Promuovere la sovranità strategica europea nel vicinato orientale

European Council President Charles Michel attends a videoconference during an EU-Eastern Partnership Leaders’ summit at the Europa building in Brussels, Belgium June 18, 2020
Immagine di Francisco Seco/POOL New via REUTERS
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In breve

  • A partire dal 2002 l’obiettivo dell’Unione Europea riguardo al Vicinato orientale è stato circondarsi di democrazie che sostengono lo stato di diritto mantenendo economie di mercato e società aperte.
  • Tale obiettivo resta importante e di grande attualità, in quanto come dimostrano i recenti eventi in Bielorussia, la stabilità autoritaria nel Vicinato si è sempre rivelata illusoria.
  • La Russia ha utilizzato mezzi politici, economici e militari in risposta agli sforzi europei volti a sostenere la transizione dell’Europa orientale verso la democrazia e l’economia di mercato.
  • La tendenza dell’UE a evitare di affrontare di petto le questioni di sicurezza ha portato la Russia a fare ricorso sempre più spesso a operazioni clandestine e minacce militari.
  • Per contrastare tale atteggiamento, la politica di Vicinato dell’UE dovrebbe concentrarsi su diversi aspetti: lo stato di diritto e le riforme giudiziarie, la regolamentazione dei media e la guerra dell’informazione, la riforma del settore della sicurezza e il capacity building, la sicurezza informatica ed energetica.
  • Inoltre, l’assistenza europea dovrebbe integrare la dimensione militare e di sicurezza per favorire una riforma dei settori della difesa e delle forze armate dei Paesi del Partenariato Orientale.

Introduzione

Negli ultimi anni diverse tendenze hanno costretto l’Unione Europea a ridefinire la sua politica estera, tra queste la crescente consapevolezza tanto della necessità di agire in maniera più autonoma su alcune questioni esterne e di esercitare la propria sovranità in maniera strategica, che del fatto che il mondo è diventato sempre più “geopolitico”. In un mondo caotico in cui altre potenze dimostrano maggiore assertività, la voce dell’UE rischia di perdere autorevolezza, a meno di diventare l’interlocutore influente che ambisce a essere. Pertanto, costruire un’Europa più geopolitica è diventato l’obiettivo dichiarato della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, condiviso dalla maggior parte degli Stati membri la cui influenza è destinata ad affievolirsi se l’UE non agirà dimostrando più ambizione, forza e coesione.

Se la pandemia del Covid-19 è diventata la priorità assoluta dell’UE, in altri Paesi il coronavirus non ha intaccato la volontà di continuare a perseguire con determinazione specifici obiettivi geopolitici. La crisi sanitaria ha messo in luce molte delle debolezze strutturali, amministrative e di sicurezza che da tempo affliggono i Paesi dell’Europa orientale. Nel frattempo, i presunti brogli nelle recenti elezioni parlamentari in Georgia hanno scatenato una crisi nazionale. In Ucraina si è assistito a un rallentamento delle riforme democratiche e a una crisi costituzionale scaturita da una sentenza controversa. Le ombre sull’elezione presidenziale in Bielorussia hanno acceso le proteste e varie componenti della società civile rifiutano di riconoscere l’autorità del presidente Aleksandr Lukašenko. Una brutale repressione da parte del regime e un intervento russo clandestino hanno contribuito a mantenere Lukašenko al potere, almeno fino ad ora. Alla luce di questi eventi la Russia ha rivisto in parte il programma di esercitazioni Kavkaz 2020, originariamente destinate a dare un chiaro segnale all’Ucraina, così da poter contare su forze mobili da utilizzare come deterrente sia nei confronti dei manifestanti bielorussi che dell’Occidente. Riguardo poi a una crisi dai contorni militari più evidenti, il confronto tra Armenia e Azerbaigian sul territorio Nagorno-Karabakh si è intensificata fino a sfociare in una vera e propria guerra.

L’UE ha un’influenza limitata su tali sviluppi nonostante sia, di fatto, il più importante partner commerciale di tutti i Paesi del Partenariato Orientale, investa miliardi in programmi economici, sociali e infrastrutturali e rimanga una sorta di modello (e meta ambita di studio, lavoro e turismo) per i cittadini di questi Stati. Nella regione i problemi dell’UE vanno oltre la difficoltà a trasformare il soft power in hard power. Tutti gli Stati del Partenariato Orientale si trovano ad affrontare importanti questioni di sicurezza che complicano il processo di policy-making, ma dato che l’UE fornisce solo un aiuto marginale in tal senso, spesso gli interessi europei vengono relegati a un ruolo secondario. Per questo motivo Donald Tusk, presidente del Partito Popolare Europeo, ha sostenuto che “occorre aumentare la collaborazione tra l’UE, i suoi Stati membri e alcuni singoli membri in materia di sicurezza, intelligence e difesa. Una nuova iniziativa, un patto per la sicurezza del Partenariato Orientale, sarebbe un buon punto di partenza per avviare la discussione.” Se, da un lato, il Partenariato Orientale ha ottenuto molti risultati, l’UE ha scarse possibilità di acquisire influenza politica nella regione o di contribuire a rafforzare la resistenza di questi paesi contro le interferenze esterne.

Questo documento analizza le varie opzioni che permetterebbero all’UE di rafforzare la sua sovranità strategica nel Vicinato orientale e i motivi per cui non ha ancora preso atto di quanto sarebbe necessario per difendere i suoi interessi nella regione (mentre non si sofferma su una disamina di come l’Europa dovrebbe rapportarsi con la Russia, tema affrontato in altri studi in materia di deterrenza e difesa e protezione contro le minacce ibride.)

Interessi e obiettivi dell’ue nei paesi del Partenariato Orientale

L’interesse primario dell’UE nel Vicinato orientale è circondarsi di un “cerchio di amici”, come lo definì l’allora presidente della Commissione Europea Romano Prodi nel 2002. L’anno successivo, in occasione del lancio della politica di Vicinato, l’UE indicò la risoluzione dei conflitti tra le sue priorità. Da allora si è verificata una crescita significativa dei conflitti nel Vicinato, che non è stata però accompagnata da un pari aumento dell’impegno degli Stati membri rispetto a quest’area tanto delicata. Per l’UE la transizione dei Paesi post-sovietici dal comunismo alla democrazia competitiva, l’ancoraggio delle amministrazioni allo stato di diritto e il funzionamento dell’economia di mercato non solo garantirebbero una maggiore pace e stabilità, ma sarebbero un incentivo alla crescita economica, allo sviluppo sostenibile, alla creazione di legami intersociali e culturali e a relazioni di Vicinato solide e durature. Nonostante la globalizzazione e la crescente affermazione delle comunicazioni a lungo raggio, i Paesi dell’immediato Vicinato restano a oggi più importanti delle potenze più lontane per tutto ciò che riguarda commercio, investimenti e sicurezza.

Sebbene il sostegno dell’UE volto a favorire questa trasformazione abbia prodotto risultati altalenanti, l’Unione deve riconoscere che un totale fallimento di tale processo nel Vicinato orientale non solo è possibile, ma avrebbe conseguenze disastrose. La Bielorussia può fungere da monito ricordando quali sarebbero gli effetti di una mancata evoluzione a livello politico ed economico. Mano a mano che Lukašenko invecchia e la sua legittimità diminuisce rapidamente alla luce della violenta repressione delle proteste dell’opposizione, prendono forma nuovi interrogativi sulla sua successione, sulla sovranità bielorussa nell’Unione Statale e sulle aspettative di vita dell’attuale modello economico. Nel migliore dei casi la Bielorussia rimarrà un Paese povero e fragile lungo il confine dell’UE. Nel peggiore, diventerà uno Stato cliente cobelligerante che la Russia potrà sfruttare per minacciare e sfidare direttamente la sovranità e l’integrità territoriale dell’UE. L’Ucraina, la Moldavia e la Georgia potrebbero diventare fonte di instabilità sotto l’influenza di Mosca, nonché un trampolino di lancio per tentativi di sovversione clandestina e operazioni militari convenzionali da parte del Cremlino. Senza un isolamento territoriale paragonabile a quello fornito dal Mediterraneo, questa rappresenterebbe una minaccia più seria per gli Stati membri orientali dell’UE persino rispetto ai disordini che l’Unione affronta a sud.

Tali turbolenze smentiscono gli argomenti a favore della “stabilità autoritaria”. Anche nelle regioni separatiste sotto stretto controllo dei servizi segreti russi, le autorità locali sono spesso minacciate e talvolta spodestate dalle rivolte pubbliche. Nell’Ossezia del Sud le proteste contro un’elezione contestata nel 2012 si sono concluse con la morte del candidato dell’opposizione (il potenziale vincitore del voto popolare). In Abkhazia il “presidente” nominale è stato deposto due volte, rispettivamente nel 2014 e nel 2020, a seguito di rivolte popolari innescate da elezioni presumibilmente pilotate. Anche se l’UE dovesse mettere fine al sostegno alla trasformazione politica ed economica nel suo Vicinato orientale, il desiderio popolare di un governo responsabile non scomparirebbe, al pari dell’instabilità generata da processi politici fallimentari.

