La Turchia alla ricerca di un equilibrio in Medio Oriente

epa06747874 Turkish President Recep Tayyip Erdogan poses with other participants for a family photo session at the extraordinary summit of the Organisation of Islamic Cooperation (OIC) in Istanbul, Turkey, 18 May 2018. The Organisation of Islamic Cooperation (OIC) held in Istanbul to show solidarity with Palestinian people after deadly clashes held the demostrations against the opening of US Embassy in Jarusalem on 14 May. EPA-EFE/ERDEM SAHIN
President Erdogan at a summit of the Organisation of Islamic Cooperation (OIC) in Istanbul in 2018
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In breve

  • La Turchia ha trascorso gran parte dell’ultimo decennio cercando di espandere la propria influenza e di ricostruire il Medio Oriente a propria immagine e somiglianza.
  • Ciò ha creato una linea di conflitto tra Ankara e i suoi rivali che si estendeva dalla Libia alla Siria e al Mediterraneo orientale.
  • Tuttavia, a partire dalla metà del 2021, la Turchia ha avviato un tentativo di normalizzazione delle sue relazioni con i Paesi del Medio Oriente.
  • Questo cambiamento è stato determinato dal fronte politico interno, dall’emergere di un Medio Oriente multipolare e dall’intensificarsi della competizione geopolitica.
  • Il Presidente Recep Tayyip Erdogan rimane politicamente vulnerabile in patria, dove l’economia è in costante deterioramento e l’opposizione è in testa nei sondaggi.
  • La sopravvivenza del suo governo dipende ora dal successo degli sforzi per trovare un equilibrio tra le grandi potenze e attingere ai finanziamenti degli ex rivali del Golfo.
  • L’UE deve adattarsi a questa nuova Turchia sostenendo il processo di normalizzazione regionale, gestendo la questione curda e accettando che Ankara possa entrare a far parte di una comunità europea allargata, pur mantenendo la propria autonomia strategica.

Introduzione

A fine marzo, un procuratore di Istanbul impegnato nelle indagini sull’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi ha scritto al Ministero della Giustizia turco per chiedere il trasferimento del caso in Arabia Saudita. Il tentativo di insabbiare l’inchiesta ha permesso al governo turco di iniziare a ricucire le relazioni con Riyadh. Il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha visitato la capitale saudita, dove è stato fotografato in un abbraccio ben coreografato con il principe ereditario Mohammed bin Salman, e qualche mese dopo Mohammed bin Salman si è recato ad Ankara.

L’improvvisa cordialità tra le parti ha colto molti di sorpresa. Dopo il brutale assassinio di Khashoggi nel Consolato saudita di Istanbul nel 2018, il governo turco ha promosso una campagna internazionale per denunciare il ruolo dello Stato saudita nell’omicidio. La Turchia ha condiviso con i suoi alleati una registrazione vocale della scena del crimine, mentre lo stesso Erdogan ha scritto un articolo per il Washington Post – la testata con cui collaborava Khashoggi – in cui incolpava il regime saudita dell’omicidio.

Questa assertività è tipica della politica estera che la Turchia ha perseguito per gran parte del decennio passato, nel tentativo di creare un Medio Oriente a propria immagine e somiglianza. Ankara ha sostenuto le ramificazioni dei Fratelli Musulmani in tutta la regione, ha appoggiato le rivolte arabe, ha condannato pubblicamente le politiche interne degli Stati del Golfo e ha ampliato le sue attività militari in Siria e in Iraq. Nel Mediterraneo orientale, la diplomazia delle cannoniere ha visto la Turchia contrapporsi a un blocco composto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Israele.

Tuttavia, il Paese sembra ora aver cambiato rotta. Le recenti aperture di Ankara verso Riad rientrano in uno sforzo più ampio volto a migliorare le relazioni con gli ex rivali in Medio Oriente. Erdogan intende adattare queste relazioni alla nuova realtà sia nella regione sia, cosa per lui ancora più importante, nella politica turca e ammette che “occorre avviare un nuovo processo con i Paesi della regione con cui condividiamo la stessa fede e le stesse idee. Un processo che non intende aumentare i nemici, ma piuttosto conquistare gli amici.”

Come sostengono Julien Barnes-Dacey e Hugh Lovatt di ECFR, gli Stati del Medio Oriente sono sempre più determinati a ridurre la loro dipendenza dall’Occidente e a diventare più autosufficienti. In una regione caratterizzata da un crescente multipolarismo, la Turchia non può ambire a un ruolo di rilievo facendo affidamento su un solo alleato, il Qatar, né vuole essere un satellite dell’Occidente. Inoltre, la trasformazione della Turchia in uno Stato responsabile della propria sicurezza nazionale, voluta da Erdogan, priva con molta probabilità il Paese della possibilità di rappresentare un modello di democrazia islamista da esportare verso le monarchie del Golfo. L’obiettivo principale di Ankara in Medio Oriente è ora quello di impegnarsi in un’azione di bilanciamento geopolitico che rafforzi l’economia turca e tuteli il più possibile i suoi interessi di sicurezza.

Questo perché, in vista delle elezioni politiche del 2023, Erdogan è concentrato soprattutto sull’esigenza di proteggere il regime. Dopo due decenni al potere, si trova di fronte alla concreta prospettiva di una sconfitta elettorale e ha urgente bisogno di rilanciare a qualsiasi costo l’anemica economia turca, una causa che può certamente beneficiare dalla ripresa delle relazioni transazionali con le monarchie del Golfo. Ad esempio, la Turchia potrebbe ricorrere ai finanziamenti dagli Stati del Golfo per evitare una crisi a breve termine della bilancia dei pagamenti o un’altra svalutazione della moneta. Inoltre, rispetto al passato, oggi potrebbe essere più semplice per la Turchia andare d’accordo con le altre potenze mediorientali perché i punti di contatto sono sempre più numerosi.

Se l’Unione Europea e i suoi Stati membri vogliono migliorare le relazioni con il Paese, cogliere le emergenti opportunità di cooperazione su varie questioni politiche e prepararsi a un potenziale cambio ai vertici del potere ad Ankara, dovranno prendere atto del ritrovato pragmatismo della Turchia in Medio Oriente senza ignorare il senso di vulnerabilità che lo sottende. Questo policy brief valuta le diverse forme che il nuovo approccio di Erdogan sta assumendo nella regione, le sue motivazioni e le implicazioni per la politica europea, individuando potenziali aree di cooperazione e di conflitto. L’analisi si sofferma sugli imperativi interni che spingono Erdogan in questa direzione, tra cui il malcontento dell’opinione pubblica nei confronti dell’economia e della politica turca sui rifugiati, e argomenta come l’attuale governo turco o la sua opposizione, sempre più unita, potrebbero affrontare le sfide interne e regionali in vista delle elezioni del 2023, proponendo diversi spunti su come i responsabili politici europei potranno mantenere una relazione stabile con Ankara.

Una de-escalation su molti fronti

All’inizio del 2021 la Turchia si trovava isolata in Medio Oriente, doveva fare i conti con la minaccia di sanzioni da parte dell’UE e stava vivendo un forte declino economico. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) al governo si affannava a lanciare accuse contro le potenze esterne colpevoli di presunti attacchi alla Turchia, ma questo non ha impedito alla difficile situazione economica del Paese di erodere l’egemonia del partito che da lungo tempo domina la scena politica turca.

Nel corso dell’anno Ankara ha contattato con il massimo riserbo Israele, Egitto, Emirati Arabi Uniti e, infine, l’Arabia Saudita tentando, attraverso i canali diplomatici e di intelligence, di appianare per quanto possibile le controversie di lunga data. La rapidità di tale iniziativa ha sorpreso molti politici europei.

