Mattia Toaldo intervistato da Il Corriere del Ticino

Osvaldo Migotto, per Il Corriere del Ticino, intervista Mattia Toaldo sulla situazione in Libia in vista delle elezioni

“Libici alle urne tra guerra e trasloco del Parlamento nell’insidiosa Bengasi”

Osvaldo Migotto, Il Corriere del Ticino, 24 giugno 2014

Domani i libici sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento in un cli- ma di vera e propria guerra civile. Cosa c’è da attendersi da questo appuntamento elettorale? Abbiamo sentito il parere di Mattia Toaldo, ricercatore del think tank European Council on Foreign Relations di Londra.

Queste votazioni porteranno un minimo di stabilità al Paese o saranno un nuovo fallimento?
«Rischiano di essere un’occasione sprecata. Il mio timore è che il tasso d’affluenza si abbassi rispetto alle elezioni di febbraio per l’Assemblea costituente. Dico questo in quanto i numeri che abbiamo sulle registrazioni al voto sono la metà rispetto a quelli delle ultime legislative. Tra l’altro la legge elettorale vieta le candidature di partito e quindi vi sono alcuni esponenti dei partiti che si presentano come indipendenti, ma la maggior parte dei candidati sembrano essere o notabili locali o leader tribali. Il che, dopo le elezioni, renderà ancora più complicata la formazione di un Governo. Non basterà mettere d’accordo quattro o cinque leader di partito, ma bisognerà invece trovare un’intesa tra 101 membri del Parlamento, ossia la maggioranza rispetto ai 200 membri del Legislativo. Il nuovo Parlamento oltre ad eleg- gere il Governo dovrà decidere se tenere o no elezioni presidenziali. Tutto ciò con il Paese diviso da una guerra civile».

La bassa partecipazione attesa dipende dal fatto che la gente non crede più nella transizione democratica?
«Diciamo che la gente non ci crede più in quanto ha visto solo instabilità. La sfiducia verso la transizione è dovuta all’incapacità dei Governi che si sono succeduti dal 2011 in poi di garantire un minimo di sicurezza e di sviluppo economico. Sempre in merito ai dubbi sulla partecipazione, bisognerà vedere se i seggi apriranno veramente in posti come Bengasi o Derna. Ho appena raccolto informazioni telefoniche a Bengasi e ho saputo che sarà ben difficile che si riesca a votare in questa città».

In Italia ieri hanno concluso la loro formazione 270 soldati libici. Basta questo impegno della comunità internazionale?
«Basterebbe questo impegno se ci fosse un’idea chiara su dove piazzare questi soldati. Anche solo 270 soldati potrebbero bastare per proteggere la sede del Parlamento libico, invece noi oggi sappiamo che il nuovo Parlamento si riunirà non più a Tripoli ma a Bengasi. Il che nell’attuale situazione di sicurezza sembra un po’ un suicidio. E per di più la sede sarebbe l’hotel Tibesty, che è già stato assaltato diverse volte e si trova in una posizione molto difficile da difendere. Quindi il problema non è solo di addestrare i militari, ma di avere anche un’idea chiara su cosa dovranno poi fare».

Come mai è stato deciso di spostare il Parlamento da Tripoli a Bengasi?
«Per problemi di equilibri interni. Si voleva mostrare che si intende fare qualcosa per venire incontro alle aspettative della Cerenaica. E anche perché, secondo una mia valutazione maliziosa, le forze del generale Haftar (quelle che combattono gli islamisti, n.d.r.) sono più forti nella città di Bengasi».

Come leggere la cattura da parte delle forze speciali USA di un presunto autore dell’assalto al consolato USA di Bengasi?
«In realtà quest’intervento fa parte di una serie di azioni USA. C’era ad esempio già stata la cattura di Anas al Libi, nel settembre del 2013. Il fatto è che il Governo libico è inesistente, quindi per catturare terroristi sul suolo libico bisogna fare da soli. Inoltre negli Stati Uniti siamo ormai all’ottava com- missione parlamentare d’inchiesta sull’uc- cisione dell’ambasciatore Stivens, per cui c’è l’esigenza di far vedere che si sta facendo qualcosa su questo tema».

Riprendere la produzione petrolifera è essenziale per la Libia. A che punto siamo?
«Mesi fa c’era stato un accordo con alcune delle forze che controllavano i pozzi petroliferi. I due blocchi che si stanno combatten- do nel Paese hanno visioni opposte su tale intesa. Nella coalizione del generale Haftar prevalgono i favorevoli all’accordo. Ora sa- rebbero auspicabili pressioni della comunità internazionale a favore del Governo».

 

 

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