L’obiettivo principale dell’UE riguardo al Partenariato Orientale è plasmare uno “spazio comune di democrazia, prosperità e stabilità condivise” a cui ha fatto recentemente riferimento il Consiglio Europeo, ma esistono dichiaratamente anche altri ambiti di interesse e per alcuni leader europei la trasformazione politica resta un prerequisito al raggiungimento di altri scopi. Gli sforzi per combattere la corruzione, la criminalità organizzata e il riciclaggio di denaro all’interno dell’UE e del Vicinato orientale hanno attirato una certa attenzione da parte dei media, sulla scia del rapporto Mueller e dello scandalo che ha fatto seguito alla decisione dell’allora presidente Trump di liquidare l’ambasciatrice americana in Ucraina nel 2019. In definitiva, l’integrità e la professionalità delle autorità inquirenti e giudiziarie locali saranno un fattore determinante per stabilire se l’UE sarà in grado di raggiungere i suoi obiettivi nel Vicinato orientale.

Le dichiarazioni congiunte dell’UE e del Partenariato Orientale riguardano anche questioni come la mobilità della forza lavoro e la migrazione, le infrastrutture, i giovani, l’istruzione, i gruppi di minoranze etniche, la digitalizzazione, i passi verso l’allineamento economico, il Green Deal europeo, l’assistenza sanitaria, con particolare in riferimento alla pandemia del Covid-19, e la parità di genere. Tuttavia, questi sono programmi relativamente apolitici e burocratici che non dicono molto sulla capacità dell’Europa di attuare la sua politica estera, né si tratta di aree che terze parti hanno strumentalizzato contro l’UE o gli Stati del Partenariato Orientale. Questo è in parte dovuto al fatto che la Bielorussia e l’Azerbaigian mostrano generalmente un orientamento politico diverso da quello dell’UE, ma sono formalmente parte del suo Vicinato orientale. Di conseguenza, esiste una certa pressione diplomatica affinché l’UE si relazioni più strettamente con questi Stati o quantomeno discuta di questioni pratiche che sono di rilevanza generale all’interno del Partenariato Orientale.

In termini di sforzi volti a acquisire influenza politica sulle decisioni del Partenariato Orientale, i legami energetici con la Russia sono l’unica altra questione strategicamente importante inserita negli accordi tra le parti. Tuttavia, il transito energetico è una tematica che Mosca sfrutta per esercitare pressione sugli Stati del Partenariato Orientale (e che l’UE utilizza per alleviarla). Pertanto, anche se le questioni energetiche possono portare a sensazionali titoli da prima pagina, sono inscindibili da un più ampio confronto sulle regole applicabili agli Stati del Partenariato Orientale e sui loro diritti. Detto altrimenti, le controversie sull’energia riguardano se e in che modo l’UE dovrebbe sostenere gli Stati del Partenariato Orientale nella transizione verso la democrazia liberale, la società aperta, lo stato di diritto e il libero mercato, o se invece dovrebbe mantenere stretti legami con Mosca.

Il sostegno dell’UE alle transizioni politiche ed economiche nel Partenariato Orientale non è mai stato scevro da tensioni. La Russia vede l’instabilità, la vulnerabilità, la debolezza e la dipendenza di questi Paesi come un meccanismo essenziale per esercitare influenza nelle sue immediate vicinanze. Il Cremlino ha sfruttato la dipendenza economica, in particolare quella dal petrolio e dal gas naturale, per aumentare la sua influenza in Georgia, Ucraina e Bielorussia e la corruzione mirata, la guerra dell’informazione, i brogli elettorali e le operazioni di intelligence sono alcune delle armi che Mosca ha impiegato per screditare, estorcere o intimidire gli attori politici, allo scopo di affidare il potere a individui che hanno a cuore gli interessi russi. Come se ciò non bastasse, Mosca ha anche fatto ricorso alla forza militare, in modo più o meno palese. Pare superfluo ricordare che le riforme relative allo stato di diritto, al libero mercato e al sistema politico che l’UE ha in mente per il suo Vicinato contribuirebbero a diminuire la vulnerabilità dei Paesi del Partenariato Orientale di fronte alla pressione russa.

In virtù delle tattiche messe in atto nella regione, unitamente alla mancanza di iniziative costruttive in queste aree, la Russia si è guadagnata la reputazione di “guastafeste strategico”, un’etichetta che si riferisce in particolare alle operazioni segrete volte a costruire reti clandestine all’interno di un Paese allo scopo di indebolirne le strutture istituzionali, politiche, economiche e di sicurezza. Il fine ultimo di tali operazioni è fare soccombere il Paese alla pressione straniera o, se ciò non accade, accendere un conflitto “interno” che fornisca un pretesto per l’intervento. Per Mosca le operazioni segrete non sono una novità, come mostra il grafico sottostante (versione aggiornata di uno schema precedente che sintetizzava le operazioni segrete sovietiche contro l’Occidente e i suoi alleati nel mondo in via di sviluppo negli anni Settanta).

L’Ucraina fornisce molti esempi dell’applicazione di queste tattiche da parte della Russia (come descritto da altre fonti). Gli eventi accaduti durante la presidenza di Viktor Janukovyč hanno dimostrato che il Cremlino ha molte opportunità di ricorrere a “uomini forti” locali, oligarchi e figure pubbliche disposte ad aiutare Mosca a raggiungere i suoi obiettivi. La centralizzazione del potere, la cd. “state capture”, la corruzione sistemica e gli attacchi all’indipendenza della stampa e della magistratura sono allettanti tanto per le élite locali che per chi ambisce a monopolizzare il potere. Se, da un lato, esiste un labile confine tra la debolezza interna e la vulnerabilità indotta dall’esterno, dall’altro gran parte del successo delle operazioni clandestine si basa sullo sfruttamento delle divisioni preesistenti all’interno di un Paese. Ma in termini pratici, questo confine non è rilevante per la politica dell’UE, che ha bisogno di mitigare le debolezze istituzionali degli Stati del Partenariato Orientale indipendentemente dalla loro origine.

L’UE ha talvolta tentato di negoziare accordi transitori che trasformassero la competizione con la Russia in una situazione di mutuo beneficio. Lo ha fatto impegnandosi direttamente con Mosca e offrendo concessioni economiche e sociali, nonché assistenza per le riforme e la modernizzazione, come previsto dalla strategia comune della PESC. L’Unione ha anche cercato di negoziare accordi di pace per conflitti territoriali di lunga data, offrendo alla Russia la cogestione di istituzioni di sicurezza comuni come previsto nel Memorandum di Meseberg del 2010. Tuttavia, quando hanno tentato di mettere in atto queste iniziative, la Russia e l’UE non sono state in grado di arrivare a una visione condivisa per la regione, a causa delle profonde differenze ideologiche sul sistema di sicurezza europeo. Invece di promuovere la cooperazione, il fallimento degli sforzi congiunti ha accresciuto il sospetto reciproco.

Rischi e vulnerabilità della politica UE

Nei due decenni che hanno seguito la disintegrazione dell’Unione Sovietica, la distensione della Russia nei confronti dell’Occidente non ha impedito a Mosca di continuare a lavorare per ottenere maggiore influenza sul suo Vicinato, anche ricorrendo a mezzi militari. Queste iniziative destabilizzanti hanno preso di mira gli Stati post-sovietici che avevano istituzioni deboli, nessuna tradizione di leadership e responsabilità politica (tutti i vertici politici sovietici erano concentrati a Mosca), un’amministrazione disfunzionale, servizi di sicurezza inefficienti, compromessi ed esenti da controllo, una cultura politica polarizzata dominata dal cinismo e dalla manipolazione delle informazioni, popolazioni distanti o addirittura alienate dalla politica e media dipendenti dai finanziamenti di fonti esterne. La resilienza degli Stati post-sovietici alle operazioni segrete era già ridotta in partenza mentre ad ogni livello della piramide raffigurata sopra il Cremlino metteva in campo risorse atte a sfruttare queste debolezze.

Le operazioni segrete di Mosca catturano l’attenzione dell’Occidente solo quando raggiungono la cima della piramide e la violenza separatista comincia a minacciare la sopravvivenza delle singole nazioni, ma a questo punto è spesso troppo tardi per organizzare una difesa adeguata. Il modo più efficace di combattere tali iniziative clandestine è concentrarsi sulle loro radici (raffigurate alla base della piramide) per impedire al nemico di sovvertire le strutture chiave, penetrare lo spazio di informazione del Paese target, creare organizzazioni compiacenti, compromettere le reti informatiche locali o reclutare funzionari e agenti locali.

