Un passo indietro dall’orlo del baratro: Un migliore sostegno europeo alla transizione democratica della Tunisia

EU election observers in Tunisia stand in front of an ornate tile mosaic
Osservatori elettorali dell’UE a Kairouan, Tunisia, ottobre 2011
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In breve

  • La Tunisia sta cercando di ottenere un importante prestito di salvataggio del FMI, ma i rischi che questo comporta sono quasi altrettanto elevati di quelli della bancarotta, data la condizionalità che ne deriverebbe.
  • Le riforme democratiche in Tunisia sono in fase di stallo e il progresso economico post-rivoluzione non è mai iniziato.
  • I politici tunisini hanno urgente bisogno di associare l’ottenimento di un nuovo prestito e l’austerità che questo comporterà alle riforme e al rinnovamento economico, per aumentare le possibilità di uscire dalla crisi.
  • Anche la politica dell’UE e dei suoi Stati membri nei confronti della Tunisia è in fase di stallo, ma l’Europa può aiutare i leader tunisini attraverso nuovi investimenti che darebbero nuovo impulso alla transizione democratica.
  • Se tale sforzo avesse successo, fornirebbe un modello di riforme politiche ed economiche applicabile anche altrove in Nord Africa, il che è nell’interesse dell’UE in relazione all’obiettivo di autonomia strategica di fronte alla crescente influenza di altre potenze nella regione.

Introduzione

La Tunisia è l’unico Paese del Nord Africa la cui transizione verso la democrazia è ancora in essere dopo le rivolte arabe del 2011, ma il Paese sta affrontando una grave crisi economica generata dal fallimento politico. Dopo dieci anni in cui i leader tunisini non sono riusciti a riformare l’economia né a completare la democratizzazione del sistema politico, oggi la Tunisia vacilla sull’orlo del fallimento. Mentre metà del sistema politico tunisino cerca di arrivare a un accordo che potrebbe convincere il Fondo Monetario Internazionale (FMI) a salvare il Paese dal default, l’altra metà sta lavorando in direzione opposta, cercando di sfruttare questo momento di precarietà per acquisire un vantaggio politico.

Il primo ministro della Tunisia Hichem Mechichi sta cercando di negoziare un nuovo salvataggio con il FMI. Per raggiungere tale obiettivo, sta tentando di mettere insieme una coalizione nel frammentato sistema politico tunisino, che comprenda anche i potenti sindacati e un parlamento frammentato. Ma Mechichi e tutto il Paese sono di fronte a un dilemma: se fino a ora i prestiti agevolati degli Stati amici hanno tenuto a galla l’economia, le conseguenze di un mancato prestito di salvataggio sarebbero catastrofiche per il Paese e potrebbero portare a una rapida svalutazione della moneta o addirittura a un più ampio collasso economico. Il caos e la miseria che ne deriverebbero potrebbero, a loro volta, rafforzare la posizione di chi cerca di riportare la Tunisia all’autoritarismo.

Ciò detto, se Mechichi riuscisse a ottenere i finanziamenti di cui la Tunisia ha bisogno, le riforme strutturali richieste dal FMI imporrebbero un peso enorme sulle spalle di coloro che sono meno in grado di sopportarlo. I tunisini sono stufi della mancanza di progresso degli ultimi dieci anni. Ci sono state proteste ricorrenti per la scarsità di opportunità economiche, per il fallimentare tentativo di combattere la corruzione e per l’oppressione che persiste in un sistema giudiziario che non riflette il nuovo carattere democratico del Paese. La richiesta di ulteriori tagli da parte del FMI potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso per il popolo tunisino, con il rischio di scatenare rivolte e diffondere il fatalismo sulla capacità della democrazia di produrre risultati. Inoltre, dati gli obblighi di rimborso del debito paralizzante della Tunisia, è improbabile che il prestito in sé sarebbe in grado di risolvere i problemi economici del Paese, contribuendo solo a ritardare l’inevitabile.

Se Mechichi riuscirà a sfruttare l’eccezionale coalizione che sta forgiando sotto la pressione del momento per modificare la traiettoria a lungo termine della Tunisia, avrà bisogno di due strategie: una volta ad assicurarsi il salvataggio del FMI e l’altra intesa a utilizzare il tempo e i finanziamenti che il salvataggio gli offre per promuovere una crescita economica sostenibile in Tunisia. Per ottenere il sostegno del popolo tunisino e iniziare finalmente a realizzare il cambiamento richiesto nel 2011, Mechichi ha bisogno di un programma per sviluppare nuovi settori produttivi che, in ottica futura, possano assorbire la forza lavoro giovane e sempre più istruita della Tunisia, così come di pacchetti di formazione e di aiuti finanziari per aiutare le persone che avranno molto da perdere da una ristrutturazione dell’economia del Paese.

La Tunisia ha bisogno di assistenza per affrontare questo complesso insieme di sfide. L’Unione Europea dovrebbe offrire un sostegno tecnico e finanziario al governo, aiutandolo a rinnovare l’economia e a superare gli ostacoli posti da attori nazionali e stranieri. Rinvigorendo il “partenariato privilegiato” creato nel 2012 e identificando chiari passi incrementali per armonizzare i regolamenti interni della Tunisia con quelli europei, l’UE può aiutare il Paese a uscire dall’attuale spirale negativa. L’UE dovrebbe subordinare il sostegno finanziario a un nuovo piano che assicuri il completamento della riforma del sistema politico, sotto forma di dialogo nazionale, arrivando a realizzare obiettivi quali la nomina dei giudici della Corte costituzionale, la formazione delle commissioni nazionali richieste dalla costituzione post-rivoluzionaria del Paese e l’aggiornamento del corpus legislativo tunisino, che dovrà riflettere i diritti sanciti dalla costituzione. Se l’UE e i principali Stati membri sapranno rendere il proprio impegno con la Tunisia più mirato e coesivo, l’Europa potrà aiutare il Paese a diventare un modello democratico di successo in Nord Africa, nonché un partner prezioso per l’Europa in una regione geopoliticamente competitiva.

Democrazia in corso

In Tunisia le proteste hanno caratterizzato l’intero decennio successivo alla rivoluzione. Queste manifestazioni pubbliche rappresentano l’espressione del perdurante spirito democratico del popolo tunisino, ma sono anche un’indicazione del fallito tentativo del Paese di completare la transizione politica e di offrire migliori opportunità socioeconomiche alla popolazione.

Dal 2011 in poi, i vari presidenti, primi ministri e parlamenti che si sono succeduti non sono riusciti a completare il processo iniziato dalla rivoluzione. L’emergere della lodata “politica del consenso” che ha prodotto la nuova costituzione nel 2014 non ha colmato l’abisso tra i tunisini e la loro leadership. Le questioni che i tunisini ritengono prioritarie rimangono irrisolte: un deficit di giustizia nei loro rapporti con lo Stato, una diffusa disoccupazione e insicurezza del lavoro, persistenti disparità regionali che lasciano alcune zone del Paese in condizione di perenne svantaggio e un’economia stagnante che non è in grado di soddisfare una forza lavoro giovane, diversificata e bene istruita. Nel frattempo, i politici appaiono sempre più isolati e distaccati dalla realtà, impegnati in una sorta di telenovela per la conquista del potere, e abili solo a produrre una serie di governi incapaci di concepire, e tanto meno di implementare, le riforme necessarie.

