca l’onere della trasformazione economica strutturale e ponga fine alla guerra di logoramento che i gruppi di interesse hanno intrapreso dal 2011. Se non riuscirà a raggiungere questo obiettivo, il governo potrebbe inavvertitamente destabilizzare la Tunisia e rafforzare le forze antidemocratiche.

Conclusioni

Solo un governo efficace e stabile può salvare la Tunisia dal rischio che le attuali sfide sanitarie ed economiche comportano. Più che mai, il Paese ha bisogno di un governo in grado di gestire le crisi, di progettare e attuare politiche concrete e di fornire soluzioni sociali ed economiche a problemi di lunga data, un aspetto fondamentale per rafforzare la legittimità delle istituzioni democratiche tunisine. Paradossalmente, proprio la crisi del COVID-19 potrebbero contribuire a sgretolare posizioni consolidate, un corporativismo miope e un sistema burocratico gravoso. In un certo senso, la crisi potrebbe dunque portare molti benefici. Ma questo dipenderà principalmente dalla capacità della classe politica di fare buon uso della situazione.

Come dimostrano le divisioni all’interno del governo di coalizione, esiste la necessità di bilanciare l’unità politica e le rispettive identità dei partiti, considerato che permangono divergenze importanti tra Ennahda, la Corrente Democratica, il Movimento Popolare e Tahya Tounes. Tuttavia, è fondamentale che si raggiunga un accordo sulle questioni più urgenti, in primis la definizione delle priorità del piano di ripresa post-COVID. Sulla base dell’unità dimostrata nella risposta alla pandemia, questi partiti devono avviare un programma di riforme sociali ed economiche tenendo conto del potere di veto dei gruppi di interesse. Dato che pare impossibile concordare un’agenda politica comune, sarebbe auspicabile trovare un accordo in base alle priorità espresse da ciascuna parte.

L’accordo non sostituirebbe un’agenda di riforme coerente, ma aiuterebbe a individuare e comunicare le richieste di ciascuna parte in termini di legislazione e progetti specifici. Tale processo sarebbe agevolato dalla formazione di un gruppo di programmazione strategica, che fungerebbe da motore della coalizione. In questo modo sarebbe più facile concludere accordi all’interno della coalizione e sviluppare un approccio collettivo alle questioni e ai progetti più urgenti e alle proposte di legge parlamentari. Esiste la necessità di coordinamento anche tra il presidente, il capo del governo e lo speaker del Parlamento. Insieme potrebbero organizzare riunioni mensili e istituire un comitato per coordinare e attuare azioni di follow-up rispetto alle questioni all’ordine del giorno. Ciò garantirebbe la necessaria coerenza tra il ramo esecutivo e quello legislativo, creando un senso di unità nelle interazioni della Tunisia con i partner internazionali, in particolare con quelli europei.

La Tunisia non può trovare una soluzione ai suoi problemi sociali ed economici senza il sostegno dei partner internazionali, in particolare dell’UE. Le fonti di finanziamento esterno hanno cominciato a prosciugarsi mano a mano che la comunità internazionale diventava più stanca della lentezza delle riforme del Paese. Ma le istituzioni finanziarie internazionali, i creditori e gli investitori devono essere flessibili per permettere al governo tunisino di ritagliarsi lo spazio politico necessario per attuare riforme economiche sostanziali.

L’UE dovrebbe aiutare la Tunisia a raggiungere accordi con altri partner internazionali sulla ristrutturazione del proprio debito, per fornire al governo un certo margine di manovra. L’Europa può svolgere un ruolo importante favorendo lo sviluppo di competenze in materia di governance economica, rafforzando le capacità del Conseil d’Analyse Economique, il principale organo consultivo del Primo Ministro in materia di politica economica, e dell’Institut Tunisien d’Etudes Quantitatives, nonché dei think-tank e dei centri di ricerca. Dato che una risposta efficace ai problemi economici e sociali creati dal COVID-19 richiederà un approccio innovativo, tali istituzioni potrebbero svolgere un ruolo fondamentale per guidare il governo, esplorare varie alternative politiche e avviare un dibattito pubblico sulla governance economica.

Al di là della finanza, la Tunisia deve impegnarsi in un dialogo strategico con l’UE. Con l’arrivo di una nuova leadership a Bruxelles e a seguito delle elezioni del 2019 in Tunisia, si potrebbe aprire un nuovo capitolo in questo rapporto. Molti a Tunisi percepiscono la politica europea di vicinato come eccessivamente burocratica e guidata principalmente da una visione tecnocratica. Urge quindi ridefinire le priorità del partenariato e politicizzare questo ambito. Un dialogo strategico tra la Tunisia e l’UE permetterebbe di ripensare le priorità per il 2021-2027. Il Paese ha bisogno di un partenariato politico con l’Unione e questo sarebbe anche in linea con la nuova enfasi posta dalla Commissione Europea sulla geopolitica.

Il dialogo strategico dovrebbe riguardare la modernizzazione dell’economia tunisina, l’innovazione commerciale, l’economia verde, la riconfigurazione delle catene di approvvigionamento, la digitalizzazione, il commercio, gli investimenti e, naturalmente, le questioni di sicurezza e di migrazione.

Tale dialogo incentiverebbe le élite politiche ed economiche tunisine ad attuare le riforme, in quanto potrebbero beneficiare dell’integrazione con il mercato europeo. Cosa ancora più importante, il processo permetterebbe all’UE e alla Tunisia di individuare interessi comuni al di là dell’assistenza finanziaria e delle relazioni commerciali che, finora, sono state in maniera quasi esclusiva al centro dei colloqui su un accordo di libero scambio globale e approfondito. Un partenariato strategico sarebbe fonte di stabilità per la Tunisia in un contesto economico e di sicurezza sempre più incerto.

Mantenere lo status quo non è più possibile per le relazioni eurotunisine. Le parti devono dare forma a un quadro creativo per le loro relazioni e trovare nuovi strumenti per affrontare la mutevole situazione politica in Tunisia. Questo li aiuterebbe ad affrontare la posizione sempre più sovranista dell’opinione pubblica nel Paese, le turbolenze geopolitiche nel Maghreb, le crescenti preoccupazioni per la sicurezza legate principalmente al conflitto in Libia e le sfide socio-economiche create dal coronavirus, che rendono ancora più urgente la necessità di svecchiare il partenariato tra l’UE e la Tunisia a beneficio di entrambe le parti.

Informazioni sugli autori

Thierry Brésillon, analista, vive a Tunisi dal 2011. È corrispondente per varie testate (tra cui Le Soir in Belgio) e scrive per Le Monde Diplomatique, Orient XXI e Middle East Eye. In precedenza è stato redattore capo del Faim et Développement Magazine, pubblicato dalla ONG CCFD-Terre Solidaire.

Hamza Meddeb è Assistant Professor presso l’Università del Sud del Mediterraneo a Tunisi. È anche non-resident scholar presso il Carnegie Middle East Center. La sua ricerca si concentra sull’economia politica della transizione democratica in Tunisia, così come sull’economia politica dei conflitti in Nord Africa. È autore di “Tunisia’s Geography of Anger: Regional Inequalities and the Rise of Populism” (Carnegie, 2020) e “Ennahda’s Uneasy Exit from Political Islam” (Carnegie, 2019), e co-autore di “L’Etat d’injustice au Maghreb. Maroc et Tunisie, Karthala” (2015) insieme a Irene Bono, Béatrice Hibou e Mohamed Tozy.

Ringraziamenti

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