Tuttavia, gli Stati possono costruire tali difese solo se dispongono di sistemi di sicurezza e di polizia funzionanti, che svolgono i loro compiti in modo professionale e responsabile. Una riforma sostenibile nei Paesi post-sovietici non riguarda ovviamente solo la resistenza ai tentativi di sovversione russi, ma comprende anche la costruzione dello stato e delle istituzioni. Ciononostante, gli sforzi dell’Occidente a sostegno a questi Paesi sono destinati a fallire se si continuerà a ignorare la geopolitica. Questo perché le istituzioni già fragili in partenza (come la magistratura, la polizia, i pubblici ministeri, i servizi di intelligence, l’apparato militare, gli istituti finanziari, le banche nazionali e i media pubblici) si trovano ad affrontare un assalto costante, coordinato e sotto traccia alla loro integrità e funzionalità.

Per l’UE si pone un problema strategico, in quanto le iniziative di ampio respiro a sostegno dei gruppi della società civile e delle politiche di integrazione economica a lungo termine lasciano spazio a tentativi di dirottare il processo politico nel contesto locale che non rientrano in una normale competizione democratica, ma sono di solito guidati da interessi precisi e da operatori russi che mirano principalmente a rovesciare le riforme relative allo stato di diritto e a una governance efficace, nonché a ristabilire ed espandere le strutture sovversive clandestine. In ambito elettorale, i contendenti spesso fanno promesse durante le campagne (come maggiori tutele sociali o nuove riforme) ma poi, una volta al potere, agiscono in maniera ben diversa, ribaltando le riforme precedenti e sovvertendo le istituzioni. Si crea così, immediatamente, un divario tra il mandato elettorale e le politiche effettive, che lascia l’UE nell’incertezza tra rispettare il processo politico locale o intervenire per richiamare i governi ai loro impegni.

In questo contesto l’UE ha attuato quelle che potrebbero essere considerate politiche “da giorni di sole” proponendo incentivi economici e la prospettiva di maggiore integrazione, ma la capacità di soddisfare tali aspettative (e attuare le riforme) dipende dalla volontà politica dei leader locali. Il modello funziona quando l’UE tratta con Stati stabili, ricchi e sicuri come la Svizzera o la Norvegia, ma non porta alcun risultato con i Paesi del Partenariato Orientale.

Alcune di queste problematiche sono ascrivibili alla filosofia che anima il Partenariato Orientale, la politica europea di Vicinato e gli accordi di libero scambio globale e approfondito (DCFTA), che riguardano principalmente il commercio, la conformità normativa e l’integrazione economica. L’UE ha generalmente considerato le questioni relative allo stato di diritto e alla riforma amministrativa puramente complementari a questi accordi.

Nella realtà, dovrebbe essere il contrario. Solo lo stato di diritto e riforme amministrative efficaci possono permettere ai cittadini, agli imprenditori e agli investitori di beneficiare pienamente dell’allineamento normativo e dell’integrazione economica. Inoltre, l’UE applica criteri molto limitati ai Paesi del Partenariato Orientale in materia di buona governance e stato di diritto, rendendo in tal modo difficile imporre una condizionalità specifica sulle diverse questioni. L’Unione ha prestato poca attenzione all’attuazione delle riforme, affidandosi invece a un esercizio di mera verifica formale. Per esempio, la riforma giudiziaria dell’Ucraina ha prodotto emendamenti costituzionali e leggi praticabili, ma gli interessi personali all’interno della magistratura hanno dirottato il processo decisionale sulla riammissione dei giudici. Alla fine, il paese si è ritrovato a fare i conti con giudici compiacenti di lungo corso che hanno sfruttato le proprie posizioni per sabotare le riforme, instradando l’Ucraina verso la crisi costituzionale.

Nei Paesi del Partenariato Orientale gli interessi personali spesso eludono, diluiscono o contrastano le riforme attraverso ulteriori leggi o decreti amministrativi. Il problema è aggravato dalla mancanza di una politica coerente e significativa da parte dell’UE volta a sostenere le organizzazioni della società civile e i media indipendenti, entrambi essenziali per l’accountability democratica e la lotta alla disinformazione. Da ultimo, l’UE non ha sviluppato alcun programma strutturato di capacity building rivolto al sistema giudiziario, nonostante i Paesi del Partenariato Orientale presentino sistemi giudiziari tristemente deboli e abbiano registrato il fallimento dei tentativi di riforma autonoma. Lo stesso vale per l’ambito amministrativo. Inoltre, l’UE non ha la capacità di fornire direttamente servizi giudiziari o amministrativi a un Paese del Partenariato Orientale, ad esempio presiedendo un processo particolarmente delicato o che presenta una specifica rilevanza politica.

Esistono poi altre carenze nella politica europea generate dalla marginalizzazione delle questioni di sicurezza (sia nella politica interna dell’Unione che in politica estera). Tra queste si possono citare le seguenti:

  • La mancanza di iniziative per la cyber security, la resilienza informatica e lo sviluppo di capacità digitali nell’ambito della politica europea di Vicinato.
  • La mancanza di un approccio coordinato sulle questioni di sicurezza finanziaria nei Paesi del Partenariato Orientale, in particolare in materia di riciclaggio di denaro, altri crimini finanziari e finanziamenti esteri a organizzazioni politiche o ai media.
  • La mancanza di risorse di intelligence sul campo che siano in grado di valutare le diverse situazioni e, soprattutto, il personale coinvolto senza fare affidamento solo su informazioni di dominio pubblico o intermediari locali. In un ambiente operativo caratterizzato da istituzioni deboli, scarsa integrità amministrativa e debole supervisione giudiziaria, molto dipende dal personale generico piuttosto che da uffici istituzionali, norme, procedure e processi. L’incapacità dell’UE di valutare i soggetti che ricoprono ruoli chiave costringe poi a dover rimediare in tutta fretta quando le riforme cominciano a traballare.
  • La mancanza di iniziative di capacity building e di cooperazione volte a supportare i servizi di intelligence e di polizia locali allo scopo di individuare e sventare i tentativi sovversivi della Russia (ad eccezione dell’Ucraina, l’unico paese del Vicinato con significative capacità di intelligence proprie, ma l’efficacia di questi servizi è spesso minata da questioni di politica interna).
  • La carenza di programmi concreti di riforma della polizia. La corruzione all’interno della polizia rimane un problema importante nei Paesi del Partenariato Orientale, che mina la legittimità e l’accettazione pubblica del lavoro degli inquirenti.
  • La mancanza di una politica che aiuti gli Stati del Partenariato Orientale a salvaguardare le frontiere esterne con Paesi terzi, a gestire le questioni relative ad asilo e migrazione e a combattere efficacemente il contrabbando transfrontaliero (attualmente la politica dell’UE in queste aree riguarda solo gli spostamenti tra i Paesi del Partenariato Orientale e l’area Schengen).
  • Uno scarso sostegno alla riforma dell’intero settore della difesa, dall’addestramento militare e gli aiuti esteri alla volontà di schierare forze armate per porre fine a un conflitto. Questa lacuna ha contribuito a permettere che la Russia ricorresse all’intervento armato quale strumento di elezione per contrastare la politica dell’UE. Le forze armate della Russia sono relativamente importanti (molto più della sua economia) e il Cremlino sa bene che l’UE raramente risponde a tali provocazioni ricorrendo a sua volta alle armi. Lo sviluppo di una maggiore capacità militare europea potrebbe disincentivare l’uso della forza da parte della Russia aumentandone i costi.

Nel trattare con avversari come la Russia, l’UE soffre poi di una problematica più generalizzata riguardante la separazione a compartimenti stagni delle responsabilità istituzionali. Se l’UE e il Servizio europeo per l’azione esterna hanno il compito di trattare con i Paesi firmatari del DCFTA e di sorvegliarne l’attuazione, molti degli incentivi insiti nel processo (ad esempio, l’assistenza macrofinanziaria) sono di competenza dei singoli governi o del Fondo Monetario Internazionale. La sicurezza informatica e le risorse di intelligence sono esclusivamente nelle mani degli Stati membri dell’UE, mentre le misure di sostegno militare sono appannaggio della NATO e dei singoli Paesi dell’alleanza. Il coordinamento di tutti questi attori richiede tempo e, di conseguenza, l’UE reagisce più lentamente di altre potenze agli eventi inaspettati.

Il sostegno europeo alle riforme e le iniziative di assistenza per la sicurezza nei Paesi del Partenariato Orientale non influiscono sulle decisioni di ingresso nell’Unione. Anche se alcuni leader di Paesi dell’UE solitamente ambiziosi vorrebbero condizionare la prospettiva di adesione a una “neutralità garantita a livello internazionale” (senza definire chiaramente cosa ciò comporterebbe per gli Stati coinvolti), la protezione delle istituzioni di sicurezza richiederebbe comunque l’intervento dell’UE, in quanto un mancato sostegno diretto minerebbe fatalmente qualsiasi tentativo di dare vita a Stati indipendenti, sovrani e non allineati in prossimità della Russia.

Si tratta di un problema di lunga data. All’epoca della Guerra Fredda, l’Occidente si è trovato spesso a sostenere Stati neutrali o non allineati nella loro lotta per l’indipendenza. Dopo la rottura Tito-Stalin nel 1948, ad esempio, gli Stati Uniti aumentarono immediatamente gli aiuti militari esteri a Belgrado, fornendo equipaggiamento a 19 divisioni jugoslave e fornendo assistenza materiale e tecnica per organizzare una forza aerea efficace.