Su sollecitazione dell’allora Cancelliera tedesca Angela Merkel, la Turchia ha ritirato le sue navi da esplorazione energetica e navale dal Mediterraneo orientale, scongiurando così le paventate sanzioni dell’UE. Ankara ha poi avviato colloqui diretti con la Grecia ed elaborato una road map per la de-escalation con la Francia. Nel tentativo di migliorare le relazioni con il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, Erdogan ha temporaneamente ridimensionato la campagna militare della Turchia contro i curdi siriani per gran parte del 2021. Il governo turco ha inoltre avviato negoziati con l’UE sul cambiamento climatico e sul rinnovo dell’accordo del 2016 che prevedeva aiuti finanziari in cambio dell’accoglienza di milioni di rifugiati siriani.

Il miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti e con i membri dell’UE era un altro obiettivo chiave per la de-escalation. Per Washington e Bruxelles l’atteggiamento assertivo e revisionista di Ankara nelle zone di vicinato era fonte di instabilità regionale e per questo, a differenza di quanto avvenuto in passato con Trump, sia Biden che i leader europei hanno preferito mantenere le distanze da Erdogan, evitando di intraprendere una diplomazia individuale e optando invece per incontri a margine di summit multinazionali. Sebbene la politica di de-escalation non abbia portato a un immediato miglioramento delle relazioni con l’amministrazione Biden, col tempo Washington ha preso atto degli sforzi di Ankara per ricucire i rapporti con altri governi mediorientali. Una spinta significativa per l’immagine della Turchia è stata determinata dal sostegno turco all’Ucraina attraverso la vendita di droni, e dagli sforzi messi in campo da Ankara per impedire alle navi militari russe di entrare nel Mar Nero. Alla fine, Erdogan ha ottenuto un incontro con Biden e i leader dell’UE al vertice NATO di luglio, dopo aver accettato di revocare il veto della Turchia alle richieste di adesione alla NATO di Svezia e Finlandia.

I vertici turchi sostengono che, in parte, la strategia di de-escalation regionale sia dettata dal raggiungimento dei principali obiettivi di politica estera tra il 2016 e il 2020: impedire la creazione di uno staterello curdo indipendente in Siria e interrompere la creazione di un corridoio energetico nel Mediterraneo orientale che aggirerebbe la Turchia.[1] Entrambi sono fondamentali per gli interessi di sicurezza della Turchia e, di conseguenza, potrebbero sopravvivere alla fine dell’era Erdogan.

Tuttavia, quando Ankara ha deciso di invertire la rotta, non tutti in Medio Oriente sono sembrati disposti ad accoglierla a braccia aperte. La risposta iniziale ai tentativi di contatto con gli Stati del Medio Oriente è stata tiepida. I Paesi del Golfo e Israele hanno promesso una maggiore cooperazione e possibili investimenti, ma hanno esitato a darvi seguito nell’attesa di capire se l’intenzione sia quella di proseguire seriamente in questa nuova direzione. L’Egitto è stato ancora più cauto, limitandosi a un pacato impegno istituzionale su questioni relative alla Libia e ad altre zone dell’Africa senza alcun incontro tra Erdogan e il Presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi.

Ricucendo i rapporti prima di tutto con Israele, Ankara sperava di indebolire la coalizione anti-turca che si era formata nel Mediterraneo. La fine del mandato di Binyamin Netanyahu, Primo Ministro israeliano di lungo corso, nel giugno 2021, ha aiutato a dare corpo alla necessità di un nuovo impegno con Israele, e nell’ottobre 2022, dopo mesi di silenziosa diplomazia, Isaac Herzog è diventato il primo presidente israeliano a recarsi in visita ufficiale in Turchia in 14 anni, un evento che Erdogan ha definito “storico”.

La Turchia sperava che il disgelo nelle relazioni con Israele potesse aprire la strada a un nuovo dialogo sull’energia nel Mediterraneo orientale e contribuisse ad ammorbidire l’atteggiamento[2] del Congresso degli Stati Uniti, che per diversi anni è stato molto critico nei confronti della Turchia. Ankara ha perfino ventilato l’idea di un gasdotto che potrebbe raggiungere la Turchia dai giacimenti di gas Leviathan di Israele, e che fungerebbe da alternativa all’East Med Gas Forum, trasformando il Paese in un hub energetico regionale.

L’idea di un gasdotto tra Israele e la Turchia viene ventilata ormai da molti anni, ma è stata generalmente ritenuta non fattibile dal punto di vista economico e politico, soprattutto perché tale infrastruttura dovrebbe attraversare le acque territoriali di Cipro o della Siria, Paesi con i quali la Turchia non intrattiene relazioni diplomatiche. Secondo quanto riferito, i funzionari iracheni sarebbero interessati a esportare gas dalla regione del Kurdistan alla Turchia con l’aiuto di Israele.

Se la de-escalation ha posto fine alle recriminazioni reciproche e ha dato impulso alla cooperazione economica tra Turchia e Israele, ancora non si è raggiunto un completo riallineamento tra le parti. Israele ha assicurato a Cipro e ai suoi nuovi partner del Golfo che il miglioramento delle relazioni con la Turchia non andrà a scapito degli Accordi di Abramo. La de-escalation non è riuscita a creare un’alternativa valida al progetto di gasdotto energetico nel Mediterraneo orientale.

Negli ultimi anni gli Emirati Arabi Uniti sono stati il principale rivale politico della Turchia e il braccio di ferro si è esteso anche all’Europa. Per quasi un decennio le relazioni tra i due Paesi sono state messe a dura prova dal conflitto libico, dalla convinzione della Turchia che gli Emirati Arabi Uniti avessero appoggiato il tentativo di colpo di Stato contro Erdogan nel 2016 e dal sostegno turco ai Fratelli Musulmani e alle rivolte arabe. La spinta di Ankara per la de-escalation con Abu Dhabi è cominciata nel maggio 2021, quando un esponente di alto profilo della mafia turca, Sedat Peker, è fuggito a Dubai dove ha girato video diventati virali che denunciavano la corruzione e la violazione della legge nelle alte sfere dell’establishment  politico turco. La Turchia ha contattato Abu Dhabi per mettere a tacere Peker, avviando così una conversazione volta a risolvere le divergenze tra le parti.

Nel novembre 2021, dopo mesi di attività diplomatica, il Principe ereditario Mohamed bin Zayed Al Nahyan si è recato in visita ad Ankara dove ha discusso con Erdogan degli sforzi per migliorare le relazioni diplomatiche e la cooperazione economica. Nel febbraio 2022 Erdogan si è recato, a sua volta, ad Abu Dhabi nel tentativo di migliorare ulteriormente le relazioni. I media filogovernativi turchi hanno salutato la visita come l’inizio di una massiccia ondata di investimenti emiratini nel Paese. L’Abu Dhabi Investment Authority e altre società emiratine sarebbero interessate alle industrie turche della sanità e della difesa, mentre le banche centrali degli Emirati e della Turchia hanno firmato un accordo di swap delle valute triennale da 4,7 miliardi di dollari.

Il processo di normalizzazione è stato più lento con l’Egitto. Nel 2021 Ankara ha inviato due delegazioni diplomatiche al Cairo per cercare di riparare i danni causati dalle dispute sul conflitto libico, sul sostegno turco alla Fratellanza Musulmana e sui piani per il gasdotto del Mediterraneo che bypasserebbe la Turchia. Tali sforzi hanno generato una certa distensione, ma il riavvicinamento resta lontano, in quanto entrambi i Paesi sono consapevoli della rispettiva influenza nella regione e desiderano evitare un’escalation, soprattutto in Libia. Inoltre Il Cairo si aspetta che Ankara riconosca la legittimità del governo di al-Sisi, che Erdogan ha criticato per anni dopo il colpo di Stato del 2013.