La Tunisia ha visto succedersi dieci diversi governi negli ultimi dieci anni. Il processo di costante limatura e di ricambio nella leadership politica ha svuotato la rivoluzione democratica dell’energia necessaria per andare oltre il processo elettorale e la nuova costituzione. Più di 500 leggi devono ancora essere aggiornate per adattarsi alla costituzione del 2014 e ai moderni standard internazionali. Tra queste figurano il Codice penale e il Codice di procedura penale della Tunisia, il che significa che i diritti e le libertà costituzionali rimangono inaccessibili, un problema che è diventato sempre più preoccupante considerando che il ministero dell’Interno risponde ai disordini in modo sempre più duro. La Tunisia ha mantenuto la stessa burocrazia amministrativa dell’era autoritaria e le stesse disposizioni restrittive, che erano progettate per proteggere un sistema economico costruito sul clientelismo. Nessuno dei due partiti politici che hanno dominato nel periodo del consenso dopo il 2014, ovvero il partito democratico musulmano Ennahda e il partito nazionalista laico Nidaa Tounes, ha mostrato molto interesse nel riformare le strutture di potere esistenti.

Anche il sistema politico non ha completato la sua democratizzazione, poiché il parlamento, la presidenza e la magistratura si sono trovati incapaci di districarsi nel processo polarizzante della nomina dei giudici della Corte costituzionale. L’assenza di questo organismo ha lasciato la Tunisia in preda a una serie di crisi costituzionali, ma i politici di spicco si sono concentrati sul rafforzamento delle rispettive posizioni piuttosto che sull’avanzamento delle riforme politiche ed economiche di cui il Paese ha bisogno.

Il sistema politico incancrenito della Tunisia, la forza dei sindacati e il malessere economico che guida le regolari proteste hanno spinto i governi che si sono succeduti a ricorrere sistematicamente alla scelta a basso rischio di aumentare l’occupazione nel settore pubblico. Lungi dal risolvere i problemi della Tunisia, questa tendenza non ha fatto che peggiorare la situazione del debito nazionale e di quello delle grandi imprese del settore pubblico, senza affrontare né i problemi strutturali dell’economia né tantomeno le critiche della popolazione nei confronti dell’élite politica.

Politica in bancarotta

La frustrazione popolare per il fallimento della classe politica sin dal 2014 ha prodotto un risultato a sorpresa nelle elezioni presidenziali del 2019: la vittoria schiacciante di un outsider, il professore di diritto costituzionale Kais Saied, che ha improntato la sua campagna sulla promessa populista di rovesciare la politica tunisina guidata dalle élite. La bassa affluenza (41,7%) nelle successive elezioni parlamentari (in calo rispetto al 67% del 2016) conferma la stanchezza popolare nei confronti dell’establishment politico. Purtroppo, il risultato è stato il parlamento più frammentato della Tunisia dai tempi della rivoluzione a oggi.

Un parlamento tanto diviso ha reso impossibile un governo efficace. La mancanza di acume politico del nuovo presidente e la perdurante autoreferenzialità della classe politica tunisina hanno portato a una continua lotta di potere tra il capo dello Stato e il parlamento. Anche se i poteri della presidenza sono in gran parte limitati alla politica estera e di sicurezza, Saied ha cercato di estendere il proprio campo di azione spingendo il Paese verso un sistema più presidenziale. Nel frattempo, mentre il malcontento popolare cresceva, i politici si sono orientati verso discorsi più polarizzanti e nazionalisti in linea con l’umore nazionale. Abir Moussi, a capo del Partito Destouriano Libero, ha guidato il tentativo di sfruttare la frustrazione popolare verso la politica post-rivoluzionaria offrendo un nostalgico ritorno all’era prerivoluzionaria e ha cercato di fomentare le tensioni settarie dell’immediato periodo post-rivoluzionario attaccando il partito Ennahda e additandolo come organizzazione terroristica.

Queste dinamiche sono state aggravate dalla competizione geopolitica in corso nella regione tra potenze come la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti. La Turchia ha cercato di mettere a frutto la presunta affinità tra il proprio partito al governo Giustizia e Sviluppo ed Ennahda, accomunati dall’etichetta di “democratici islamici”, puntando a costruire una base di sostegno all’interno del partito politico più popolare e sviluppato della Tunisia. Con l’infiammarsi del conflitto in Libia nel 2019 e 2020, la Turchia ha sfruttato le preoccupazioni tunisine circa le azioni del generale libico Khalifa Haftar, contro cui la Turchia combatte in Libia, per cercare una partnership operativa più profonda con i servizi di sicurezza della Tunisia. Al contrario, gli Emirati Arabi Uniti hanno apparentemente sostenuto Moussi nell’ambito di una più ampia politica che li vede contrari alla democratizzazione nel mondo arabo e che combatte qualsiasi espressione della politica islamista. Nel frattempo, Nabil Karoui, il magnate dei media che guida l’influente partito Qalb Tounes, avrebbe stretto legami con il Qatar.

La politica al tempo del coronavirus

La prima fase della pandemia di COVID-19 in Tunisia è stata segnata dalla paralisi politica e dalla contrazione economica. Dopo le elezioni parlamentari dell’ottobre 2019, si è dovuto attendere fino a febbraio 2020 per approvare un governo, guidato dal socialdemocratico Elyes Fakhfakh in qualità di primo ministro, solo per vederlo crollare cinque mesi dopo. Nel frattempo, l’economia si è contratta del 21,6% nel secondo trimestre del 2020, spingendo la Tunisia nella peggiore recessione dai tempi dell’indipendenza nel 1956. In un Paese dove la maggior parte della gente lavora nel settore informale, dove il settore privato è composto in gran parte da piccole e medie imprese e dove la disoccupazione era già diffusa, le ripercussioni economiche sono state devastanti. I pacchetti di finanziamento d’emergenza del FMI, dell’UE, dell’Italia e della Banca islamica per lo sviluppo sono andati rapidamente esauriti, poiché l’assistenza finanziaria è stata diretta alle imprese e ai disoccupati più recenti ed è stata usata per coprire il già enorme debito della Tunisia.