La cooperazione militare tra la Svezia e il Regno Unito, gli Stati Uniti e altri Stati nordici ha giocato un ruolo fondamentale nella stabilizzazione del fianco settentrionale della NATO durante la Guerra Fredda. Quando l’Austria da poco indipendente affrontò le truppe sovietiche al confine a seguito dell’intervento di Mosca in Ungheria nel 1956, Washington garantì unilateralmente la sovranità e l’integrità territoriale della nuova repubblica. Senza l’assistenza militare, la cooperazione sull’intelligence e, in alcuni casi, garanzie di sicurezza dirette, non sarebbe stato possibile per questi Stati rimanere indipendenti e non allineati in questa fase storica. Le stesse regole restano valide anche oggi.

La capacità dell’UE di agire da garante della sicurezza sul suo fronte orientale sarà determinante anche per assicurarsi che gli Stati membri e i loro massimi rappresentanti siano presi sul serio a Mosca, un aspetto importante in particolare per quei Paesi che, nel lungo periodo, intendono avviare una relazione strategica con la Russia.

Contrariamente alle convinzioni più diffuse, tale relazione non sarà frutto di empatia verso l’élite moscovita e i suoi interessi, né all’acquiescenza nei suoi confronti. La Russia prenderà in considerazione gli interessi dell’UE solo se l’Unione si dimostrerà ferma sulle sue posizioni.

Come ampliare gli strumenti dell’UE

Per riuscire a contrastare le operazioni clandestine della Russia nei Paesi del Partenariato Orientale, l’UE necessita di una politica antisovversiva che protegga le riforme economiche, finanziarie, sociali e politiche. Questo richiede non solo una posizione più attiva e coerente riguardo alle politiche già in essere, ma anche un ampliamento degli strumenti a disposizione in cinque aree chiave:

  • Media e guerra dell’informazione
  • Cyber security
  • Servizi di intelligence e di sicurezza
  • Difesa
  • Energia

Per quanto riguarda il primo punto, in precedenza gli sforzi europei si sono concentrati sul sostegno ai giornalisti investigativi e alle ONG impegnate in attività di fact-finding. Tale supporto è fornito su base bilaterale o attraverso una coalizione di Paesi con posizioni allineate, come si è visto per iniziative come il Fondo Visegrad. Tuttavia, per quanto queste misure siano state significative, esse non hanno ottenuto gli effetti sperati in quanto i contenuti prodotti (in gran parte disponibili online) raggiungono solo un pubblico limitato. Poiché la televisione tradizionale è ancora una delle più importanti fonti di informazione per i cittadini dei Paesi del Partenariato Orientale, è importante che l’UE si concentri direttamente su questo mezzo, ma creare stazioni televisive pubbliche che siano editorialmente e finanziariamente indipendenti dal governo grazie a un canone di abbonamento è solo il primo passo. Servirebbe anche un sostegno più ampio sotto forma di consulenza, condivisione di esperienza, definizione dei contenuti dei programmi e meccanismi di controllo della qualità.

Il potenziamento dei contenuti televisivi deve poi tener conto della diversità sociale. Il modello di disinformazione televisiva da parte dei russi che ha spadroneggiato in Georgia e in Moldavia consiste in un accanimento verso le minoranze etniche e linguistiche, bolle di informazione che lo Stato, non essendo in grado di fornire servizi di fact-checking nella lingua degli spettatori, ha rinunciato a gestire. Nei Paesi occidentali, le istituzioni radiotelevisive pubbliche hanno la responsabilità di fornire informazioni accurate e accessibili anche ai gruppi etnolinguistici minoritari, cosa che sarebbe necessaria anche nei Paesi del Partenariato Orientale per ragioni strategiche.

Sebbene servizi pubblici imparziali di questo tipo potrebbero disseminare contenuti più veritieri di quanto non facciano le stazioni televisive di proprietà dell’oligarchia o i canali di propaganda stranieri, non sarebbero comunque sufficienti a eliminare le fonti di disinformazione. Tuttavia, il ricorso a modifiche del quadro normativo renderebbe molto più difficile diffondere disinformazione secondo gli attuali modelli di business. In primo luogo, adottare regole sulla trasparenza della proprietà dei media, sull’acquisizione di canali mediatici, sulla pubblicità e sui finanziamenti renderebbe più complicato per le potenze straniere e l’oligarchia acquistare sottobanco tali risorse. In secondo luogo, l’attuazione di norme sull’autosufficienza finanziaria dei media vieterebbe all’oligarchia di finanziare le agenzie di stampa al fine di manipolare il dibattito pubblico. I media sarebbero costretti a vivere delle proprie entrate, attraverso abbonamenti o pubblicità di terzi. È improbabile che gli Stati del Partenariato Orientale adottino tale legislazione autonomamente, poiché la propaganda televisiva è una fonte importante di influenza e legittimità per i partiti al potere. Solo la pressione e la condizionalità dell’UE potrà cambiare la situazione.

In Europa occidentale i politici spesso presumono che le uniche armi per la lotta alla propaganda siano contropropaganda e censura, ma così non è. Lo sforzo per contrastare la disinformazione richiede innanzitutto un’analisi precisa degli avversari in termini di messaggio, contenuti, ragionamenti, emozioni, casse di risonanza, canali di comunicazione, nonché tecniche e strumenti impiegati per aumentarne la diffusione: tutti questi elementi concorrono alla formulazione di una strategia di comunicazione capace di affrontare efficacemente le varie sfide.

In Ucraina diversi Stati membri dell’UE sostengono un gruppo di ONG locali che hanno maturato una notevole esperienza nell’identificare e tenere traccia della disinformazione russa e locale. Tuttavia l’UE non possiede strutture adatte a captare le informazioni generate dai partner locali, adattare la sua strategia di comunicazione di conseguenza e, cosa ancor più importante, aiutare gli attori locali a migliorare le comunicazioni strategiche per proteggere il processo politico dalle interferenze. Anche se in Ucraina ci sono attori locali capaci con cui l’UE può collaborare per la sicurezza dell’informazione, sono poche le realtà simili negli altri Paesi del Vicinato orientale (cosa particolarmente evidente in Georgia e Moldavia). Per questo l’UE deve impegnarsi in programmi di capacity building in tale ambito.

Allo stesso tempo, le operazioni informatiche sono ormai una componente essenziale delle guerre clandestine del XXI secolo. Lo si evince dagli sforzi di destabilizzazione che coinvolgono tutti gli ambiti possibili, dall’uso dei big data per analizzare l’umore e i pregiudizi dei cittadini (per poi sfruttarli attraverso operazioni mirate di informazione) allo spionaggio, alle missioni di sabotaggio che paralizzano interi rami del governo o infrastrutture strategiche. I miglioramenti alla sicurezza e alla resilienza informatica nell’UE e nel suo Vicinato orientale sono necessari per contrastare le azioni sovversive.

L’UE ha lentamente compiuto progressi in tale settore, inserendo la Direttiva del 2015 sulla sicurezza delle reti e dei sistemi informativi e il Regolamento sulla sicurezza informatica del 2019 tra le condizioni che i firmatari di un accordo DCFTA si impegnano ad applicare, anche se l’UE non fornisce poi alcuna assistenza tecnica o di capacity building per supportare i Paesi nell’attuazione di tali misure. Le principali sfide per i Paesi del Partenariato Orientale nel settore informatico riguardano l’archiviazione sicura, l’elaborazione e l’accesso ai dati, la sicurezza e l’integrità delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica, la capacità di prevenire gli attacchi, nonché di creare efficaci squadre di risposta alle emergenze informatiche (CERT), la capacità di difesa informatica, l’igiene informatica a livello di utenti (sia pubblici che privati), il collegamento tra le strutture informatiche nazionali e quelle degli attori internazionali.

Per migliorare le rispettive capacità informatiche nazionali, gli Stati del Partenariato Orientale devono così creare partnership con aziende IT locali, ma sono poche quelle a cui possono rivolgersi, ad eccezione dell’Ucraina, che vanta un notevole settore IT in rapida espansione (mentre in Moldavia nel 2019 sono state adottate misure legislative intese a facilitare la crescita del comparto, ma resta da vedere cosa accadrà con il nuovo governo). In conclusione, i Paesi del Partenariato Orientale dipendono dalle aziende e dai servizi IT di Stati Uniti ed Europa, ma anche Russia e Cina, con tutti i timori che questo può comportare in materia di sicurezza.