Entrambe le parti sembrano intenzionate a rafforzare l’impegno reciproco, sebbene per il momento lo sforzo si riduca ad azioni intese ad aumentare la fiducia e non abbia ancora preso la forma di manifestazioni pubbliche di cooperazione. Le autorità turche hanno esercitato pressioni sulle reti di dissidenti egiziani e sui media legati ai Fratelli Musulmani a Istanbul affinché moderassero i toni nei confronti del regime di al-Sisi, tanto che alcuni hanno cessato la loro attività in Turchia. Da parte sua, anche Erdogan ha moderato i toni rispetto al regime di al-Sisi e ha smesso di mostrare sostegno ai Fratelli Musulmani facendo il segno della Rabia, simbolo dell’opposizione alla cacciata del governo Morsi da parte di al-Sisi.

In Libia, sebbene non abbiano portato alla risoluzione della crisi politica del Paese, i tentativi di Ankara di riavvicinarsi al Cairo e ad Abu Dhabi hanno creato una nuova dinamica. Ankara e il Cairo hanno cercato di trovare un terreno comune preservando le strutture politiche provvisorie esistenti, sostenendo il processo politico guidato dalle Nazioni Unite e impedendo un confronto militare diretto tra le due principali fazioni del Paese. La Turchia, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto sembrano aver approvato in sordina la decisione di rinviare le elezioni generali, inizialmente previste per il dicembre 2021. L’attuale situazione di stallo politico e gli accordi di governance provvisoria nel Paese mantengono zone di influenza separate per Turchia ed Egitto.

Sebbene interrompere il progetto di corridoio energetico mediterraneo che aggirava la Turchia fosse l’obiettivo principale di Ankara nel dispiegare forze in Libia alla fine del 2019, la decisione di intervenire era stata dettata anche da altre considerazioni. Queste comprendevano il desiderio di espandere la presenza militare turca nella città di Sirte, ricca di petrolio, contrastare l’esercito del Feldmaresciallo Khalifa Haftar, sostenuto dagli Emirati, e contribuire a plasmare il nuovo ordine politico in Libia. Sebbene la Turchia non abbia raggiunto questi obiettivi, ha sospeso la campagna militare contro Haftar nell’ambito del nuovo approccio alla regione.

Anche il dialogo della Turchia con l’Arabia Saudita è iniziato nel 2021. Secondo i diplomatici più informati sulla questione, il disgelo nelle relazioni era subordinato alla rinuncia da parte di Ankara a portare avanti le indagini relative al caso Khashoggi. In vista del viaggio di Erdogan a Riad nel maggio 2022, le autorità turche hanno lasciato intendere che la Turchia sperava di ricevere miliardi di euro in investimenti diretti e prestiti sauditi. Durante la visita Erdogan ha incontrato Mohammed bin Salman per discutere, tra l’altro, di investimenti e altri accordi finanziari, tra cui linee di swap di valuta tra le banche centrali saudita e turca che, secondo le indiscrezioni, ammonterebbero a circa 15 miliardi di dollari. Nonostante le aspettative sul viaggio di Ankara, Erdogan non ha ancora ottenuto un afflusso di fondi dall’Arabia Saudita, il che fa pensare che la Turchia potrebbe andare incontro a una crisi della bilancia dei pagamenti in autunno.

La Turchia punta inoltre a sviluppare un rapporto in ambito di difesa con l’Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo, sperando di posizionarsi come fornitore di sicurezza in una regione che si sente tradita da Washington. Si tratta di un obiettivo ambizioso, dato che la seppur fiorente industria della difesa turca non è certo all’altezza di quella statunitense. Tuttavia, al fine di promuovere relazioni più significative con la Turchia e di mandare un segnale ad altri attori sull’esistenza di opzioni alternative, l’Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo potrebbero intensificare gli acquisti dalle aziende turche del settore della difesa.

Al ritorno da Riad, Erdogan non ha risposto ad alcuna domanda sul caso Khashoggi da parte dei giornalisti del suo entourage ufficiale, limitandosi a commentare: “Ho ribadito il nostro impegno per la sicurezza e la stabilità dell’Arabia Saudita. Ho detto che la nostra sicurezza non è diversa da quella della regione del Golfo. Abbiamo discusso di come potenziare gli scambi commerciali, eliminare gli ostacoli alle dogane, incoraggiare gli investimenti, e abbiamo parlato dei progetti in cui i nostri fornitori potrebbero essere coinvolti. Abbiamo anche parlato di cosa si potrebbe fare nel settore della difesa”. Poche settimane dopo, i giornali turchi hanno riferito che l’Arabia Saudita aveva espresso interesse all’acquisto dei droni TB2, che hanno avuto un ruolo importante nella guerra in Ucraina, prodotti da Bayraktar, azienda il cui responsabile tecnologico è il genero di Erdogan.

I problemi interni di Erdogan

L’accelerazione del processo di de-escalation può essere dovuta a un senso di isolamento in un ordine mondiale multipolare sempre più competitivo, ma è anche dettata dal desiderio di Erdogan di affrontare i problemi interni, come la difficile situazione economica e il crollo del sostegno al suo partito, oggi ai minimi storici, che rappresentano in questo momento la più grande sfida politica del suo mandato. A mettere in discussione la possibilità di una vittoria alle elezioni del 2023 sono, in particolare, i seguenti fattori.

Rifugiati

Se si considera che circa l’80% dei quasi cinque milioni di rifugiati in Turchia sono siriani, non sorprende che la politica di Erdogan nei confronti della Siria sia fonte di tensione in patria. Ankara è stata sottoposta a crescenti pressioni interne per aver incoraggiato l’afflusso di milioni di rifugiati dalla Siria e da altre parti dell’Asia. Il declino economico fa crescere il risentimento dell’opinione pubblica nei confronti dei rifugiati e il Presidente turco ha annunciato l’intenzione di rimpatriare un milione di siriani in una striscia di territorio controllato dalla Turchia in Siria. Il governo turco afferma di voler condurre incursioni militari in Siria non solo per combattere gli insorti curdi, ma anche per creare le condizioni per il ritorno volontario dei rifugiati.

L’opposizione si è fatta sentire sempre più prepotentemente sulla questione dei rifugiati, criticando la precedente politica delle porte aperte del governo e la gestione della guerra siriana in generale. Kemal Kilicdaroglu, leader del Partito Popolare Repubblicano (CHP), formazione politica laica che rappresenta il principale rivale dell’AKP, ha chiesto pubblicamente un dialogo con il regime di Assad sul ritorno volontario dei rifugiati siriani. Ha anche parlato di convincere i siriani a lasciare la Turchia. Se l’opposizione conquistasse il potere, Ankara probabilmente inizierebbe a impegnarsi con il regime di Assad, ma ci sono scarse possibilità che riesca a convincere un gran numero di rifugiati a tornare in Siria.

Opposizione organizzata

Da tempo noti per la loro inefficienza e frammentazione, i partiti di opposizione turchi sono ora uniti e, nonostante le differenze ideologiche, hanno formato un’alleanza elettorale volta a sconfiggere Erdogan, simile alla coalizione anti-Netanyahu in Israele e all’alleanza anti-Orban in Ungheria. Ciò rappresenta una sfida crescente al dominio di Erdogan sulla scena politica turca.

Nel 2019 un blocco organizzato di opposizione ha vinto le elezioni municipali in diverse delle più grandi città della Turchia. Alla fine del 2021 diversi partiti di opposizione, tra cui il CHP e il partito di centro-destra Good Party (İyi Parti) hanno formato il cosiddetto Tavolo dei Sei per coordinare formalmente le rispettive politiche elettorali. Nel febbraio 2022 hanno rilasciato una dichiarazione d’intenti di 48 pagine che prevedeva l’eliminazione del sistema presidenziale esecutivo di Erdogan e la trasformazione del Paese in una democrazia parlamentare.

Sebbene l’opposizione non abbia ancora scelto il proprio candidato, i sondaggi indicano che Erdogan è comunque meno popolare di alcuni dei suoi possibili rivali, tra cui i sindaci di Ankara e Istanbul. A un anno di distanza dalle elezioni, è improbabile che il principale candidato dell’opposizione emerga prima dell’inizio del 2023.