Ennahda e Qalb Tounes, i principali partiti in parlamento, hanno cercato di utilizzare la caduta del governo Fakhfakh nel luglio 2020 per aumentare la loro influenza politica. Saied, tuttavia, ha ignorato le raccomandazioni del parlamento sul primo ministro e ha invece nominato Mechichi, suo ex consigliere. Così facendo, Saied cercava forse di provocare il parlamento a votare contro la nomina, il che gli avrebbe permesso di innescare una nuova elezione parlamentare che avrebbe potuto indebolire i partiti che egli vede come suoi avversari. Se così fosse, le sue macchinazioni non sono andate a buon fine, perché ha sopravvalutato la lealtà di Mechichi e ha sottovalutato le esigenze della crisi. Mechichi si è rivolto ai principali partiti parlamentari e ai sindacati, consapevole che avrebbe avuto bisogno di un’ampia base per sopravvivere e prendere provvedimenti per riparare l’economia drammaticamente deteriorata del Paese. Ma, per Saied, ciò ha rappresentato un tradimento. Anche quando Mechichi ha prestato giuramento nel settembre 2020, il presidente ha tenuto un discorso dai toni trumpiani sostenendo che i nemici tramavano alle sue spalle e che si sarebbe impegnato a smascherare i traditori coinvolti nella cospirazione.

Un’impasse crescente

Nonostante la Tunisia abbia ora un nuovo governo, l’impasse politica è peggiorata man mano che le divisioni parlamentari si approfondivano e Saied diventava sempre più ostruzionista. Di conseguenza, la risposta della Tunisia alla pandemia si è bloccata e il nuovo governo non ha fatto nulla per aiutare l’economia. Nel corso del 2020 l’economia tunisina si è contratta di più dell’8%, il deficit fiscale è salito a più del 12% del PIL e il debito pubblico è salito a più del 90% del PIL. Anche le aziende statali, che i governi precedenti avevano usato per aumentare l’occupazione e allontanare il malcontento, hanno cominciato a sentire la crisi. Nel febbraio 2021 un tribunale ha temporaneamente congelato i conti bancari della compagnia aerea nazionale, Tunisair, in seguito ai mancati pagamenti a un operatore franco-turco. Allo stesso modo, la Gafsa Phosphate Company, che un tempo era il più grande esportatore della Tunisia, ha visto le proprie entrate diminuire costantemente e i propri costi aumentare man mano che le comunità locali interrompevano l’attività con proteste per chiedere maggiore occupazione locale, salari più alti e una migliore responsabilità sociale delle imprese.

Il peso sempre più opprimente del rimborso del debito, l’economia sempre più debole e la crescente dipendenza dalle importazioni hanno spaventato i mercati dei capitali e reso quasi impossibile per lo Stato ottenere ulteriori prestiti per finanziare il bilancio o per offrire ulteriori pacchetti di assistenza legati alla pandemia a beneficio di cittadini e imprese. L’aumento dei prezzi è stato innescato dal deprezzamento del dinaro tunisino imposto dal FMI e dalla necessità di aumentare le importazioni in un momento in cui le principali fonti di entrate in valuta estera (fosfati e turismo) si stavano prosciugando.

Quando la situazione è peggiorata, il governo ha cercato di rispondere procedendo a tagli agli stipendi del settore pubblico e aumentando la tassazione indiretta. La reazione dei tunisini a inizio anno è stata organizzare forse le più grandi proteste dalla rivoluzione a oggi. La pesante risposta del ministero dell’Interno ha solo aggravato la situazione. Sei mesi dopo, le manifestazioni sono diventate un susseguirsi di proteste pubbliche e violenta repressione da parte dello Stato e il ministero dell’Interno è stato accusato di crimini gravi tra cui l’omicidio. La popolazione reclama i propri diritti costituzionali davanti a un ministero che agisce come se fosse ancora lo scudo di una dittatura.

Mechichi ha cercato di sfruttare i disordini delle prime settimane del 2021 per rimpastare il proprio gabinetto, mostrando un riallineamento più vicino al parlamento e più lontano dal presidente. Anche se il parlamento ha approvato il rimpasto il 27 gennaio, Saied ha rifiutato di far prestare giuramento ai nuovi nominati come richiede la costituzione. La disputa ha evidenziato i costi della mancata nomina di una Corte costituzionale, che ha lasciato al presidente la possibilità di far valere il proprio diritto di interpretare le disposizioni della costituzione. Lo scontro politico si è così intersecato con le proteste e anche i sostenitori delle fazioni rivali sono scesi in strada.

In un ideale ritorno al 2014, è stato proposto un dialogo nazionale per rompere l’impasse e creare un piano consensuale per le tanto necessarie riforme economiche, ma Saied ha liquidato la questione affermando che non avrebbe negoziato con i “ladri” e ha posto il veto a una manovra politica di Rachid Ghannouchi, leader di Ennahda e portavoce del parlamento, per spingere i deputati a nominare finalmente i giudici della Corte costituzionale. L’azione di Saied è stata un’occasione mancata: un approccio meno assolutista gli avrebbe permesso di avere un ruolo nella nomina dei giudici, facendo progredire la democrazia tunisina e raccogliendo il merito politico per la fine dello stallo.

Incapace di finanziare il bilancio di quest’anno senza assistenza esterna o di restituire il miliardo di dollari dovuto ai creditori internazionali entro agosto, Mechichi è stato costretto a agire da solo: ha cercato di negoziare una proposta di riforma accettabile da portare al FMI, lavorando sottotraccia con i sindacati e altri attori chiave nonostante il continuo stallo politico. Tuttavia, quando il governatore della Banca centrale tunisina e il ministro delle Finanze sono andati a Washington a maggio per negoziare un ambizioso pacchetto di stimoli da 4 miliardi di dollari, la situazione interna precipitava: nonostante gli sforzi compiuti per lavorare in sordina, alcuni elementi controversi della proposta sono trapelati ai principali organi di stampa, spingendo il Sindacato generale del lavoro della Tunisia, l’UGTT, a ritirarsi dall’accordo negoziato in privato e a dichiarare di non poter sostenere la proposta.

Considerato che la proposta si concentrava sulla riforma dei sussidi, sul taglio degli stipendi del settore pubblico (di cui fanno parte 680.000 dei dodici milioni di tunisini) e sulla ristrutturazione delle imprese statali, era nell’interesse politico del segretario generale dell’UGTT, Noureddine Taboubi, prendere pubblicamente posizione contro di essa. Molti lavoratori del settore pubblico ritengono che i propri interessi siano stati sacrificati a vantaggio delle preoccupazioni di una ristretta élite che continua a proteggere i propri privilegi nonostante la rivoluzione. Infatti, dati i precedenti fallimenti nella riforma dell’economia, gli aumenti della tassazione regressiva come l’IVA, che hanno colpito più duramente i poveri, e la dipendenza della popolazione dai sussidi, qualsiasi programma di riforma che tagli la rete di sicurezza senza cercare di garantire un atterraggio più morbido provocherà con molta probabilità una profonda agitazione sociale.