Molti dei passi che l’UE deve compiere riguardano la sicurezza informatica interna e la sovranità informatica. L’Unione dovrebbe istituire un quadro giuridico e strutture amministrative atte a certificare software e hardware, istituzioni di coordinamento rapido delle squadre CERT nazionali attraverso una sorta di “super CERT” a livello europeo (attualmente in fase di sviluppo come progetto di Cooperazione strutturata permanente (PESCO)) e organismi investigativi e forensi informatici in tutta Europa. Queste strutture potrebbero eseguire una verifica delle autorità e della legislazione in materia di sicurezza informatica dei Paesi del Partenariato Orientale, definire chiari parametri di riferimento e obiettivi per le riforme organizzative, avviare programmi di capacity building, fornire informazioni critiche su minacce informatiche emergenti e imminenti e infine cooperare con autorità locali certificate, oltre eventualmente a supportare l’implementazione degli standard UE per il lancio delle infrastrutture 5G. Effettuare una valutazione tecnica completa è aldilà delle capacità dei Paesi del Partenariato Orientale: si tratta di catene di fornitura complesse, reti destinate non solo al 5G ma anche, inter alia, a comunicazioni governative, militari e di intelligence. Pertanto sarà indispensabile poter contare su soggetti esterni come le istituzioni UE di ricerca comune sulla cyber security (oggetto di un altro progetto PESCO).

Disporre di strutture efficienti per la sicurezza informatica si rivela importante anche nella lotta contro il riciclaggio di denaro. I collegamenti tra le banche nazionali e le unità di intelligence informatica si sono dimostrati determinanti per portare alla luce i crimini finanziari. Le operazioni di interferenza straniera spesso dipendono dagli stessi canali finanziari opachi e illegali utilizzati per foraggiare denaro destinato ai costi operativi, come pagare le fonti, corrompere gli individui coinvolti, finanziare organizzazioni di facciata (come le ONG e i media) e acquistare strutture di stoccaggio, armi e altri beni per preparare le insurrezioni armate. Le operazioni clandestine raffigurate nella piramide di cui sopra sono affari costosi: chiudere i rubinetti al sostegno finanziario che le supporta sarebbe un modo efficace per combatterle.

Poiché non si tratta di una mera questione di politica estera, l’UE sta lavorando per ridefinire norme e regolamenti per evitare che gli Stati membri diventino porti sicuri per il riciclaggio di denaro e altre operazioni finanziarie illegali. Una volta delineato un quadro giuridico e istituzionale europeo coerente in quest’area (tra cui norme di reporting e meccanismi di supervisione finanziaria, obbligo di condivisione dei dati tra banche e servizi inquirenti e autorità speciali per coordinare le indagini), l’UE potrà esportarlo al suo Vicinato orientale.

In definitiva, le autorità di sicurezza informatica e gli organismi di supervisione finanziaria potranno sventare le operazioni clandestine straniere solo quando le forze dell’ordine locali saranno in grado di arrestare i veri colpevoli, confiscare i loro beni e far chiudere bottega alle organizzazioni illecite di facciata.  In tal senso è preoccupante che gli Stati del Partenariato Orientale siano agli ultimi posti dell’Indice di efficacia del governo della Banca Mondiale: l’Ucraina (-0,46) e la Moldavia (-0,53) sono ben al di sotto della media globale, solo la Georgia (+0,58) ha registrato miglioramenti significativi dal 2005 a oggi, posizionandosi quasi al livello della Grecia (+0,31). Il divario tra questi e altri Paesi europei, come la Germania (+1,72), è evidente.

Tutti gli Stati del Partenariato Orientale soffrono di sovrapposizioni e conflitti tra le competenze dei servizi d’indagine e delle forze dell’ordine, bassi stipendi nel settore pubblico (che aumentano la vulnerabilità delle istituzioni alla corruzione), un quadro procedurale opaco, processi investigativi complicati e burocratici, codici penali zeppi di scappatoie e contraddizioni, poca o nessuna collaborazione istituzionale tra gli organi di polizia, strutture gerarchizzate e centralizzate in cui pochi responsabili di alto livello possono bloccare o sviare le indagini su interi settori dei servizi, nonché un significativo controllo politico sugli organi investigativi. Sono state poche le riforme profonde delle autorità inquirenti e delle forze dell’ordine attuate nel Partenariato Orientale. E, laddove le riforme ci sono state (come nel caso di quanto avvenuto con il ministro degli interni Vano Merabishvili in Georgia o il procuratore generale Ruslan Ryaboshapka in Ucraina), sono state oggetto di intense campagne di ostruzionismo e diffamazione da parte delle élite economiche locali e delle forze politiche consolidate. Senza un’intensa pressione esterna anche le riforme più limitate non avrebbero avuto luogo.

Alla luce del disinteresse dell’amministrazione Trump per le questioni relative allo stato di diritto, l’UE deve dare priorità alla riforma del settore della sicurezza e della giustizia nei Paesi del Partenariato Orientale. L’UE dovrà anche creare strumenti consoni alla fornitura di un sostegno diretto, tra cui:

  • Iniziative come la Missione consultiva dell’Unione Europea in Ucraina (EUAM), che mette a disposizione esperti per valutare le riforme nel dettaglio, commentare e rivedere proposte di legge, verificarne l’attuazione e interagire con le autorità e i gruppi della società civile sul campo. La riforma del settore della sicurezza è una questione altamente tecnica che richiede conoscenze approfondite, oltre a un’esperienza specifica in materia di attuazione, che non ci si può ragionevolmente aspettare sia fornita dai servizi diplomatici.
  • Task force composte da inquirenti, procuratori e giudici che l’UE potrebbe inviare nei Paesi del Partenariato Orientale non solo per svolgere compiti di supervisione, consulenza e assistenza, ma anche per mettere a disposizione risorse inquirenti e giudiziarie imparziali in casi politicamente delicati, che possono avere un effetto particolarmente corrosivo sulla cultura politica e sull’integrità professionale dei sistemi giudiziari dei vari Paesi, non da ultimo quando riguardano ex alti funzionari o potenti esponenti dell’oligarchia.

In un ambiente problematico come il Vicinato orientale, intelligence e sicurezza sono settori fondamentali. Senza un’intelligence affidabile ed efficace gli Stati del Partenariato Orientale non hanno alcuna chance di resistere ai tentativi di destabilizzazione della Russia. Monitorando costantemente le possibili minacce i servizi di intelligence ricoprono un ruolo centrale sia nell’orientare le decisioni di intervento per rispondere a operazioni ostili che mettendo a disposizione di forze dell’ordine e servizi di sicurezza finanziaria informazioni utili a indagare e perseguire individui e reti criminose. Il problema in questo caso risiede nel fatto che i servizi di intelligence interni dei Paesi del Partenariato Orientale sono inaffidabili perché fanno parte del sistema politico (e sono quindi esposti alla corruzione e ad abusi finalizzati a ottenere vantaggi politici ed economici) oppure hanno capacità limitate.

Pertanto, l’UE deve sostenere con urgenza le riforme in questi settori e offrire, in cambio di un profondo rinnovamento dei servizi di intelligence e sicurezza, programmi di capacity building, coordinamento strutturale per la prevenzione di minacce, supporto tecnico (in particolare in materia di segnalazioni transfrontaliere) e intelligence militare. Tale riforma comporterebbe una maggiore accountability democratica, una riduzione delle sovrapposizioni riguardo a competenze e procedure delle forze dell’ordine e l’adozione di misure volte a ridurre la corruzione. In Ucraina l’EUAM si è dimostrata estremamente utile per individuare le reali esigenze dei servizi locali, così come per esaminare i progressi (e, purtroppo, il regresso) della riforma dell’intelligence. Basandosi sull’esperienza dell’EUAM, l’UE potrebbe nominare uffici di collegamento per l’intelligence a Tbilisi e Chisinau e dovrebbe inoltre creare una cellula di supporto e coordinamento dell’intelligence del Vicinato orientale a Bruxelles, sia per coordinare l’assistenza (come già fa il gruppo di supporto) che per facilitare gli scambi di informazioni di intelligence. L’UE potrebbe poi estendere l’iniziativa della Joint EU Intelligence School, neonato progetto della PESCO, oltre la limitata cooperazione esistente con gli Stati del Mediterraneo orientale, così da coprire anche i Paesi dell’Europa orientale in cui esistono interessi europei strategici. Sarebbe un’ottima opportunità per la formazione del personale di intelligence dei Paesi del Partenariato Orientale e dei Balcani occidentali.

Inoltre l’UE dovrà aumentare drasticamente le proprie capacità di intelligence nel Vicinato orientale. I servizi di intelligence degli Stati membri dell’UE dovrebbero, ove necessario, compensare le lacune dei servizi interni dei Paesi del Partenariato Orientale e in particolare del controspionaggio, magari attraverso la scrematura preventiva di individui candidati a ricoprire cariche importanti. Questo permetterebbe di individuare per tempo possibili operazioni ostili e le relative organizzazioni di copertura e anticipare possibili tentativi di prese di potere da parte di figure influenti.