La questione curda

Come detto, l’obiettivo di impedire la creazione di uno Stato curdo indipendente in Iraq o di una zona autonoma in Siria continua a essere al centro della politica estera turca. Tuttavia, nel corso degli anni, Ankara ha adottato approcci molto diversi per raggiungere questo scopo, che vanno dai colloqui di pace con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) alle misure repressive in patria e alle incursioni militari in Siria e Iraq.

La questione curda rappresenta un problema anche nelle relazioni della Turchia con l’UE e gli Stati Uniti. I governi occidentali hanno criticato i vari interventi militari della Turchia contro i gruppi curdi sostenuti dagli Stati Uniti in Siria. La minaccia di Ankara di porre il veto alle richieste di adesione alla NATO di Svezia e Finlandia rientra in un tentativo di mettere fine al sostegno occidentale ai curdi siriani, un ostacolo che è stato superato solo dopo che entrambi i Paesi hanno dichiarato per iscritto che non avrebbero sostenuto il PKK o i suoi affiliati siriani.

La questione rimarrà indubbiamente al centro della politica turca fino alle elezioni e il governo ne farà ampio ricorso per accusare l’opposizione di indulgenza nei confronti del terrorismo. Erdogan accusa spesso l’opposizione di essere in combutta con il PKK. Questa retorica impedisce al Tavolo dei Sei di collaborare apertamente con il Partito Democratico dei Popoli (HDP), filo-curdo, che ha il sostegno dell’11-13% degli elettori.

L’attuale politica turca sulla questione curda non fa distinzione tra attori della società civile, movimenti politici e gruppi armati affiliati al PKK o alle sue organizzazioni sorelle in Siria, Turchia ed Europa. La strategia si basa su continue operazioni di contro-insurrezione in Turchia e non solo, nonché sul desiderio di estendere la sacca di territorio siriano profonda 30 km che Ankara e i suoi proxy controllano lungo l’intero confine siriano, creando così una “cintura di sicurezza” contigua sul fianco meridionale. La Turchia non ha intenzione di abbandonare questa zona di sicurezza, come dimostra la creazione di strutture amministrative permanenti, e al contrario Erdogan ha recentemente minacciato di effettuare ulteriori incursioni militari in Siria per allargarne il perimetro, nonostante le obiezioni di Stati Uniti e Russia. L’evoluzione di questa situazione dipenderà più che altro da eventuali inattesi sviluppi della politica elettorale turca.

La perenne guerra della Turchia contro il PKK in Siria e in Iraq, insieme alle repressioni contro l’HDP, è una parte fondamentale della piattaforma nazionale di Erdogan e un asse portante delle relazioni dell’AKP con il partito ultranazionalista Movimento Nazionalista (MHP). Questo approccio securitario alla questione curda ha tenuto insieme la coalizione di governo, ma ha anche danneggiato in generale la popolarità di Erdogan, alienando i curdi conservatori che un tempo vedevano nell’AKP un agente di cambiamento. Tale approccio continuerà a generare instabilità fino alle elezioni, poiché il governo potrebbe tentare sia di bandire l’HDP sia di violare gli accordi del 2019 con la Russia e gli Stati Uniti, intensificando la campagna militare in Siria. La questione curda è un campo minato anche per l’opposizione, che ha bisogno del sostegno degli elettori curdi per ottenere un vantaggio significativo su Erdogan, ma non può schierarsi apertamente con l’HDP per paura delle critiche del governo.

La questione curda in Turchia è una cartina di tornasole degli standard democratici. Non è chiaro se il Paese tornerà presto allo stato di diritto, ma sicuramente ciò non avverrà prima delle elezioni.

L’obiettivo a lungo termine dell’UE dovrebbe essere quello di stabilire linee guida e meccanismi per evitare che la questione curda diventi una fonte di costante irritazione nelle relazioni tra Turchia e UE. Ciò potrebbe comportare per Bruxelles il tentativo di incoraggiare la Turchia a moderare il suo approccio dopo le elezioni; l’avvio di un dialogo con la Turchia e le Forze Democratiche Siriane (SDF), con la promessa che il gruppo ridurrà l’influenza del PKK tra le sue fila; la promozione del dialogo tra i gruppi curdi in Siria e in Iraq, nonché tra le fazioni dell’opposizione siriana, per migliorare gli interscambi economici all’interno della Siria. Una maggiore interconnessione tra le amministrazioni del nord della Siria, controllate dalla Turchia, dall’opposizione, dal regime e dai curdi, contribuirebbe a creare condizioni economiche sostenibili e potrebbe prevenire ulteriori flussi di rifugiati verso la Turchia. Ridurrebbe inoltre in modo significativo il rischio di escalation militare nella regione.

L’UE dovrebbe prepararsi a uno scenario in cui i curdi siriani, sotto la pressione della Turchia, cercheranno di stabilire legami più stretti con il regime di Assad o con la Russia. La possibilità di arrivare a una stabilità duratura in Siria dipende dal fatto che le capitali europee, Ankara e il regime siriano accettino la necessità di una politica inclusiva nei confronti dei curdi e di altri gruppi di opposizione. In cambio, i curdi siriani e i gruppi di opposizione dovranno impegnarsi a mantenere l’integrità territoriale del Paese.

Disagio economico

A partire dal 2018 la Turchia ha vissuto un declino economico caratterizzato da un’inflazione alle stelle e da un calo del tenore di vita. Secondo una ricerca di Metropoll, il 66% degli elettori turchi non crede più che Erdogan possa risolvere il problema dell’economia. Le statistiche ufficiali mostrano che l’inflazione ha raggiunto il 78,6% a giugno, ma il dato reale è probabilmente superiore al 150%, come riportato dall’ENAG, un ente di controllo indipendente. La Turchia si trova ora ad affrontare la prospettiva di un’altra crisi valutaria mentre si avvia verso la campagna elettorale.

Non sorprende che il declino economico della Turchia sia iniziato nel 2018, anno in cui il Paese si è ufficialmente trasformato in una presidenza esecutiva che ha concentrato il potere nelle mani di Erdogan. Da allora l’indipendenza delle istituzioni economiche turche, tra cui la Banca Centrale e le agenzie di regolamentazione, si è rapidamente deteriorata. La maggior parte degli economisti attribuisce a questo deterioramento istituzionale e alle politiche economiche non ortodosse di Erdogan la responsabilità della situazione economica della Turchia.

Le casse dello Stato turco sono vuote. Erdogan, in barba alle teorie economiche tradizionali, da tempo sostiene che la causa principale dei problemi del Paese siano gli alti tassi di interesse e dunque, piuttosto che permettere alla Banca Centrale di alzare i tassi per controllare l’inflazione, ha fatto ricorso alle riserve di valuta estera per cercare di stabilizzare i mercati, vendendo attraverso le banche statali. A giugno le riserve valutarie nette della Banca Centrale turca si attestavano a 7,38 miliardi di dollari, il livello più basso degli ultimi due decenni, e a maggio avevano registrato una riduzione di 4,8 miliardi di dollari in una sola settimana a causa degli interventi del governo sul mercato. Questa politica non è sostenibile, soprattutto di fronte alla pressione recessiva globale. Nonostante gli interventi statali, quest’anno la lira è stata tra le valute con l’andamento peggiore rispetto al dollaro USA.

Ciò ha aumentato il bisogno della Turchia di finanziamenti esterni per sostenere la lira. Ankara spera che la normalizzazione dei rapporti con i regimi arabi del Golfo possa allentare la pressione sulle riserve della sua banca centrale ed evitare un’altra crisi valutaria, in quanto a differenza dei prestiti concessi da finanziatori internazionali come il Fondo Monetario Internazionale, i prestiti in valuta estera concessi dagli Stati del Golfo non prevedono restrizioni in materia di politica monetaria. Sebbene questa soluzione non sia una panacea per i problemi economici strutturali della Turchia, potrebbe comunque fornire un sollievo temporaneo in vista delle elezioni del 2023, anche grazie agli sforzi per attirare investimenti e turismo dai Paesi del Medio Oriente, intensi a compensare il calo del turismo russo e ucraino.