La Tunisia si trova in una situazione molto delicata. Grazie ai prestiti agevolati dalla Libia e dal Qatar si è scongiurato il default, ma il governatore della Banca centrale, il ministro delle Finanze e altre figure di alto livello avvertono che la Tunisia potrebbe dover affrontare una crisi finanziaria simile a quelle del Venezuela, dell’Argentina o del Libano se non raggiungerà un accordo con il FMI. È attualmente in atto la ricerca di un consenso con i principali sindacati e i partiti politici a fine di giungere a un accordo e di definire un pacchetto di riforme entro la fine dell’estate 2021. Tuttavia, esiste il rischio che i gruppi chiave ritirino il proprio sostegno sotto la pressione dell’opinione pubblica una volta che i dettagli dell’accordo saranno resi noti. Inoltre, è possibile che Saied rifiuti di firmare tale accordo come ultimo tentativo di creare le condizioni che gli permetterebbero di forzare l’adozione delle tanto desiderate modifiche costituzionali. Per evitare tutto ciò, l’alleanza di Mechichi dovrà adottare una migliore strategia di comunicazione pubblica riguardo agli sviluppi del processo e creare un piano per sviluppare rapidamente altri settori dell’economia al fine di compensare i tagli al bilancio del settore pubblico.

Una rivoluzione economica fallita

Il denominatore comune delle richieste della rivoluzione tunisina del 2011 era economico. Dopo tutto, il momento di svolta della rivoluzione è stato l’auto-immolazione di un venditore ambulante esasperato da uno Stato e da un’economia oppressivi. La trasformazione economica era un obiettivo centrale della rivoluzione, ma se la transizione politica democratica della Tunisia si è arenata, la trasformazione economica non è mai nemmeno iniziata. Nei dieci anni successivi alle rivolte, il Paese si è distratto per seguire il balletto della politica, mentre i detentori del potere prestavano pochissima attenzione all’economia, a eccezione dei negoziati con il FMI, la concessione di aumenti di stipendio ai lavoratori del settore pubblico e le assunzioni in massa a carico dello Stato per placare i sindacati. Questo ha fatto sì che nel 2019, prima che il Paese iniziasse a scivolare drammaticamente verso il default, la disoccupazione si attestasse al 15 per cento, un dato leggermente più alto di quello precedente alla rivoluzione.

L’attuale crisi fiscale della Tunisia è dovuta a fattori strutturali che risalgono a più di un decennio fa. Il debito che la Tunisia è stata costretta ad accollarsi subito dopo la rivoluzione ha dato avvio a un circolo vizioso, rendendo più difficile l’accesso del Paese ai mercati dei capitali, mentre l’incapacità di trovare finanziamenti rende le riforme più difficili, alimentando il malcontento popolare ed esasperando le disfunzioni politiche e i giochi di potere. Il 19 gennaio 2011, subito dopo la rivoluzione, Moody’s ha declassato il rating della Tunisia a Baa3, appena un grado sopra il livello “spazzatura”. L’agenzia, pur riconoscendo che l’economia tunisina appariva significativamente più sana rispetto all’ultimo spostamento del rating nel 2003, ha applicato un outlook negativo a causa del cambio di regime, punendo di fatto il Paese per la rivoluzione e ostacolando la democrazia nascente.

Il declassamento ha spinto la Tunisia verso il partenariato di Deauville con i Paesi arabi in transizione, uno strumento inteso a fornire prestiti ai Paesi in transizione nell’ambito del G7 che comprende la Banca Mondiale, il FMI, la Turchia e i Paesi del Golfo. Le condizioni che accompagnavano i prestiti hanno portato la politica tunisina a concentrarsi su riforme istituzionali come la liberalizzazione della Banca centrale e sull’assicurazione che la pianificazione economica sarebbe stata in linea con l’ortodossia neoliberale del FMI, in contrasto con le richieste dei manifestanti. Il prestito ha fatto salire il debito pubblico della Tunisia dal 41% del PIL nel 2010 al 71% nel 2018, ma il Paese ha dovuto comunque rivolgersi ripetutamente al FMI in cerca di fondi aggiuntivi. Oggi la Tunisia annaspa in balia del debito ed è alla ricerca di un prestito da 7,2 miliardi di dollari per finanziare il bilancio del 2021, che comprende 5,8 miliardi di dollari solo per il rimborso del debito.

La situazione economica del Paese continua a deteriorarsi, ma la dipendenza della Tunisia dai finanziamenti del FMI ha permesso a quest’ultimo di dettare legge sulle riforme; anche se il Paese ha cercato di temporeggiare o addirittura ignorare le indicazioni del Fondo, alcune delle condizioni imposte dal FMI, come la riduzione della spesa del settore pubblico, hanno comunque avuto un impatto. L’attenzione a soddisfare le richieste orientate all’austerità ha impedito alla Tunisia di esplorare iniziative di riforma che avrebbero potuto far crescere l’economia e superare gli ostacoli amministrativi, mentre i governi cercavano di destreggiarsi tra le condizioni del FMI e i limiti imposti dalle proteste della popolazione e dai sindacati tunisini. Rispettare i termini del FMI ha avuto un costo elevato, come nel caso della richiesta al governo e alla Banca centrale di introdurre un tasso di cambio più flessibile, che ha fatto perdere al dinaro tunisino quasi il 20% del suo valore rispetto all’euro nel corso del 2017. Anche se la logica economica impiegata dal FMI era intesa a promuovere le esportazioni, è stata trascurata la dipendenza della Tunisia dalle importazioni e la struttura stessa del settore delle esportazioni tunisino; il risultato è stato un aumento del deficit commerciale del Paese. Un ulteriore pacchetto di riforme del FMI è stato inserito in una legge finanziaria del 2018 che puntava a ridurre il deficit di bilancio congelando le assunzioni e i salari del settore pubblico, introducendo il pensionamento anticipato e aumentando le imposte indirette. Tali misure hanno rappresentato un doppio colpo per i tunisini, che dipendono dall’impiego nel settore pubblico e che hanno visto aumentare ancora di più il prezzo dei beni di uso quotidiano.

L’impatto delle riforme del FMI sulla capacità della Tunisia di controllare la politica monetaria l’ha anche lasciata incapace di prevenire l’inflazione dei prezzi durante il rallentamento economico causato dalla pandemia. Anche se il problema più urgente è oggi il debito, le aspettative economiche del 2011 rimangono insoddisfatte. Se la Tunisia vuole soddisfare le richieste del suo popolo e prevenire una spirale di austerità e di rimborso del debito, dovrà aggiornare le sue infrastrutture e sviluppare nuovi settori industriali – entrambi processi ad alta intensità di capitale.

Nonostante le grandi attese del 2011 per una ridistribuzione della ricchezza tra le regioni e i settori della Tunisia, le disuguaglianze sono diventate più radicate negli ultimi dieci anni. Oggi ci sono meno opportunità per una forza lavoro più grande e sempre più istruita, che comprende una percentuale sempre maggiore di donne. La Tunisia lotta per stimolare l’economia a causa dei dubbi diffusi sulla sua stabilità politica e sulla solidità dello stato di diritto, che impediscono al Paese di attrarre livelli significativi di investimenti diretti esteri (IDE), i quali sono rimasti largamente invariati negli ultimi anni e restano concentrati in aree di interesse per le élite esistenti, situate nella capitale e nei dintorni.