Questo è particolarmente importante in situazioni di cambiamenti rivoluzionari da cui emergono nuove configurazioni amministrative e altre strutture di potere, una possibilità tuttora realistica in tutti i Paesi del Partenariato Orientale. Tali contesti offrono alla Russia l’opportunità di utilizzare le sue organizzazioni di copertura per collocare elementi compiacenti nei nuovi organi e soffocare gli sforzi di riforma. In questi scenari l’UE si è dimostrata troppo reattiva, cosa che ha inibito la sua capacità di monitorare efficacemente gli sviluppi della situazione e le persone alla guida del cambiamento. Naturalmente, in un ambiente così turbolento esiste sempre la possibilità di errori di calcolo, ma la mancanza di informazioni di intelligence preclude a priori un eventuale successo, cosa a cui l’Unione ha ovviato in passato affidandosi all’intelligence americana.

Se Mosca ricorre alle operazioni clandestine come strumento d’elezione per destabilizzare i governi ed espandere la sua influenza, riesce ad agire anche in maniera più palese. Come raffigurato nella piramide qui sopra, la Russia minaccia apertamente l’integrità territoriale e la sovranità di un Paese per intimidire i governi e, anche senza arrivare a un’invasione vera e propria, organizza talvolta dimostrazioni della sua potenza militare nei pressi del confine a scopo deterrente (la cd. escalation dominance), riuscendo così a influenzarne le decisioni. Ad esempio, nel marzo e aprile 2014, la Russia ha schierato tre formazioni operative al confine con l’Ucraina. Temendo una vera e propria invasione, l’Ucraina ha dispiegato le pochissime forze militari pronte al combattimento che aveva a disposizione in posizioni difensive vicino a Kiev e sulla riva occidentale del Dnepr, astenendosi da una risposta militare di fronte alla requisizione di edifici governativi da parte dei servizi speciali russi e alla creazione di strutture separatiste nel Donbass orientale.

Secondo alcuni diplomatici europei, trasformare i Paesi del Partenariato Orientale in Stati non allineati o neutrali aiuterebbe a stabilizzare la regione. Tuttavia, ciò non accadrebbe automaticamente e Mosca difficilmente rispetterebbe un non allineamento, che sarebbe un’opzione praticabile solo se i Paesi del Partenariato Orientale rafforzassero la loro capacità di difendersi da tentativi esterni di sovversione.

Esiste la necessità urgente di diminuire la vulnerabilità dei Paesi del Partenariato Orientale alle minacce militari per procura come nel caso della Moldavia e delle truppe russe presenti in Georgia e Ucraina. Naturalmente è difficile immaginare una situazione in cui gli Stati del Partenariato Orientale siano immuni da attacchi militari sferrati da una grande potenza regionale dotata di armi nucleari come la Russia. Il loro obiettivo non deve essere l’immunità totale. Come molti Stati non allineati durante la Guerra Fredda, dovrebbero affidarsi a una preparazione militare che scoraggi qualsiasi aggressione, convincendo le potenze nemiche che un attacco avrebbe un costo troppo alto. L’Ucraina ha mostrato la fondatezza di questo approccio già nel 2015 e 2016: se la Russia ha teoricamente mantenuto la sua escalation dominance sull’Ucraina (una questione assurta a feticcio tra gli oppositori di una maggiore assistenza militare a Kiev), resta il fatto che una ulteriore escalation avrebbe richiesto al Cremlino uno sforzo molto più ingente, che sarebbe stato difficile da giustificare di fronte all’opinione pubblica interna. Tuttavia, il caso ucraino ha anche dimostrato che aumentare l’efficacia delle forze armate di un Paese non si limita alla fornitura di armi ed equipaggiamenti, ma richiede un impegno globale a lungo termine volto a sostenere sia il settore militare che quello industriale della difesa.

Negli anni ‘90 e 2000 le forze armate di Georgia, Moldavia e Ucraina erano impreparate, mal equipaggiate e scarsamente addestrate e adottavano ancora una catena di comando, tecniche e procedure di combattimento basate su dottrine e principi sovietici, rendendo più facile all’esercito russo anticiparne le mosse. Inoltre, le apparecchiature di comando e controllo erano le stesse dai tempi dell’esercito sovietico, così che la Russia non aveva difficoltà a intercettare le comunicazioni, come accaduto nelle fasi iniziali della guerra in Ucraina e con le seconde linee in Georgia. Per i militari russi erano insomma un libro aperto. Questa vulnerabilità persiste riguardo a molte strumentazioni specifiche, tra cui i sistemi di difesa aerea e di sorveglianza costiera, i radar di sorveglianza dello spazio aereo e i sensori di avvistamento dell’artiglieria.

La Georgia ha cercato di formare le sue truppe all’arte della guerra all’occidentale partecipando al maggior numero possibile di missioni militari occidentali (comprese quelle in Iraq, Afghanistan e Kosovo) e impegnandosi a conquistare l’appoggio statunitense in tal senso. Le missioni internazionali e le guerre anti-insurrezione sono però molto diverse dalle operazioni difensive ad armi combinate che l’esercito della Georgia avrebbe dovuto combattere contro la Russia, tanto che, in ultima analisi, tale esperienza si è rivelata poco utile quando nel 2008 è scoppiata la guerra.

Il problema è evidente anche nelle esercitazioni e nelle missioni di addestramento a guida UE che coinvolgono i Paesi del Partenariato Orientale, che di solito si concentrano su questioni di sicurezza “soft” come l’antiterrorismo, la sicurezza marittima o il soccorso in caso di calamità e le operazioni umanitarie. Non sono queste le aree a cui gli Stati del Partenariato Orientale sono più interessati.

Nel 2015 gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Canada hanno avviato un’iniziativa bilaterale a Leopoli per addestrare i comandanti dei battaglioni e delle compagnie ucraine alle tecniche di combattimento e di leadership occidentali (a cui si sono poi uniti anche la Polonia e i Paesi Baltici). Questa missione può essere considerata un successo, in quanto è riuscita tanto a migliorare la comprensione delle tattiche russe di combattimento da parte degli ufficiali della NATO che a dare solidità alla campagna dell’Ucraina nel Donbass.

Tale esperienza potrebbe servire da modello per iniziative di più ampio respiro da parte dell’UE volte a professionalizzare le forze armate dei Paesi del Partenariato Orientale. Per cominciare, l’UE potrebbe permettere a un certo numero di giovani ufficiali di questi Stati di partecipare al programma Erasmus militare ed eventualmente finanziare una ulteriore formazione nelle tante accademie militari europee. Dovrebbe poi inviare esperti in loco per perfezionare i programmi di formazione militare esistenti in ambito nazionale e modernizzare e occidentalizzare quelli destinati agli ufficiali di ogni tipo. Sarebbe inoltre auspicabile completare lo sforzo con esercitazioni di comando e giochi di guerra, così come manovre comuni per tutte le forze armate, allo scopo di prepararsi a varie contingenze nella regione (come già fanno spesso le forze americane in Europa con l’Ucraina).

L’assistenza nella pianificazione della difesa a tutto tondo è particolarmente necessaria nel caso di Georgia e Moldavia. Dato che la Moldavia non confina direttamente con la Russia e le forze separatiste in Transnistria rappresentano una minaccia diversa dalle unità militari convenzionali russe, l’esercito moldavo ha bisogno di sviluppare un comando mobile ad alta reattività che si coordini bene con la polizia per contrastare rapidamente le minacce ibride.

La Georgia, al contrario, è particolarmente vulnerabile a causa della sua posizione geografica, con un numero significativo di forze militari russe schierate sul suo territorio e oltre il confine. La politica di difesa della Georgia ha attraversato una serie caotica di cambiamenti e ristrutturazioni e il suo concetto olistico di difesa territoriale (paragonabile a quello di Svezia, Finlandia e Paesi Baltici) è ancora nelle prime fasi di attuazione. Poiché l’esercito sovietico non si è mai organizzato secondo un concetto di difesa territoriale, i Paesi del Partenariato Orientale non hanno alcun precedente a cui riferirsi.

Allo stesso modo, le operazioni internazionali come la missione NATO in Afghanistan hanno poco a che vedere e non aiutano ad affrontare specificatamente la difesa territoriale. Lo scarso addestramento e la consulenza che i Paesi del Partenariato Orientale ricevono dall’UE (come previsto dagli accordi di associazione) sono studiati per facilitare la partecipazione di questi Stati alle missioni o ai gruppi di combattimento a guida europea. Questo può facilitare il reclutamento da parte dell’UE per le sue missioni, ma difficilmente renderà più semplice ai Paesi del Partenariato Orientale acquisire le conoscenze e l’esperienza di cui hanno bisogno. Mentre, ad esempio, il gruppo tattico di Visegrad recluta regolarmente soldati ucraini e georgiani, non è chiaro se in ambito europeo esista la possibilità di analoghe applicazioni pratiche.

Nel loro approccio alla riforma della difesa nei Paesi del Partenariato Orientale, l’UE e la NATO dovrebbero concentrarsi principalmente sulla difesa territoriale piuttosto che sulla preparazione alle missioni internazionali. La brigata lituano-polacca-ucraina può essere un utile modello di addestramento congiunto per l’UE e il Partenariato Orientale per affrontare la guerra in tutte le sue declinazioni. Anche se il partenariato è agevolato dalla geografia, gli Stati membri dell’Unione più distanti potrebbero comunque rafforzare i legami con i Paesi del Partenariato Orientale attraverso scambi di ufficiali, esercitazioni comuni o sforzi per condividere le strutture di addestramento.