Politica estera

La politica estera rimane un’arena profondamente contestata in cui la Turchia di Erdogan dimostra sia punti di forza che vulnerabilità. L’immagine e la posizione globale del Paese sono importanti per gli elettori turchi e rappresentano una fonte sia di orgoglio che di preoccupazione.

I turchi danno prova di scarsa coerenza nelle richieste che avanzano ai loro leader, dimostrandosi al contempo sospettosi degli alleati occidentali e desiderosi di legami più stretti con l’Occidente, che potrebbero migliorare l’economia e il tenore di vita nel Paese. Il 58% dei turchi ha una visione sfavorevole degli Stati Uniti e il 54% li considera una “minaccia” per la sicurezza nazionale della Turchia. Secondo Metropoll, il 48% dei turchi ritiene gli Stati Uniti e la NATO responsabili della guerra in Ucraina, ma più del 50% continua a sostenere l’adesione della Turchia alla NATO. Rispetto all’UE, poi, i numeri diventano ancora più significativi: circa il 60% dei turchi approva la candidatura della Turchia all’UE e più della metà vuole mandare i propri figli a studiare nei Paesi occidentali, anche se molti sospettano che l’Occidente non abbia a cuore gli interessi della Turchia. La politica di Ankara in Siria rimane impopolare a causa della presenza nel Paese di molti rifugiati siriani e del sostegno turco ai proxy siriani, ma l’opinione pubblica è generalmente favorevole a continuare la lotta contro il PKK (anche se, durante il processo di pace, quasi il 70% ha sostenuto il dialogo).

Erdogan ha sfruttato la retorica sul fronte interno e il suo alto profilo a livello internazionale, facendo la spola tra i leader mondiali tanto in Medio Oriente che con i Paesi della NATO, per generare sostegno in patria. Tuttavia, a causa delle tensioni nelle relazioni di Ankara con i governi europei e con l’amministrazione Biden, non è stato in grado di assumere pubblicamente il ruolo di dünya lideri (leader globale) o asrın lideri (leader del secolo), come amano chiamarlo i suoi sostenitori. I diplomatici turchi si sono ripetutamente lamentati con le controparti europee per il mancato invito a partecipare ai vertici dell’UE, e lo stesso Erdogan ha espresso senza mezzi termini la sua frustrazione rispetto alle difficoltà nell’accedere al Presidente Biden. I recenti incontri con i leader mediorientali sono in parte finalizzati a dare lustro alla sua immagine in patria.

La guerra della Russia contro l’Ucraina ha ripristinato l’immagine della Turchia come attore geopolitico di primo piano e ha dato a Erdogan la più grande visibilità degli ultimi anni. La maggior parte dei turchi è favorevole alla posizione di equilibrio e quasi neutralità del proprio Paese tra Occidente e Russia, ma la politica estera rimane il ventre molle dell’AKP, in quanto il partito è stato ritenuto responsabile delle crisi cicliche con gli Stati dell’UE e la NATO, che hanno avuto un forte impatto sull’economia del Paese, in particolare sul clima degli investimenti.

I cittadini turchi ricevono quotidianamente una dose massiccia di propaganda di Stato sull’irresistibile ascesa del Paese e sugli sforzi coordinati delle altre potenze per mettervi un freno. Tuttavia, la consapevolezza del netto contrasto tra l’immagine della Turchia promossa dal governo e la difficile realtà economica continua ad aumentare.

Il governo descrive regolarmente l’opposizione come uno strumento costituito da forze oscure che vogliono indebolire la Turchia. Se le argomentazioni cambiano a seconda di chi ne fruisce, Erdogan e il leader dell’MHP Devlet Bahceli promuovono un messaggio chiaro per il pubblico turco: l’Occidente, George Soros e altri presunti nemici stanno cercando di soggiogare e dividere la Turchia. Nell’aprile del 2022 Osman Kavala, il principale leader della società civile turca e uno dei fondatori di Open Society nel Paese, che aveva già scontato quattro anni e mezzo in prigione, è stato condannato all’ergastolo, in quanto il tribunale ha definito le proteste di Gezi Park del 2013 in cui era coinvolto un complotto esterno per rovesciare il governo. Proprio come le sue controparti in Russia e Ungheria, il governo turco considera le organizzazioni della società civile di orientamento liberale e i gruppi per i diritti umani come parte di una quinta colonna che serve gli interessi occidentali. L’opposizione ha difeso le proteste di Gezi Park e ha criticato il verdetto di Kavala.

Nonostante la retorica anti-occidentale, sia il governo che l’opposizione appoggiano pubblicamente il processo di adesione della Turchia all’UE, che Bruxelles vede come una via per ristabilire lo Stato di diritto del Paese. Ad esempio, in un recente comunicato, i partiti dell’opposizione hanno dichiarato il loro impegno a favore “dell’orientamento della Turchia verso l’UE” e del “ripristino del suo prestigio”. Vogliono che la Turchia guardi all’Europa, ma in privato riconoscono che la possibilità di una piena adesione all’UE potrebbe essere svanita.

L’UE deve riuscire a sfruttare il periodo post-elettorale per promuovere il riallineamento con la Turchia sul Medio Oriente e su altre questioni. Tuttavia, dovrebbe prepararsi alla possibilità che, nel breve termine, il Paese potrà soffrire di un’instabilità interna che si tradurrà in uno scenario politico polarizzato e in un rapporto a compartimenti stagni con l’Occidente, caratterizzato sia da conflitti che da cooperazione. Gli europei dovrebbero inoltre presentare proposte politiche concrete per rivitalizzare il dialogo Turchia-UE dopo le elezioni: ad esempio, la Turchia potrebbe essere interessata ad aderire a una comunità europea ampia a più livelli che consentirebbe una maggiore cooperazione in materia di sicurezza, rifugiati ed energia.

Una vittoria dell’opposizione

In caso di vittoria dell’opposizione alle elezioni del 2023, il nuovo governo di Ankara potrebbe tentare di orientarsi più nettamente verso l’Europa e quasi certamente cercherebbe di reimpostare le relazioni della Turchia con l’UE e gli Stati Uniti, ma inevitabilmente i legami economici e le questioni di sicurezza regionale porteranno la politica estera a concentrarsi sul Medio Oriente.

Una coalizione composta dagli oppositori di Erdogan proseguirebbe probabilmente sulla strada della normalizzazione con i regimi mediorientali. Il CHP e il Good Party, i due principali partiti di opposizione, danno priorità al laicismo come caratteristica principale delle relazioni esterne della Turchia. Da tempo criticano la politica del governo in Medio Oriente, comprese le sue simpatie per i Fratelli Musulmani e l’ingerenza nei conflitti in Libia, Siria ed Egitto. Nel 2017 Kilicdaroglu ha definito i Fratelli Musulmani una “organizzazione terroristica” e ha accusato Erdogan di averne incontrato i rappresentanti.

A prescindere da chi vincerà le elezioni, le questioni mediorientali –  tra cui le guerre in Libia, Yemen e Siria e la crisi alimentare nella regione – potrebbero rappresentare un’importante apertura per la cooperazione con l’Europa. Con il ritorno a una politica estera più tradizionale, incentrata sulla tutela degli interessi economici e di sicurezza, la Turchia ha la possibilità di stabilizzare le relazioni con le potenze regionali e di contribuire alla risoluzione di tutti e tre i conflitti.