Il malessere della Tunisia ha anche ostacolato gli sforzi per migliorare il sistema delle infrastrutture chiave. Il porto di Radès, che gioca un ruolo centrale nel commercio estero della Tunisia, offre in tal senso un caso esemplare. A partire dal 2012 si è parlato a più riprese di bandire gare d’appalto per progetti di costruzione volti ad aumentare l’efficienza delle operazioni portuali, ma un’audizione parlamentare nel giugno 2020 ha concluso che le problematiche esistenti costano all’economia tunisina circa un miliardo di dinari all’anno. Le aziende private e altri attori che tentano di investire in Tunisia si scontrano con una diffusa mancanza di chiarezza in termini di responsabilità e rendicontazione, che li lascia confusi e li costringe al tempo stesso a trattare con molteplici interlocutori tunisini.

Nonostante iniziative sporadiche per affrontare questioni di rilievo come Radès, nessun governo tunisino dalla rivoluzione a oggi ha tentato di formulare una strategia economica globale. L’economia del Paese vacilla ora a livello macro a causa di una serie di carenze che richiedono una risposta integrata e ampia. In poche parole, la Tunisia ha estremo bisogno di una strategia industriale, l’unico strumento che potrebbe aumentare le entrate dello Stato e ridurre il debito pubblico, ormai pericolosamente prossimo a superare il 100 per cento del PIL. Se la Tunisia saprà adottare misure come il miglioramento dell’efficienza amministrativa attraverso la digitalizzazione, il proseguimento del decentramento promesso da tempo, la ricostruzione e l’espansione delle infrastrutture e l’introduzione di forme più progressive di tassazione, sarà in grado sia di tagliare i costi che di aumentare le entrate indipendentemente dal FMI. Ma l’attuazione di questa agenda non sarà facile.

Dato che l’economia tunisina rimane incentrata sul settore pubblico, qualsiasi strategia intesa a stimolare la crescita economica richiederà una grande attenzione al settore privato. Questo, a sua volta, significa che la Tunisia deve dare agli stranieri nuove ragioni per investire e valorizzare il contributo del Paese all’economia globalizzata. Attualmente il ruolo della Tunisia nella supply chain globale consiste nell’importazione di merci, in gran parte dalla Cina, che vengono poi assemblate per l’esportazione in Europa, un processo che genera un valore aggiunto limitato. Per rendere gli investimenti in Tunisia più attraenti, lo Stato dovrebbe utilizzare la spesa pubblica per sviluppare nuovi settori di attività. Questo implica guardare oltre le industrie che sono attualmente centrali nel settore privato tunisino, come l’industria automobilistica e il tessile, e individuare attività emergenti in cui la Tunisia può incanalare gli investimenti per sfruttare una forza lavoro istruita e aggiungere più valore alla supply chain globale. Ciò comporterebbe anche il miglioramento dei quadri giuridici e normativi e garantirebbe una maggiore trasparenza, che minimizzerebbe lo spazio per la corruzione e renderebbe il sistema tunisino più appetibile per i potenziali investitori.

Nonostante il fatalismo che attualmente aleggia sulla politica tunisina, ci sono opportunità di progresso nella sfera economica. L’approccio che ha portato alla revisione della Legge sugli investimenti della Tunisia del 2017-2018, che ha riscritto in maniera radicale una serie di leggi e codici precedenti, evidenzia un percorso verso una politica efficace che dovrebbe servire da modello per gestire le riforme. Questo programma ha fatto leva su nuovi mezzi politici, come le task force, e ha portato al coinvolgimento del settore privato. Un approccio simile ha guidato anche la decisione del parlamento di approvare lo Startup Act del 2018 e un piano d’azione triennale per semplificare le procedure normative e amministrative, contribuendo a migliorare la posizione della Tunisia nell’indice Ease of Doing Business della Banca Mondiale.

La crisi attuale della Tunisia ha finalmente costretto gran parte della classe politica a riconoscere la necessità di un altro prestito dal FMI. Tuttavia, dopo dieci anni di declino costante in cui un enorme fardello è stato imposto alle componenti della società meno in grado di sopportarlo, la Tunisia avrà bisogno di qualcosa più per uscire dal circolo vizioso di debito e declino. Occorrono una nuova strategia economica, un quadro normativo più forte, il miglioramento delle capacità amministrative e un processo di governance più efficace. Ma, date le rivalità politiche e le spaccature sempre più profonde e una evidente avversione a mettere in atto riforme reali, sarà indispensabile poter contare sull’assistenza esterna per raggiungere questi obiettivi. L’Europa, sia attraverso l’UE che gli Stati membri chiave come Francia, Italia, Germania e Spagna, rimane nella posizione migliore per fornire questo sostegno altamente tecnico, senza dimenticare che gli europei hanno tutto l’interesse ad offrire aiuto all’unica democrazia nel Vicinato meridionale, con cui già intrattengono rapporti in molti settori che offrono opportunità di ulteriore sviluppo.

Il rinnovato interesse e le opportunità dell’Europa

L’Europa è stata un partner appassionato e coerente della Tunisia post-rivoluzionaria. Dal 2011 a oggi ha fornito oltre 2 miliardi di euro in sovvenzioni e 800 milioni di euro in assistenza macrofinanziaria per sostenere l’impegno proclamato di avviare una transizione verso la democrazia. Tuttavia, proprio come il processo di democratizzazione della Tunisia, la politica europea nei confronti del Paese è diventata stagnante, dottrinale e incapace di stimolare sviluppi reciprocamente vantaggiosi.

L’atteggiamento della Tunisia nelle rivolte arabe e il rapido progresso iniziale verso la democrazia le sono valse una partnership privilegiata con l’UE. La relazione si è rapidamente evoluta in un piano d’azione quinquennale mirato a promuovere un impegno più diffuso attraverso una serie di programmi e partnership istituzionali con l’UE. La Tunisia è anche diventata il principale beneficiario nel Vicinato meridionale dei “fondi ombrello”, un presunto meccanismo di incentivazione che premia le riforme di successo con finanziamenti per sostenere il progresso. Ma l’incoerenza istituzionale della Tunisia ha creato non poche difficoltà ad assorbire e fare buon uso della considerevole assistenza allo sviluppo di cui ha beneficiato.

Man mano che scoppiavano nuove crisi, prima con l’implosione catastrofica della Siria, poi con la guerra in Libia, le emergenze migratorie nel Mediterraneo e l’ascesa del gruppo dello Stato Islamico, la “success story” di basso profilo della Tunisia ha attirato l’attenzione europea in maniera sempre minore. A parte la lotta al terrorismo e i partenariati per la gestione delle frontiere da parte dei servizi di sicurezza tunisini, c’è stato poco spazio per la Tunisia nelle politiche regionali degli Stati membri dell’UE, a parte Francia e Italia che hanno con il Paese legami di matrice coloniale.

