Perché la guerra in Libia rappresenta un test per l’Italia – e per la Commissione “geopolitica”
Se durante la guerra fredda del ventesimo secolo, l’Italia era il fronte esposto verso Est, oggi è il fronte vulnerabile verso Sud: la frontiera di una competizione geopolitica è arrivata a lambire il Canale di Sicilia
Sirte è ormai il nuovo epicentro della crisi. La voce della mia fonte in Libia pare sollevata rispetto a un mese fa, quando al centro della città e anche attorno all’ambasciata d’Italia – l’unica sede diplomatica europea rimasta aperta nella capitale durante i mesi più duri della strana guerra di Libia – esplodevano i razzi lanciati dalle milizie del Maresciallo Haftar.
Oggi il capo della Cirenaica, appoggiato da Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, appare alquanto ammaccato. Come si è visto, non è riuscito a espugnare la capitale: il fragile governo di Al Sarraj ha retto all’attacco, grazie al sostegno militare della Turchia. Ankara e Mosca si trovano così di fronte a una scelta “esistenziale” per la Libia: concentrare lo scontro su Sirte o tentare invece un accordo. Un accordo che sancirebbe la divisione del paese, già diviso, in sfere di influenza.
Il conflitto continuerà o verrà congelato? L’impressione è che gli interessi in gioco e il peso degli schieramenti a confronto rendano poco probabile un vero e proprio show-down fra Russia e Turchia.
La Turchia di Erdogan può ritenersi soddisfatta. Attraverso l’uso di uno degli strumenti più classici della politica estera – l’aiuto militare, leva che né l’Italia né l’Europa sembrano più in condizioni di attivare – ha raggiunto un accordo con Tripoli che pareggia i conti della storia (l’espulsione ottomana dalla Libia nel 1911) e le dà un vantaggio nello sfruttamento delle risorse energetiche del Mediterraneo orientale. Per la Turchia la battaglia di Libia è anche un tassello cruciale dello scontro ideologico in atto all’interno del mondo sunnita (fra sostenitori e oppositori della Fratellanza musulmana).
La Russia di Putin ha invece una politica opportunistica: sostiene Haftar tiepidamente, guardando piuttosto ad esponenti del vecchio regime e al figlio di Gheddafi, Saif; entra dove può con i suoi mercenari, sfruttando i vuoti lasciati aperti dal disimpegno americano e dalla marginalità europea. Il coinvolgimento di Mosca nella mezzaluna petrolifera resta contenuto: poco più di un migliaio di mercenari, assieme a una manciata di Mig scassati. La Russia ha interessi strategici in Siria, mentre ha interessi più limitati ed essenzialmente economici in Libia (riattivare i progetti infrastrutturali siglati prima del 2011).
Vladimir Putin sfrutta la crisi anche per consolidare la relazione con l’Egitto (paese confinante con un’influenza chiave in Cirenaica) e per confermarsi come potenza mediterranea: la presenza aerea nella base di Al Jufra ne è segnale e simbolo. Il dubbio, tuttavia, è che Mosca non abbia la solidità economica per sostenere, dopo la Siria, un proprio ruolo militare attivo nel Mediterraneo. E rischi anzi di risvegliare l’attenzione americana. Per la Casa Bianca, la Libia è dichiaratamente periferica; ma la presenza militare russa a un centinaio di chilometri dalle basi americane in Sicilia modifica l’equazione strategica. Dopo avere sperato che della Libia si occupassero gli europei e dopo avere appoggiato Haftar, convinto che fosse in grado di vincere, Donald Trump ha riannodato i rapporti con Erdogan: meglio puntare su un paese NATO che concedere troppo spazio alla Russia.
Tutto ciò, coinvolge in prima persona il nostro paese distratto. Se durante la guerra fredda del ventesimo secolo, l’Italia era il fronte esposto verso Est, oggi è il fronte vulnerabile verso Sud: la frontiera di una competizione geopolitica è arrivata a lambire il Canale di Sicilia. Si può aggiungere che la situazione sul terreno in Libia significa lasciare alla Turchia la gestione dei flussi migratori non solo dall’Anatolia ma anche dal Nord Africa.
Nello scenario delle sfere di influenza, interesse del governo di Tripoli è di bilanciare il peso di Ankara, sottraendosi a un abbraccio soffocante. E questo, almeno potenzialmente, rimette in gioco l’Italia. Il nostro paese ha prima favorito la nascita del governo Al Sarraj e lo ha poi abbandonato di fronte all’offensiva di Haftar: in sostanza, abbiamo oscillato fra le parti in conflitto, dando tutta l’idea di non essere un partner affidabile.
Oggi però l’Italia potrebbe recuperare terreno: la decisione di assistere Tripoli nello sminamento delle aree abbandonate dai miliziani di Haftar è una prima inversione di tendenza. Potrà seguire un’iniziativa diplomatica: l’indebolimento del Maresciallo della Cirenaica modifica i calcoli della Francia e rende possibile una convergenza europea durante la presidenza tedesca dell’Ue. La Libia è un banco di prova obbligato per un’Unione “geopolitica”, secondo la tesi di Ursula von der Leyen. Per ora l’Europa è molto lontana dall’essere tale. Ma è un lusso da secolo scorso.
La strana guerra di Libia è un campanello di allarme: o l’Europa riuscirà ad occuparsi dell’instabilità ai suoi confini o scoprirà molto presto di non riuscire a difenderli.
Marta Dassù è membro del Consiglio di ECFR e Senior Director of European Affairs presso l'Aspen Institute.
ECFR non assume posizioni collettive. Le pubblicazioni di ECFR rappresentano il punto di vista degli autori.