Da diversi anni, il CHP chiede pubblicamente la normalizzazione delle relazioni con Egitto e Siria. Se l’opposizione vincesse le elezioni, si accelererebbe il processo su entrambi i fronti. Il fatto che i due principali partiti dell’opposizione abbiano votato contro il dispiegamento delle forze turche in Libia suggerisce che siano favorevoli a un approccio più tradizionale e a un minore coinvolgimento diretto nei conflitti nel mondo arabo.

L’impegno incrementale di Ankara con il regime di Assad o la graduale normalizzazione delle relazioni con Damasco – quasi una certezza in caso di vittoria dell’opposizione – rappresenterebbe un cambiamento di enorme portata nella regione.

Come illustrato, il CHP ha dichiarato di voler incoraggiare il ritorno volontario dei rifugiati nei suoi colloqui con Damasco. Con l’acuirsi delle tensioni interne, la questione dei rifugiati dominerà il panorama politico turco ancora per qualche tempo. Sia l’opposizione che il governo cercheranno di compiacere l’opinione pubblica proponendo idee su come rimpatriare volontariamente i siriani e gli altri rifugiati anche se, storicamente, tali sforzi hanno raramente avuto successo.

La Siria rimane una ferita aperta per la politica turca e una fonte di costante tensione interna. Sebbene l’attuale governo si sia opposto al regime di Assad per un decennio, questo non impedirà necessariamente un ripensamento della politica sulla Siria. Una vittoria di Erdogan nel 2023 potrebbe anche portare a un disgelo nelle relazioni tra Turchia e Siria, soprattutto se i curdi siriani fossero, almeno all’apparenza, vicini a un accordo con Damasco. Erdogan ha rivelato che l’agenzia di intelligence estera della Turchia è già in contatto con le autorità siriane. Se Ankara riterrà che i curdi siriani sono pronti a raggiungere un accordo con il regime di Assad, probabilmente tenderà la mano a Damasco per impedire loro di ottenere un’autonomia formale.

Ciò ha enormi implicazioni per il posizionamento europeo e occidentale in Siria. Un disgelo nelle relazioni tra Ankara e Damasco porterebbe il regime di Assad a un passo dalla riammissione nella comunità internazionale. Inoltre, costringerebbe l’UE a riconsiderare la sua politica sulla Siria, mettendo in discussione il rifiuto di impegnarsi con il regime siriano in modi che potrebbero aiutare a stabilizzare il Paese. I politici europei devono prepararsi a uno scenario post-elettorale in cui Ankara potrebbe normalizzare gradualmente le sue relazioni con Assad. Nel lungo periodo, l’Europa ha interesse a una Siria stabile e inclusiva, in pace con la propria popolazione. Gli europei dovrebbero sviluppare meccanismi politici e di supervisione per garantire che ciò avvenga in modo responsabile sostenendo una soluzione politica, in linea con la risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Come Europa e Turchia possono coesistere

Il mutato atteggiamento della Turchia nei confronti dei suoi vicini mediorientali contrasta con il permanente stato di instabilità e caos delle sue relazioni con l’Europa. Questo probabilmente perché la conversazione turco-europea è strutturata secondo le regole di un’epoca precedente e non corrisponde più alla realtà interna della Turchia o al nuovo ambiente geopolitico creato dalla guerra della Russia contro l’Ucraina. Gli Stati europei devono adattarsi ai cambiamenti della posizione della Turchia in Medio Oriente e della sua politica interna e dovrebbero trarvi un insegnamento per ricostruire le proprie relazioni con Ankara.

In vista delle elezioni, gli europei farebbero bene a prendere le distanze dalla politica interna profondamente polarizzata della Turchia ma, a lungo termine, sarà importante per l’UE trovare una strada per impostare diversamente le relazioni con la Turchia di Erdogan o con una Turchia post-Erdogan. Il Paese è un alleato chiave e un occasionale rivale alle porte dell’Unione, e ha anche un ruolo importante da svolgere nel nuovo ordine di sicurezza europeo che emergerà dalla guerra in Ucraina. La Turchia ha inoltre avuto un ruolo non trascurabile nel dibattito interno di influenti Stati europei, tra cui Regno Unito (durante le discussioni sulla Brexit), Germania, Belgio, Paesi Bassi e Francia. Come dimostra la recente minaccia di Erdogan di porre il veto alle richieste di adesione alla NATO di Svezia e Finlandia, la Turchia rappresenta per l’Occidente una questione sia interna che esterna.

La zona del Golfo e il Nord Africa sono due delle aree in cui la nuova politica della Turchia e il desiderio dell’UE di diventare un attore geopolitico più rilevante possono aprire la strada a una maggiore cooperazione e a una salutare dose di competizione. La posizione di Ankara in Medio Oriente influenza l’Europa su questioni che vanno dalla migrazione all’energia e alla sicurezza. Gli interessi turchi ed europei si sovrappongono ampiamente in settori quali la stabilizzazione, il commercio, gli sforzi per contrastare l’influenza russa e la fornitura di garanzie di sicurezza alle potenze regionali. Pertanto, l’UE dovrebbe guardare con favore a una Turchia più cooperativa come partner chiave nella regione.

Naturalmente, le dinamiche interne della Turchia potrebbero cambiare in modo imprevedibile. Anche in una fase post-Erdogan molte domande resterebbero aperte sul ruolo del Paese in Libia, Siria e Iraq e sulla sua crescente dipendenza economica dagli Stati del Golfo. E, come sottolinea giustamente l’analista Sinem Adar, “l’UE e la Turchia camminano come sonnambuli senza bussola”. La Bussola strategica dell’UE, adottata dal Consiglio Affari esteri nel marzo 2022, chiede “relazioni bilaterali su misura” con la Turchia, ma non classifica il Paese come futuro partner o membro di una comunità europea allargata. Mentre gli attuali sforzi dell’UE per prendere le distanze dalla Turchia potrebbero essere efficaci fino alle elezioni del 2023, l’Unione dovrà infine sviluppare politiche per un impegno stabile e a più livelli con il Paese, che comprenda diverse aree e zone di conflitto.

Raccomandazioni per l’UE

Per cominciare, l’UE dovrà probabilmente accettare il fatto che la Turchia rimarrà autonoma e in qualche modo scollegata dall’agenda di sicurezza transatlantica, indipendentemente da ciò che accadrà nella sua politica interna. Un governo post-Erdogan potrebbe moderare la politica europea della Turchia e tentare di rianimare il moribondo processo di adesione all’UE, come l’opposizione si dice impegnata a fare. Tuttavia, dato che l’UE non sembra più interessata ad accettare la Turchia come Stato membro, un riallineamento completo delle relazioni potrebbe non essere nelle carte. Pertanto, l’UE ha bisogno di una politica per la Turchia che possa sostituire il quadro di adesione.

Ciò richiederà ai leader europei di considerare la Turchia come una grande potenza del Medio Oriente, con la quale esistono un misto di interessi condivisi e di competizione, piuttosto che cadere nella trappola di classificarla come un alleato o un rivale. Tuttavia, il rapporto tra le parti non deve necessariamente essere conflittuale. L’UE e i suoi Stati membri dovrebbero accettare l’idea di un impegno non binario, sulla falsariga del “transazionalismo di principio” (principled transactionalism) sostenuto da Lovatt e Barnes-Dacey.

In questo caso, il modello turco-russo di “cooperazione competitiva” fornisce un’idea di come la Turchia possa coesistere con un peso massimo regionale nel quadro di un accordo transazionale. La Turchia e la Russia sono in grado di riconoscere le rispettive sfere di interesse e di accettare il disaccordo in modo tale da mantenere comunque relazioni bilaterali. Allo stesso modo, l’Europa e la Turchia devono trovare il modo di gestire le loro differenze in vari ambiti e di cooperare in altri. La Turchia potrebbe svolgere un ruolo di stabilizzazione in alcune zone del Medio Oriente, ma creare instabilità in altre. Oppure potrebbe garantire la sicurezza nel Golfo ma opporsi alle rivendicazioni cipriote sui confini marittimi nel Mediterraneo. Gli europei devono capire che la Turchia non condividerà sempre gli stessi interessi dell’Europa, ma può essere un partner di supporto in alcuni settori.