Tuttavia, la stagnazione della Tunisia, la sua incapacità di elevare gli standard di governance e il fallito tentativo di migliorare la gestione economica sono rimasti motivo di preoccupazione per i programmi e le missioni diplomatiche europee, spingendo l’UE a concentrare il proprio sostegno sulla costruzione dello Stato tunisino, area tradizionalmente prioritaria per l’Europa. Sono stati fatti vari tentativi per avviare tale relazione con una comunicazione congiunta nel 2016 e poi, nel quadro della politica europea di vicinato, con una nuova serie di priorità strategiche nel 2018. Tuttavia, si è trattato di poco più che costose riformulazioni dello stesso approccio che non era riuscito ad avere un impatto in precedenza. L’UE ha definito un quadro globale in cui si articolavano gli interessi tunisini ed europei e si identificavano le aree più problematiche, ma non è stata in grado di tradurlo in soluzioni che la Tunisia avrebbe potuto attuare.

Il Deep and Comprehensive Free Trade Agreement (DCFTA) è un perfetto esempio di come l’approccio da manuale applicato dall’UE non si adatti alle effettive esigenze della Tunisia. I negoziati per questo accordo sono stati avviati per la prima volta nel 2015 con l’intenzione di estendere il libero scambio ad altri beni oltre a un numero limitato di prodotti industriali e agricoli, e di armonizzare la regolamentazione tunisina con gli standard dell’UE per ridurre le barriere non tariffarie. Per l’UE questa iniziativa rappresentava il fulcro della propria politica nei confronti del Paese, con la speranza che diventasse un’iniezione di fiducia per l’economia consentendo l’accesso immediato senza dazi ai mercati dell’UE e permettendo una graduale apertura all’Europa. Tuttavia, quattro anni e quattro cicli di negoziati più tardi, il DCFTA comincia appena ad avvicinarsi alla concretizzazione. I politici europei sono esasperati da ciò che vedono come un continuo cambiamento di obiettivi e preoccupazioni espresse da una serie in perenne evoluzione di omologhi tunisini.

La maggior parte dei tunisini non ha mai nemmeno sentito parlare del DCFTA, mentre quelli che lo conoscono sono scettici o timorosi. I sindacati e buona parte della sinistra temono che un accordo di libero scambio su larga scala porterebbe le imprese locali a essere rilevate dai giganti europei. Il settore agricolo doveva essere una delle aree in cui il DCFTA avrebbe avuto il maggior impatto, ma il 90% dei tunisini nel settore non ne è affatto a conoscenza. Più di ogni altra cosa, questo mostra come l’iniziativa non sia riuscita a far fronte alle preoccupazioni della popolazione. L’opinione dominante tra gli esperti tunisini è che il DCFTA è troppo complesso e poco maneggevole per essere uno strumento utile a promuovere l’innovazione e permettere alle imprese tunisine di cogliere le opportunità in particolari settori. Inoltre, i negoziati di alto livello non accompagnati da miglioramenti nella pubblica amministrazione non sono in grado di avviare alcuna vera riforma nella Tunisia di oggi.

Tuttavia, i politici europei hanno recentemente iniziato a dedicare maggiore attenzione al proprio Vicinato meridionale, il che potrebbe aiutare a generare il capitale politico necessario per rivoluzionare l’approccio dell’UE alla Tunisia. Il Nord Africa è sempre più visto dalle principali capitali europee come una regione in cui l’Europa dovrebbe sviluppare una maggiore autonomia strategica, così come un luogo che può contribuire alla crescita economica europea. Anche se le forze trainanti di queste mutevoli prospettive non sono tunisine, la Tunisia riflette ancora le aspirazioni chiave europee riguardo a una riforma politica e rappresenta un’opportunità per l’Europa di contribuire a stabilire un modello di successo di governance responsabile e reattiva che potrebbe, col tempo, incoraggiare ulteriori progressi altrove in Nord Africa.

A sua volta, la Tunisia potrebbe aiutare l’UE a fare il primo passo verso un modello sostenibile di politica migratoria, una delle questioni più delicate per Bruxelles. Nell’ultimo anno la Tunisia è diventata il principale punto di partenza in Nord Africa per la migrazione esterna, dato che un numero crescente di tunisini fugge dal Paese e i cittadini di Paesi terzi la utilizzano come luogo di partenza preferenziale. I flussi di migranti non sono aumentati solo a causa della crisi economica causata dal COVID-19, ma hanno assunto nuove forme, dato che il “self-smuggling” e le reti locali sostituiscono sempre più i gruppi transnazionali consolidati di trafficanti di esseri umani. Questo spostamento verso metodi di migrazione più locali e informali implica che gli approcci istituzionali che l’Europa ha adottato nell’ultimo mezzo decennio stanno diventando sempre meno efficaci.

A livello geopolitico ed economico, la stessa logica che ha portato la Tunisia a un partenariato privilegiato con l’UE dieci anni fa rimane valida oggi. Le democrazie rappresentano semplicemente alleati migliori degli Stati autoritari, che sopprimono i problemi interni gettando le basi per crisi future, oltre a perseguire azioni destabilizzanti nella regione. Gli Stati democratici che sono in grado di guardare oltre gli interessi di parte e rispondere alle aspirazioni economiche della popolazione sono partner più attraenti per le economie sviluppate dell’Europa. Data la vicinanza geografica ed economica della Tunisia, l’Europa sarà il principale beneficiario esterno di un’economia tunisina più evoluta: nel 2020 l’UE rappresentava il 70,9% delle esportazioni della Tunisia e il 48,3% delle sue importazioni. Se l’Europa contribuisse a stimolare il settore privato tunisino, i due attori non potrebbero fare altro che avvicinarsi.

L’Europa ha un chiaro interesse geostrategico a sostenere la Tunisia per contrastare le attività di attori globali come la Cina, la Russia, la Turchia e gli Stati del Golfo, che spesso alimentano la propria influenza con promesse economiche. Inoltre, un maggiore impegno darà ai Paesi europei la possibilità di espandersi nel Maghreb. Gli europei guardano ancora una volta al Vicinato meridionale per difendersi dalle minacce, cogliere le opportunità e stabilire un’autonomia strategica in quella che sta diventando una parte di mondo sempre più complessa. In tal senso dovrebbero mettere la Tunisia al centro dei propri sforzi, seguendo una linea coerente con la recente comunicazione congiunta dell’UE su un partenariato rinnovato con il Vicinato meridionale.

Come l’UE può aiutare la Tunisia

Se quest’anno il finanziamento del FMI è l’unica speranza di sopravvivenza economica della Tunisia, gli europei possono aiutare il Paese a sfruttare al meglio il sollievo che un salvataggio finanziario potrà generare. Attraverso partenariati con l’UE e con i singoli Stati, gli europei possono offrire un’assistenza mirata per promuovere la diversificazione economica e contribuire con i propri incentivi a riavviare il processo di democratizzazione. Se l’Europa saprà stimolare il progresso nelle aree giuste, potrebbe dare alla Tunisia lo slancio necessario per uscire dalla trappola del debito, invertire le tendenze politiche ed economiche destabilizzanti e realizzare le riforme che il popolo chiede a gran voce. Questa è la via più diretta per fare della Tunisia un esempio democratico per la regione.