Infine, si pone la questione della modernizzazione tecnica e tecnologica delle forze armate dei Paesi del Partenariato Orientale. Si tratta di uno sforzo a lungo termine che richiede notevoli investimenti nelle forniture militari, così come nell’industria della difesa. A causa degli alti costi della tecnologia di difesa occidentale, alcuni eserciti post-comunisti della NATO in Europa centrale continuano a utilizzare attrezzature risalenti alla Guerra Fredda e le considerazioni finanziarie sono un ostacolo ancora più significativo. Pertanto, l’Europa dovrebbe creare un programma di assistenza militare per l’estero simile a quello degli Stati Uniti, in base al quale i Paesi del Partenariato Orientale potrebbero richiedere prestiti a basso costo per l’acquisto di apparecchiature di difesa europee, in collaborazione con i vertici della difesa europea. L’UE potrebbe sostenere questo sforzo attraverso un fondo di sostegno alla difesa di Vicinato.

Molti Paesi europei nutrono varie riserve sulla fornitura di sistemi di armi avanzate al Partenariato Orientale, a causa delle preoccupazioni legate alla corruzione e a possibili coinvolgimenti dei servizi di intelligence russi. Questo è particolarmente vero per i sistemi di difesa aerea, guerra elettronica, comando, monitoraggio, comunicazioni, informatica, intelligence, sorveglianza e ricognizione e guida delle armi. Se da un lato i Paesi del Partenariato Orientale vorrebbero partecipare ai programmi di cooperazione industriale per la difesa in Europa, dall’altro molti Stati membri sono contrari, in quanto metterebbero in diretta concorrenza le imprese ucraine con quelle europee come EADS e MBDA. Secondo questa visione, la cooperazione europea in materia di industria della difesa sarebbe soggetta a considerazioni protezionistiche.

L’UE potrebbe affrontare questi problemi lanciando uno speciale programma di cooperazione sull’industria della difesa nel Vicinato orientale. L’obiettivo dell’iniziativa sarebbe produrre sistemi che integrino le conoscenze e i prodotti di difesa ucraini con componenti europee, che sarebbero sufficientemente occidentali da resistere alle contromisure russe, ma non così tanto da costituire una minaccia per l’integrità del sistema se fossero requisiti o compromessi dai servizi intelligence del Cremlino.

Inserire i Paesi del Partenariato Orientale nella supply chain diminuirebbe il prezzo di questi prodotti, rendendoli adatti anche ai programmi di aiuto militare estero in Medio Oriente e in Africa.

Inoltre non va dimenticato che l’UE deve fare i conti anche con sfide legate alla sicurezza energetica dei Paesi del Partenariato Orientale. In un mondo ideale, il transito energetico permetterebbe una cooperazione costruttiva tra la Russia, l’Occidente e gli Stati del Partenariato Orientale in cui la Russia dipenderebbe da strutture economiche sicure per le esportazioni verso l’Europa, l’Europa soddisferebbe il fabbisogno di fonti affidabili di energia (sia petrolio che gas) e gli Stati del Partenariato Orientale beneficerebbero economicamente dei diritti di transito. Tuttavia, a causa delle crisi relative al transito del gas attraverso l’Ucraina scoppiate nel 2006 e nel 2009, così come dei timori che la forte dipendenza di alcuni Stati membri da gas, petrolio ed elettricità russi li renda vulnerabili al ricatto, l’UE ha iniziato ad attuare una politica energetica comune che, in generale, ambisce a creare un mercato interno dell’energia trasparente, interconnesso e competitivo che riesca a spezzare il monopolio di alcune compagnie energetiche e diversifichi l’offerta. Il quadro giuridico di questa politica energetica ha ramificazioni in politica estera, poiché gli Stati limitrofi hanno la possibilità di unirsi alla comunità energetica dell’UE adattando i rispettivi mercati energetici alle regole e alla struttura di governance europee. L’accesso all’ampio mercato dell’UE dovrebbe diminuire il costo dell’energia per i Paesi del Partenariato Orientale (alcuni dei quali pagano attualmente prezzi molto alti per il gas naturale rispetto al resto dell’Europa) e rafforzare significativamente la loro posizione nei negoziati in materia di acquisti di energia.

In questo ambito sono stati compiuti alcuni progressi: la Georgia è ora molto meglio collegata con i Paesi vicini e ha diversificato le sue forniture, l’Ucraina ha intrapreso dolorose riforme del mercato interno dell’energia e della regolamentazione sui prezzi, mettendo fine ai monopoli ed eliminando pratiche di corruzione che si sono rivelate penalizzanti politicamente. Riguardo alla Moldavia, i tentativi di allacciarsi al mercato rumeno del gas sono stati interrotti quando è salito al potere, nel novembre 2019, un governo filorusso.

Tuttavia, nei prossimi anni la questione più rilevante consisterà nel capire se i Paesi del Partenariato Orientale avranno ancora un ruolo nel transporto energetico o se invece la Russia sarà in grado di aggirare l’intera regione completando le reti di gasdotti TurkStream e Nord Stream 2. I Paesi del Partenariato Orientale temono che, qualora Mosca non avesse più bisogno di altri stati post-sovietici (in particolare Bielorussia e Ucraina) per il transito energetico, verrebbe a mancare un importante freno ai tentativi di intimidazione e aggressione, fino al ricorso alla forza militare. L’anno scorso la Russia e l’Ucraina hanno evitato solo sul filo di lana uno scontro sul ruolo di quest’ultima nel transito del gas, raggiungendo un accordo che si estende fino al 2024 e stabilisce un livello minimo annuale per mantenere attive le infrastrutture energetiche in Ucraina.

Se l’UE ha assunto il ruolo di mediatore nei negoziati, l’accordo è stato raggiunto grazie principalmente all’intervento degli Stati Uniti. Lo spauracchio delle sanzioni americane riguardo ai nuovi gasdotti russi (che interessano principalmente il Nord Stream 2, ma possono anche complicare la gestione del TurkStream) ha fatto fare alla Russia un passo indietro rinunciando ad aggirare completamente l’Europa orientale. Dato il crescente consenso sulla necessità di tali sanzioni a Washington e considerato che la Germania ha ottenuto scarso sostegno in seno all’UE riguardo al Nord Stream 2, il presidente russo Vladimir Putin ha dovuto tenere conto di eventuali sviluppi futuri e ha così deciso di mantenere aperta la porta a un ruolo, seppure limitato, per l’Ucraina. In tal modo Mosca ha rimandato la sua decisione sulla questione e, probabilmente, la diatriba continuerà per qualche tempo.

Come migliorare il processo decisionale e aumentare l’unità dell’UE riguardo al Partenariato Orientale

Sebben sia improbabile che l’UE diventi un attore geopolitico unitario nei prossimi anni, molto si può comunque ottenere sviluppando nuovi quadri normativi in settori come il riciclaggio di denaro, la sicurezza informatica, i media e le esportazioni della difesa. Aderendo al principio del “more for more”, l’UE può condizionare l’assistenza ai Paesi del Partenariato Orientale, così come l’accesso ai suoi programmi, all’adozione di tali regolamenti.

La recente battuta d’arresto dei finanziamenti per i progetti relativi alla PESCO e al Fondo europeo per la difesa nel nuovo quadro finanziario dell’UE mette però in dubbio il futuro di questi settori. L’Europa sembra diventata più introversa, divisa e modesta nelle sue ambizioni e ha quasi abbandonato la politica estera a seguito della crisi dei rifugiati del 2015 e della pandemia da coronavirus. Tuttavia, non si tratta (per ora) di una tendenza irreversibile.

Una delle questioni più spinose riguarda le strutture comuni. Gli Stati membri mantengono il controllo della capacità collettiva europea in termini di intelligence, polizia e attività giudiziaria. Questo è particolarmente evidente per l’intelligence, un ambito in cui il coordinamento è sporadico e manca una base istituzionale coerente. Dato il grande divario di capacità e competenze tra i servizi di intelligence degli Stati membri e il fatto che alcuni di essi sono stati probabilmente infiltrati dalle controparti russe, una cooperazione strutturata tra questi servizi richiederebbe una pianificazione molto attenta e dettagliata. Il Consiglio Europeo dovrebbe istituire una nuova agenzia centralizzata per l’intelligence che agirebbe sotto il Servizio per l’azione esterna, oppure alcuni Stati membri capaci e affidabili dovrebbero creare una più ampia cellula di intelligence per il Partenariato Orientale nell’ambito di una coalizione di volenterosi in ambito PESCO.