La Turchia di oggi sembra uno Stato di sicurezza nazionale sullo stile di altri Paesi del Medio Oriente, eppure è ancora la nazione mediorientale più democratica, con una società polarizzata che ha vissuto a lungo il flusso e riflusso tra democratizzazione e illiberalismo.

Erdogan ha contribuito a rafforzare l’immagine di autonomia ed eccezionalità della Turchia. Tuttavia, anche qualora gli elettori turchi decidessero di voltare pagina eleggendo un nuovo leader, è improbabile che abbandonino queste idee. In una regione caotica e con due guerre che infuriano ai suoi confini, la Turchia si impegnerà nello stesso tipo di equilibrio strategico che ha caratterizzato la sua politica estera tra le grandi potenze nella tarda epoca ottomana, applicandolo oggi alle relazioni con la Russia, la Cina, l’UE e gli Stati Uniti per proteggere i propri interessi.

Il motore principale di questo processo sarà l’élite politica turca e la società in generale, non l’influenza europea. Ciò significa che l’UE dovrà concentrarsi sulle aree di interesse reciproco con la Turchia e gestire meglio le differenze. Dovrebbe farlo nei seguenti modi.

Riprendere il dialogo con la Turchia dopo le elezioni del 2023

L’UE dovrebbe iniziare a creare gruppi di lavoro con Ankara su Medio Oriente, Balcani, sicurezza europea, energia e migrazione. Questo aiuterebbe a mettere da parte il moribondo processo di adesione e a stabilire una relazione più transazionale.

Più in generale, dopo le elezioni l’UE dovrebbe rivedere le sue relazioni con la Turchia soprattutto nel caso Ankara elegga un nuovo governo interessato a guardare verso l’Europa. A tal fine, l’Unione dovrebbe dichiarare pubblicamente e inequivocabilmente che la porta è aperta per l’ingresso di una Turchia democratica in una comunità europea più ampia e a più livelli che coinvolga anche il Regno Unito, l’Ucraina e i Paesi dei Balcani occidentali. La stessa possibilità dovrebbe essere offerta ai turchi, se lo desiderano. Con un’ampia base industriale, una popolazione consistente, importanti capacità militari e una posizione strategicamente rilevante per i corridoi energetici, la Turchia può contribuire in maniera significativa. Se l’UE escludesse la Turchia dal gruppo, ciò non farebbe altro che rafforzare la sensazione di assedio e creare una tensione permanente nelle relazioni del Paese con la Grecia e gli altri Stati europei.

Compartimentare la cooperazione in Medio Oriente

C’è una grande sovrapposizione tra gli interessi turchi ed europei nei conflitti in Libia e Yemen. In Libia, gli sforzi della Turchia per normalizzare le relazioni con gli Emirati Arabi Uniti hanno migliorato la cooperazione tra i due Paesi, portando a una relativa distensione tra alcune fazioni in guerra. L’Europa dovrebbe sfruttare questa opportunità per compiere progressi sulle questioni di governance in Libia, in linea con il processo di Berlino.

Nel frattempo, il riavvicinamento saudita-turco potrebbe avere ripercussioni sulla guerra in Yemen, poiché si dice che l’Arabia Saudita stia discutendo l’acquisto di droni turchi da utilizzare nel conflitto. L’UE potrebbe collaborare con la Turchia per garantire che questa nuova iniziativa non abbia un impatto negativo sulle prospettive di pace o sulla situazione umanitaria nello Yemen.

Creare partnership commerciali ed energetiche con la Turchia

Negli ultimi anni, la solida comunità imprenditoriale turca ha fatto breccia in Africa. L’UE potrebbe aumentare il proprio accesso economico ai mercati mediorientali e africani collaborando con aziende turche nei settori delle infrastrutture, delle costruzioni e dell’energia. Questo potrebbe anche aiutare Bruxelles a risolvere alcuni problemi della catena di approvvigionamento emersi in relazione alle produzioni asiatiche. Il settore privato e la forza lavoro industriale della Turchia operano già secondo standard ampiamente in linea con le norme europee, grazie all’unione doganale del Paese con l’UE.

L’UE dovrebbe inoltre incoraggiare gli sforzi della Turchia per collaborare con la Russia e l’Ucraina al fine di fornire un corridoio sicuro per le esportazioni di cereali dalla regione del Mar Nero. Insieme, Ucraina e Russia forniscono quasi un terzo delle importazioni globali di grano e orzo. L’Ucraina è anche un importante esportatore di olio di girasole e di mais. Le carenze generate dal conflitto hanno fatto salire i prezzi in tutto il Medio Oriente e in Africa e il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha già lanciato l’allarme di una “catastrofe della fame” se la Russia continuerà a bloccare i porti ucraini nel Mar Nero.

Ankara sta lavorando con le Nazioni Unite per stabilire un meccanismo che possa creare e monitorare corridoi sicuri per le esportazioni di grano ucraino da Odessa e da altri porti, e il governo turco ha affrontato il problema anche con il Cremlino. L’UE non potrebbe fornire le navi da trasporto o le scorte navali per tali operazioni, poiché la Russia rifiuterebbe senza dubbio questo coinvolgimento diretto dell’Occidente nel Mar Nero, ma potrebbe creare un fondo per contribuire a coprire gli alti premi assicurativi o assistere nelle operazioni di sminamento al largo di Odessa, lungo le rotte stabilite dall’Ucraina.

Prepararsi a un nuovo impegno di Ankara con il regime di Assad

Come anticipato, qualora Ankara si riavvicinasse al regime di Assad dopo le elezioni, l’UE si troverebbe davanti a una grande opportunità per modificare le proprie relazioni con la Siria. Il deterioramento della situazione economica e umanitaria nel Paese, sia nelle aree controllate dal regime che in quelle dell’opposizione, contribuisce all’instabilità del Medio Oriente. È importante che gli europei garantiscano che il processo di normalizzazione con il regime avvenga in modo condizionato e responsabile e che si continui a sostenere una soluzione politica del conflitto, in linea con la risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea hanno dichiarato che non intendono revocare le sanzioni al regime di Assad fino a quando il progresso verso tale obiettivo sarà palese e irreversibile. Tuttavia, ora che la fase di combattimento sembra perlopiù conclusa, i vicini della Siria e l’UE devono contribuire ad alleviare le difficoltà economiche dei siriani aprendo nuove vie per le attività commerciali.

L’UE ha interesse a mantenere la stabilità e a conservare le attuali strutture amministrative nel nord del Paese. Ciò richiederà un coordinamento con la Russia, sforzi per prevenire una recrudescenza dei combattimenti tra Turchia e curdi, nonché aiuti umanitari e di stabilizzazione nelle aree fuori dal controllo del regime. Una maggiore connessione tra i territori controllati dalla Turchia, dal regime e dai curdi porrebbe le basi per un aumento sostenibile dell’attività economica.

La Turchia può essere un partner importante per l’UE negli sforzi per raggiungere questi obiettivi: anche se Ankara continuasse a bloccare l’invio di aiuti umanitari alle aree gestite dai curdi, l’UE potrebbe comunque trovare sbocchi di collaborazione nelle aree controllate dai turchi e adottare un approccio compartimentato all’attività umanitaria altrove.

Affrontare la questione curda

Se, da un lato, è impossibile evitare che il conflitto della Turchia con i curdi influisca sulle relazioni UE-Turchia, dall’altro esiste uno spazio di manovra che permetterebbe all’UE di migliorare la situazione.