Se l’Europa vuole essere efficace, dovrà imparare dagli ultimi dieci anni e adattare un approccio diverso. Sarà fondamentale evitare di cercare di negoziare un pacchetto di ampio respiro come il DCFTA e optare invece per un’assistenza mirata che possa avere un impatto in tempi brevi. Altrettanto importante sarà offrire alla Tunisia sovvenzioni e altri pacchetti di assistenza come incentivi per assicurare l’attuazione delle riforme. Dati i problemi di rimborso del debito del Paese, ulteriori prestiti non farebbero che causare altrettanti problemi. Gli ultimi sei mesi hanno dimostrato che, nonostante un malessere sempre più diffuso, il primo ministro (con l’aiuto di Ennahda e un po’ di astuzia politica) può assicurarsi la maggioranza parlamentare quando è in grado di dimostrare che lo Stato è sotto pressione da parte dei mercati o dell’opinione pubblica. Gli europei possono svolgere un ruolo significativo aiutando il presidente e facendolo sentire coinvolto in prima persona nelle riforme in modo che non si irrigidisca su posizioni contrarie. Sarà anche importante comunicare in modo efficace la fornitura di assistenza di qualsiasi genere alla popolazione, in modo che l’Europa venga percepita come un alleato e non come un predatore.

Diversificazione economica

Una delle sfide chiave del prossimo anno sarà la riduzione della dipendenza tunisina dalle aziende statali, che sono ormai troppo grandi per rappresentare strumenti efficaci dello Stato e che, al contrario, sono diventate una fonte di rischio che potrebbe destabilizzare l’intero Paese, visti gli effetti di impoverimento che la loro ristrutturazione avrà sui numerosi dipendenti.

Per diversificare con successo questa dannosa dipendenza, gli europei dovrebbero aiutare la Tunisia a diventare un luogo di investimento più attraente, contribuire allo sviluppo di settori economici sostenibili nel futuro, in linea con la nuova agenda per il Mediterraneo, e aiutare a creare più posti di lavoro per i giovani.

Gli europei dovrebbero promuovere riforme che favoriscano l’allineamento economico della Tunisia con il mercato interno europeo, settore per settore. Questo comporterà un processo a piccoli passi, dove possibile, per raggiungere gradualmente tale obbiettivo lasciando da parte l’approccio “tutto o niente” del DCFTA. Una lenta ma costante armonizzazione delle norme e delle procedure tunisine con quelle dell’UE contribuirebbe ad attirare gli investimenti privati europei e a dare vita a un partenariato più stretto e a maggiore sostegno.

In questo sforzo, un ruolo importante spetterà alla Tunisia stessa, che dovrà migliorare il contesto nazionale per gli investimenti modernizzando il quadro giuridico, i regolamenti e le istituzioni economiche. Questo aiuterebbe anche il Paese a uscire dall’attuale sistema di clientelismo senza minacciare gli interessi commerciali esistenti, poiché amplierebbe il bacino di opportunità piuttosto che colpire le attività esistenti. Per sostenere questo processo, la rappresentanza dell’UE nel Paese dovrebbe dare vita a una versione condivisa del modello utilizzato dai tunisini per progettare la legge sugli investimenti. Un gruppo di indirizzo congiunto che coinvolga anche i principali attori economici tunisini potrebbe occuparsi di individuare le riforme necessarie così come gli ostacoli alla loro attuazione e potrebbe essere incentivato a facilitare il processo di riforma attraverso ulteriori IDE e una pressione politica da parte degli Stati membri dell’UE. Ad esso potrebbe inoltre spettare il coordinamento tra le esigenze europee e le capacità tunisine in settori specifici. Per ottenere il sostegno del popolo tunisino al programma, l’UE dovrebbe comunicare con chiarezza la condizionalità delle sovvenzioni europee, il coinvolgimento del settore privato e il sostegno diretto ai progetti più grandi.

Oltre a lavorare con i partner tunisini per migliorare l’ambiente per gli investimenti, gli europei possono contribuire direttamente a stimolare la crescita in settori chiave che si allineano con i più ampi interessi europei nel Vicinato meridionale. La chiave è la gestione delle risorse naturali, in particolare nei settori dell’acqua e dell’energia. Sovvenzionare direttamente lo sviluppo delle infrastrutture in queste aree chiave aiuterebbe a ridurre l’insicurezza idrica tunisina, rendendo il Paese più resistente di fronte all’impatto previsto del cambiamento climatico. Inoltre, contribuire a facilitare la transizione della Tunisia verso l’energia verde potrebbe contenere l’impatto distruttivo delle riforme dei sussidi e il costo della fornitura di energia e carburante. Data la scarsa attrattiva della Tunisia per i mercati dei capitali e il carente quadro normativo (che scoraggia gli investimenti del settore privato), progetti come questo richiedono il sostegno di Stati stranieri. Se l’UE non coglierà tali opportunità, potrebbe lasciare campo aperto all’intervento di potenze concorrenti come la Cina. 

L’Europa può inoltre facilitare il raggiungimento dei propri obiettivi nell’ambito della migrazione sostenendo l’industria della pesca tunisina, che ha subito un tracollo a causa della pesca eccessiva e del cambiamento climatico. Questo ha fatto sì che alcuni operatori del settore si siano rivolti altrove, dedicandosi al lucrativo business del traffico di esseri umani. L’UE dovrebbe fornire incentivi finanziari per la rottamazione delle vecchie barche invece di permettere che vengano usate per tali scopi. Potrebbe inoltre fornire assistenza nell’attuazione di adeguamenti strutturali che aprirebbero l’accesso a fonti di reddito alternative per coloro che dipendono dalla pesca, lavorando anche con i comuni tunisini interessati per rivitalizzare le rispettive aree e per sviluppare settori di attività più costruttivi al fine di compensare il declino della pesca.

Per facilitare il graduale allineamento della Tunisia al mercato interno europeo, l’UE dovrebbe cercare di emulare l’accordo agricolo con il Marocco dando all’agricoltura tunisina un accesso semplificato al mercato europeo. Questo potrebbe imprimere una spinta immediata al settore agricolo, contrastando le recenti perdite causate dalla pandemia. Allo stesso modo, l’Europa potrebbe fornire assistenza al fiorente settore tunisino delle forniture mediche, che potrebbe svilupparsi nella direzione di esportazioni potenzialmente lucrative e dare all’Europa accesso a una produzione di dispositivi di protezione individuale e prodotti farmaceutici più vicina. Armonizzare il settore medico tunisino con quello europeo potrebbe anche aiutare le aziende mediche europee a crescere nel Paese, diventato un centro regionale per il turismo sanitario.