Tale organizzazione coordinerebbe non solo gli sforzi di intelligence, ma anche i programmi bilaterali di assistenza militare e di polizia degli Stati membri. Un “Patto europeo per la sicurezza” (che potrebbe essere avviato nell’ambito della PESCO oppure, come il Gruppo di sostegno per l’Ucraina, che dipenda direttamente dalla Commissione Europea) potrebbe coordinare il sostegno ai progetti di riforma della difesa e dell’intelligence fornendo accesso ai relativi fondi UE, faciliterebbe i rapporti con gli Stati del Partenariato Orientale per fornire l’assistenza di cui hanno bisogno e valuterebbe i progressi compiuti. L’iniziativa potrebbe inoltre estendersi anche alla pianificazione congiunta, alle esercitazioni di comando e alle simulazioni di guerra (che riguarderebbero meccanismi di risposta alle crisi in senso lato) per testare, valutare e perfezionare principi e strutture operative. Sarebbe anche consigliabile ipotizzare di replicare l’EUAM, uno strumento che si è già dimostrato utile, a Tbilisi e Chisinau. Tutto questo sarebbe fattibile all’interno dell’attuale quadro giuridico e di bilancio dell’UE, ma richiederebbe indubbiamente una adeguata volontà politica.

L’UE sembra aver maturato la convinzione che se vuole essere presa sul serio dalla Cina, dovrà assumere una posizione di forza nelle relazioni economiche, una lezione che però non ha ancora saputo applicare alla Russia né in casa che nel Vicinato orientale, sebbene la logica di base sia la stessa. Se i diplomatici e altri funzionari europei possono semplicemente liquidare la possibilità che l’UE diventi più proattiva in materia di sicurezza, il resto del mondo difficilmente perdonerà tali scelte politiche e eventuali lacune organizzative. Anche se l’identità e il funzionamento dell’Unione non hanno mai riguardato la dimensione militare, la questione è diventata ormai prioritaria per garantire la sovranità strategica europea. Un attore che sia strategicamente sovrano deve necessariamente tenere conto di tutte le declinazioni del potere di stato, anche quelle con cui sente meno a suo agio.

Pertanto, in termini di coesione l’UE ha ancora molto spazio di miglioramento. Il dibattito geopolitico interno è messo in ombra dalle lotte nord-sud ed est-ovest sulle priorità e sulle risorse. Finora è stato più facile per gli Stati membri bloccare o indebolire proposte potenzialmente vantaggiose per gli altri, piuttosto che ottenere sostegno per progetti propri. Questo sistema di reciproca censura non aiuta gli interessi europei nei Paesi del Partenariato Orientale (né nel Mediterraneo) e fa sì che gli Stati membri più grandi continuino a lamentarsi del mancato sostegno ai loro progetti da parte dei più piccoli, che dal canto loro guardano a queste iniziative, talvolta unilaterali, con crescente sospetto.

Questa dinamica è apparsa evidente in due occasioni recenti: la spinta del presidente francese Emmanuel Macron per un nuovo sistema di sicurezza europeo e la proposta della Germania di completare il Nord Stream 2. In entrambi i casi, l’establishment politico interno ha insistito sulla rilevanza dell’iniziativa per dell’Europa nel suo complesso, ma ben pochi Stati membri condividono questa visione. Poiché Macron deve ancora definire in concreto i termini, le condizioni, le linee di demarcazione e l’obbiettivo ultimo della proposta di sicurezza, essa è stata accolta con circospezione sia dagli Stati membri orientali che scandinavi e per ora non ha portato ad alcuno sviluppo tangibile che richiederebbe una chiara presa di posizione, ma la situazione potrebbe cambiare. Se così fosse, si guarderà probabilmente a Washington per promuovere una soluzione più tradizionale sulla questione della sicurezza dell’Europa.

Nel frattempo, anche Paesi apparentemente filorussi come l’Italia e la Bulgaria si oppongono al Nord Stream 2. Anche se la Germania potrebbe mettere insieme una piccola minoranza per contrastare i tentativi di ostruzionismo, le preoccupazioni per la sicurezza hanno portato alcuni Stati membri ad affidare alle sanzioni statunitensi il compito di fare pressione contro il completamento dell’oleodotto.

Essendo grandi sostenitori della sovranità strategica europea, Francia e Germania devono conciliare le loro ambizioni con gli interessi di sicurezza degli altri Stati membri. Gli sforzi per proteggere dalle sanzioni statunitensi gli accordi franco-iraniani e gli oleodotti cari a Berlino non sono una buona base per il tipo di sovranità strategica che gioverebbe all’Europa (come non lo è il desiderio di trasferire la produzione di forniture mediche dalla Cina all’Europa). Per diventare realtà e fare la differenza, la sovranità strategica europea deve essere multidirezionale, il che significa che dovrà considerare anche i Paesi del Partenariato Orientale.

Non è un compito facile trasformare lo stallo in sostegno reciproco sulle questioni strategiche. Tuttavia gli Stati membri possono compiere un primo passo per raggiungere questo obiettivo riconoscendo che:

  • Alcuni di essi possiedono una particolare esperienza e competenza nel trattare con vari partner dell’UE. Gli Stati dell’Europa orientale e i Paesi membri scandinavi dovrebbero fidarsi di Francia, Italia e Spagna per le questioni che riguardano il Mediterraneo, l’Iran o il processo di pace in Medio Oriente. Francia, Italia e Spagna dovrebbero, a loro volta, prestare attenzione ai Paesi dell’Europa orientale e ai Paesi scandinavi quando si tratta di anticipare le mosse e valutare gli interessi dei russi, oppure di trattare con gli stessi Paesi del Partenariato Orientale.
  • Gli Stati membri dell’UE dovrebbero consultarsi in anticipo a Bruxelles sulle mosse da pianificare e sulle politiche che riguardano la sovranità strategica, per risparmiarsi spiacevoli sorprese.
  • Gli Stati membri hanno bisogno di espandere l’area di influenza dell’UE in aree chiave, come hanno sempre fatto nel corso della storia dell’Unione. La Francia e altri Paesi mediterranei dovrebbero accettare di aumentare le risorse e le operazioni dell’UE nei Paesi del Partenariato Orientale, mentre in cambio gli Stati membri scandinavi e dell’Europa orientale dovrebbero contribuire maggiormente alle missioni francesi in Africa, alle operazioni di sicurezza marittima nel Mediterraneo e ad altre iniziative. La Francia dovrebbe sostenere i Paesi scandinavi nella resistenza al revanscismo russo, i quali a loro volta dovrebbero appoggiare Parigi nella resistenza contro il revanscismo turco. Tutto ciò dovrebbe essere inquadrato come difesa dello status quo giuridico della sicurezza europea.
  • Il ruolo della Commissione Europea andrebbe rafforzato onde evitare prolungate dispute bilaterali tra gli Stati membri. Per esempio, se la Germania avesse permesso alla Commissione Europea di assumersi la responsabilità di negoziare e lanciare nuovi progetti di oleodotti, gli altri Stati membri sarebbero ora forse più disposti a sostenere tali iniziative contro le resistenze esterne.

In teoria, i meriti di queste raccomandazioni dovrebbero essere evidenti ai leader europei che desiderano creare una politica estera europea coesa. Gli Stati membri possono aver vissuto a lungo in un’atmosfera permissiva riguardo alle azioni unilaterali all’interno dell’UE, ma il mondo sta cambiando velocemente. L’Unione si trova in un ambiente geopolitico sempre più ostile, un ambiente in cui le politiche di sicurezza non conflittuali che l’Europa continua a favorire hanno ormai perso gran parte della loro efficacia. Le altre potenze sono relativamente poco interessate alla sicurezza, alla diplomazia o agli interessi politici europei, come dimostra l’ultimo decennio che ha visto la crescente assertività di Russia, Cina, Iran e Turchia nei confronti dell’UE.

Se l’Europa mira alla sovranità strategica e a far sentire la sua voce sulla scena mondiale dovrà anch’essa assumere una posizione più assertiva, ma questo richiederà un rafforzamento delle alleanze e dei partenariati per la sicurezza con i Paesi vicini e meno riluttanza a esigere che altre potenze cambino il loro comportamento.

Nota sull’autore

Gustav Gressel è Senior Policy Fellow del Programma Wider Europe dello European Council on Foreign Relations (ECFR) che ha sede a Berlino. Prima di entrare a far parte di ECFR ha ricoperto il ruolo di funzionario per le politiche e le strategie per la sicurezza internazionale presso l’Ufficio per la politica di sicurezza del Ministero della Difesa austriaco ed è stato Research fellow per il Commissario per gli studi strategici nel Ministero della Difesa austriaco. Inoltre ha lavorato come ricercatore presso l’Istituto Internazionale di Politica Liberale di Vienna. Prima di iniziare la carriera accademica, ha prestato servizio nelle Forze armate austriache per cinque anni.

Gressel ha conseguito un dottorato in studi strategici presso la facoltà di scienze militari dell’Università nazionale del servizio pubblico di Budapest e un master in scienze politiche all’Università di Salisburgo. È autore di numerose pubblicazioni sulla politica di sicurezza e gli affari strategici e collabora spesso con i media tedeschi e internazionali come commentatore per questioni di politica internazionale.

ECFR non assume posizioni collettive. Le pubblicazioni di ECFR rappresentano il punto di vista degli autori.