La minaccia turca di porre il veto all’adesione alla NATO di Svezia e Finlandia ha dimostrato che per la Turchia e gli Stati europei è fondamentale trovare un’intesa sulla questione curda. Tale intesa dovrebbe tutelare gli standard democratici europei, ma anche rispondere alle preoccupazioni della Turchia riguardo alle attività del PKK in Europa.

L’attuale clima politico in Turchia è caratterizzato dall’ostilità nei confronti dell’ala politica del movimento curdo, l’HDP, ma lo scenario potrebbe cambiare con le elezioni. Erdogan potrebbe ancora moderare il suo approccio all’ultimo minuto, puntando a separare i curdi dal campo dell’opposizione, come ha fatto in passato.

Sebbene gli europei abbiano poca influenza sulle dinamiche della questione curda in Turchia, dovrebbero continuare a insistere affinché il Paese rispetti gli standard democratici e lo Stato di diritto. Gli europei hanno quantomeno voce in capitolo sul modo in cui il conflitto tra i curdi e lo Stato turco si riversa in Europa, in particolare in relazione alla diaspora curda. Bruxelles dovrebbe mettere in chiaro che l’intenzione è quella di preservare la libertà di parola e le libertà civili sul suo territorio, impendendo al PKK di utilizzarlo per condurre operazioni di raccolta fondi o di reclutamento. Anche se il governo Erdogan potrebbe non accettare facilmente questa distinzione, gli europei dovrebbero sforzarsi di sostenere sia i propri standard democratici sia la cooperazione antiterrorismo con la Turchia.

Promuovere il dialogo intracurdo in Siria dopo le elezioni turche

Per l’UE sarebbe molto più facile affrontare la questione curda se la Turchia tornasse al processo di pace con il PKK del 2009-2015, ma al momento le prospettive sono scarse e anche qualora ciò accadesse, l’iniziativa sarebbe guidata esclusivamente da considerazioni di politica interna.

Tuttavia, l’UE potrebbe comunque incoraggiare una Turchia post-elettorale a impegnarsi nel dialogo e nei partenariati economici con i curdi siriani, a patto che le SDF rimuovano i quadri del PKK dalle proprie strutture di governo. L’Unione potrebbe promuovere il dialogo tra le SDF e altri gruppi curdi siriani, nonché tra i curdi siriani e altri gruppi di opposizione siriani. Come illustrato, gli europei potrebbero anche spingere la Turchia a migliorare l’interconnessione tra le diverse aree della Siria, il che sarebbe importante per creare un ambiente vivibile per i siriani al di fuori delle zone controllate dal regime.

Esplorare gli accordi energetici nel Mediterraneo orientale

Il Mediterraneo orientale diventerà un’arena sempre più critica di competizione geopolitica per l’UE, soprattutto nel tentativo di ridurre la sua dipendenza dal gas russo. Pur non potendo competere con la Russia nella produzione di gas, la regione potrebbe essere utile all’Europa in maniera più discreta. Tuttavia, a questo punto, non sarebbe né politicamente realistico né economicamente fattibile costruire lunghi e costosi oleodotti nel Mediterraneo orientale. Le iniziative per attingere alle risorse della regione avrebbero senso solo se vi fossero nuove infrastrutture energetiche e la possibilità di integrare anche la Turchia.

Gli europei dovrebbero sostenere gli sforzi di Ankara per attenuare le controversie con le altre potenze del Mediterraneo orientale, ma dovrebbero anche ricordare che le relazioni tra Turchia e Grecia potrebbero deteriorarsi in vista delle elezioni del 2023, a meno che l’UE non si adoperi per attenuare l’attrito tra i due Paesi. Se si vuole trovare una soluzione stabile e duratura alla situazione di stallo tra le parti nella regione, l’UE dovrà spingere per l’inclusione della Turchia negli accordi per l’esplorazione e la produzione di energia.

Nel migliore dei casi, il progettato gasdotto East Med – che esclude la Turchia e collega i giacimenti di gas egiziani, israeliani e ciprioti all’Europa – avrebbe trasportato una quantità di gas naturale stimata in 10 miliardi di metri cubi all’anno, pari a circa il 20% delle esportazioni di gas della Russia verso il continente. Tuttavia, il progetto non sembra più sostenibile né politicamente né economicamente, a causa della posizione assertiva assunta da Ankara nel Mediterraneo orientale tra il 2018 e il 2021. Al tempo stesso, anche un oleodotto turco-israeliano sembra irrealistico, dato che dovrebbe passare attraverso le acque territoriali cipriote e che la Turchia non ha relazioni diplomatiche con la Repubblica di Cipro.

L’UE potrebbe usare il proprio peso diplomatico per intrecciare alcuni di questi fili in una trama energetica sostenibile per il Mediterraneo orientale, che coinvolga la Turchia e allenti le tensioni nella regione, in particolare quelle tra Turchia e Grecia. Un possibile approccio potrebbe consistere nell’invitare la Turchia a partecipare al Forum del gas del Mediterraneo orientale; un altro potrebbe essere promuovere un accordo tra Turchia e Cipro su un’equa distribuzione dei proventi degli idrocarburi tra le comunità turche e greche dell’isola (anche in assenza di una soluzione definitiva della questione cipriota). Anche il lancio di un forum sull’energia nel Mediterraneo orientale potrebbe funzionare.

Tutti questi passi diventerebbero più facili con la leadership e la mediazione dell’UE. Avviando una conversazione strutturata su uno di questi temi, l’UE potrebbe migliorare le proprie relazioni con la Turchia e prevenire un’ulteriore escalation nel Mediterraneo orientale.

L’autrice

Asli Aydintasbas è Associate Senior Policy Fellow presso ECFR e Non-resident Fellow presso Brookings Institution. Cura una rubrica sulle dinamiche globali per il Washington Post. Prima di entrare attivamente a far parte della comunità di esperti di politica estera nel 2016, Aydintasbas ha avuto una lunga carriera giornalistica, durante la quale si è concentrata sulla Turchia, sulla sua evoluzione interna e sulla politica estera in un’epoca di transizione regionale e di competizione geopolitica. Aydintasbas scrive regolarmente sulla Turchia per i media internazionali. I suoi articoli sono stati pubblicati sul Wall Street Journal, il New York Times, l’International Herald Tribune, Forbes, Politico e Newsweek. In precedenza Aydintasbas ha curato una rubrica bisettimanale per il quotidiano turco Cumhuriyet (2016-2018) e per Milliyet (2008-2015). Dal 2013 al 2015 ha inoltre condotto un popolare programma televisivo quotidiano sulla CNN Turk, Karşı Gündem, che affrontava questioni come la polarizzazione interna della Turchia e le riforme, nonché tematiche regionali come le rivolte arabe. Aydintasbas è laureata al Bates College, dove ha ricevuto il premio Maung Gande Gyi per l’eccellenza nelle relazioni internazionali, e ha conseguito un Master in giornalismo e studi sul Medio Oriente alla New York University.

Ringraziamenti

L’autrice desidera ringraziare i colleghi del programma Medio Oriente e Nord Africa e il team delle pubblicazioni di ECFR per il sostegno e l’aiuto fornito nella stesura di questo documento. In particolare, si ringraziano Julien Barnes-Dacey e Chris Raggett per i loro suggerimenti e le loro modifiche, che hanno reso questo articolo più leggibile e interessante.

Questo documento è stato reso possibile dal sostegno al programma Medio Oriente e Nord Africa di ECFR offerto dalla Fondazione Compagnia di San Paolo.

ECFR desidera inoltre ringraziare i Ministeri degli Esteri di Danimarca, Norvegia e Svezia per il loro costante sostegno al programma Medio Oriente e Nord Africa, che ha reso possibile questa pubblicazione.


[1] Conversazione con un membro di spicco dell’AKP, marzo 2022.

[2] Conversazione con un alto diplomatico turco in Europa, maggio 2021.

ECFR non assume posizioni collettive. Le pubblicazioni di ECFR rappresentano il punto di vista degli autori.