Anche se questi passi possono aiutare a stimolare l’economia, il primo ministro tunisino avrà comunque bisogno del supporto degli Stati europei per creare programmi di assistenza che possano assorbire i costi sociali immediati dell’accordo con il FMI. Ciò comporterà la creazione di un sistema di tassazione più progressivo per sostenere le entrate dello Stato, la riduzione della fuga di capitali e la riforma del programma di sovvenzioni.

Passi verso una partnership più profonda

L’UE e i suoi Stati membri dovrebbero lavorare insieme per portare avanti un approccio che promuova l’impegno coeso verso la Tunisia al fine di costruire un partenariato più profondo attraverso una serie di passi progressivi. Il coinvolgimento dei giovani offre un esempio importante di come le parti possono unire le forze per garantire gli interessi europei, aiutare l’economia tunisina e sviluppare una relazione più stretta, non da ultimo aggiornando il partenariato UE-Tunisia per la gioventù, creato nel 2016, in modo che fornisca borse di studio per l’istruzione e la formazione professionale in Europa. Questo potrebbe tradursi in un periodo di tempo durante il quale i partecipanti sarebbero autorizzati a lavorare in uno Stato membro dell’UE dopo la laurea. Tale iniziativa migliorerebbe le competenze dei giovani tunisini e creerebbe legami con il tessuto economico europeo che potrebbero portare a un aumento del commercio. Simili programmi potrebbero anche aiutare a contenere la marea di giovani tunisini che tentano la traversata illegale verso l’Europa, fornendo più percorsi legali con maggiori opportunità. Si ridurrebbe anche la fuga di cervelli evitando che i professionisti qualificati lascino definitivamente il Paese.

Inoltre, l’UE potrebbe facilitare l’accesso alle sovvenzioni per gli imprenditori in campi come la tecnologia e incoraggiare gli scambi tra operatori europei e tunisini. Allo stesso modo, attraverso l’Iniziativa di Nicosia organizzata dal Comitato europeo delle regioni, l’Europa potrebbe aiutare il nascente sistema politico decentralizzato della Tunisia a mettere radici utilizzando programmi di gemellaggio per condividere esperienze su come migliorare l’efficacia delle amministrazioni comunali e promuovere l’impegno popolare. Il rafforzamento dei comuni aiuterebbe a contrastare la posizione privilegiata della capitale e delle regioni costiere della Tunisia, a beneficio di tutto il Paese. Questo modello di gemellaggio potrebbe essere ampliato fino a includere altre istituzioni: per esempio, le pubbliche amministrazioni europee potrebbero condividere le proprie esperienze per aiutare gli sforzi di riforma della Tunisia.

L’UE dovrebbe far leva sul sostegno e l’assistenza finanziaria per promuovere la piena democratizzazione del sistema politico tunisino. Tuttavia, onde evitare che i politici ostruzionisti puntino il dito contro l’Europa accusandola di neocolonialismo, l’UE dovrebbe assumere una posizione che dimostri la volontà di aiutare i tunisini a progredire verso la democratizzazione e la crescita economica. Gli Stati membri possono sostenere l’UE su questo punto facendo pressione su Saied per un rinnovato dialogo nazionale che porti all’attuazione della costituzione tunisina. Ciò comporterebbe una roadmap per la nomina dei giudici della Corte costituzionale e il completamento della nomina delle commissioni nazionali previste dalla costituzione su questioni come il buon governo, la lotta alla corruzione, i diritti umani e lo sviluppo sostenibile. Una proposta di questo genere offrirebbe un canale più costruttivo per convogliare le aspirazioni del presidente, permettendogli di mantenere la sua popolarità guidando pubblicamente un progetto costituzionale nazionale, e scoraggiandolo al tempo stesso dall’adottare una posizione distruttiva riguardo alla riscrittura della costituzione dopo il fallito tentativo di imporre elezioni anticipate.

Mechichi otterrebbe maggiore influenza sul parlamento se l’Europa vincolasse chiaramente l’assistenza finanziaria per l’attuazione delle riforme economiche agli sforzi del parlamento per aggiornare centinaia di leggi obsolete e il Codice penale. Poiché le prossime elezioni saranno pesantemente influenzate dalle conseguenze dell’accordo del FMI, tutti i gruppi parlamentari avranno un incentivo a mostrarsi parte della soluzione piuttosto che parte del problema.

A forza di trovarsi costantemente sull’orlo del disastro, la Tunisia sta forgiando un gruppo di attori politici disposti a guidare un cambiamento positivo. Questo dà agli europei l’opportunità di spostare il partenariato privilegiato concepito nel 2012 su un piano più elevato, ma per fare ciò occorre che Bruxelles intraprenda un’azione decisa e integrata per assicurare il suo appoggio a Mechichi dopo l’accordo con il FMI. Un chiaro messaggio di forte sostegno internazionale, subordinato al progresso tunisino verso le riforme, può aiutare la Tunisia a fare un passo indietro dal baratro.

Se gli europei sapranno lavorare con i loro partner tunisini di tutto lo spettro politico per identificare chiari obiettivi di riforma e concepire un piano che permetta all’UE di integrare la sua assistenza, la sua esperienza e le sue risorse nel guidare la politica di riforma tunisina, forse esiste ancora un barlume di speranza. Tuttavia, questo richiederà uno sforzo congiunto dell’UE e dei principali Stati membri interessati, come Francia, Germania, Italia e Spagna: insieme, questi devono ideare un modello iterativo di sostegno finanziario per specifiche misure di capacity building, e usare la propria influenza diplomatica per cooptare gli attori politici ostruzionisti.

Non c’è alcuna garanzia che l’Europa saprà sfruttare questa opportunità. Ma se questo non accadrà, il peso delle conseguenze dell’accordo con il FMI fomenterà l’instabilità e metterà in pericolo l’unico caso di successo democratico prodotto dalle rivolte arabe, aprendo la porta ad altri attori geopolitici che potrebbero radicarsi in Tunisia, riducendo la credibilità europea come alleato tra gli altri Stati del Maghreb.

L’autore

Tarek Megerisi è Senior Policy fellow del programma Medio Oriente e Nord Africa presso lo European Council on Foreign Relations. Negli ultimi dieci anni ha lavorato con una serie di stakeholder fornendo assistenza per la transizione degli Stati a seguito delle rivolte arabe.

Ringraziamenti

Questo documento è stato reso possibile dal sostegno al programma Medio Oriente e Nord Africa di ECFR da parte di Compagnia di San Paolo e dei ministeri degli Esteri di Danimarca, Norvegia e Svezia.

L’autore desidera ringraziare tutti gli interlocutori in Europa e in Tunisia per l’impegno mostrato e per l’assistenza nella formulazione delle idee esposte in questo documento.

ECFR non assume posizioni collettive. Le pubblicazioni di ECFR rappresentano il punto di vista degli autori.