L’UE non ha contrastato gli insediamenti israeliani. Il processo di pace in Palestina è naufragato.

Giordano Stabile intervista Hugh Lovatt sulle relazioni tra Europa e lo Stato ebraico dopo l’annessione di un terzo della Cisgiordania.

INVIATO A BEIRUT. La decisione di Benjamin Netanyahu di annettere parte della Cisgiordania, a cominciare da questo primo luglio, è destinata a cambiare in profondità Israele ma anche le sue relazioni con l’Europa. E’ la convinzione dell’European Council for Foreign Affairs, il think tank con sede a Bruxelles incaricato di anticipare le tendenze più importanti in politica estera. Il rapporto «Preparing EU policy for the day after», curato dal Hugh Lovatt, sottolinea come «l’annessione con la forza di un territorio» è una sfida a uno dei principi fondanti dell’Unione Europea e potrebbe spingere altri Paesi, come la Russia di Vladimir Putin, a tentare ulteriori passi del genere a proprio vantaggio. Ma l’inglobamento di un terzo della West Bank, senza concedere cittadinanza e pieni diritti ai palestinesi che vi abitano, mette a rischio anche la «natura democratica» dello Stato ebraico, puntualizza Lovatt. L’Ue affronta questa prova divisa, con le nazioni dell’Est contrarie a sanzioni, anche se ha comunque a disposizione mezzi per far sentire la sua voce.

Qual è la reazione più realistica che possiamo aspettarci dall’Ue?
«Partiamo dal fatto che mettere d’accordo tutti i 27 Paesi dell’Unione è un’impresa molto difficile. Ci possiamo aspettare azioni su due piani. Alcune da parte dei singoli Stati, altre collettive. I singoli Stati possono agire nell’ambito delle loro competenze, a livello di rapporti bilaterali. Lo strumento più importante è “la differenziazione” fra Israele e gli insediamenti. Lo abbiamo già visto con l’etichettatura dei prodotti, altre misure potrebbero riguardare il welfare, le tasse e i servizi consolari, con l’esclusione degli abitanti degli insediamenti dagli accordi favorevoli che includono i cittadini israeliani. Sono decisioni che possono essere prese senza passare per il Consiglio europeo e che quindi non possono essere bloccate da veti. A livello collettivo possiamo aspettarci invece lo stop a collaborazioni in campo tecnologico e della ricerca, come il programma Horizon. I nuovi progetti richiedono un voto del Consiglio e quindi possono essere stoppati dai Paesi che intendono sanzionare in qualche modo Israele».

“L’Europa non ha contrastato gli insediamenti israeliani. Così il processo di pace in Palestina è naufragato”

Che può fare invece l’Autorità palestinese, le minacce di Abu Mazen sono serie?
«Il presidente palestinese ha annunciato di voler interrompere la collaborazione nel campo della sicurezza con gli israeliani. Sono arrivati alcuni segnali in questo senso, ma è presto per dire quanto profonda sarà la rottura. La realtà è che i palestinesi hanno poche opzioni a disposizione e sono arrivati impreparati a questo appuntamento, senza una vera strategia. Abu Mazen, 85 anni, è profondamente legato agli accordi di Oslo e alla prospettiva dei due Stati. Il suo sogno è lasciare come eredità storica la creazione dello Stato di Palestina. Ma a 27 anni da Oslo è una prospettiva sempre meno realistica. La cessazione della collaborazione fra forze di sicurezza palestinesi e israeliane non è nuova. E’ già successo nel 1996 e nel 2000, con l’esplosione della Seconda Intifada. Abu Mazen però ha sempre insistito nel voler mantenere in vita Oslo, e quindi anche la collaborazione».

E ha sbagliato?
«Diciamocelo con franchezza, Oslo è morto. Dopo le annessioni in Cisgiordania ci troveremo in una nuova realtà. E’ brutto usare questa parola, ma senza i pieni diritti civili per i palestinesi, sarà una realtà di apartheid. La soluzione a due Stati non sarà più praticabile. Quello che si vede nella cartina allegata al piano di pace americano non è uno Stato palestinese. Possiamo dire che il piano Trump è “anti-israeliano”, perché seppellisce Oslo e nello stesso tempo non apre alla soluzione di uno Stato unico, bi-nazionale, con pari diritti per tutti. Anche Israele però si trova di fronte a scelte impossibili. Non può avere nello stesso tempo i nuovi territori, mantenere il carattere ebraico, restare una democrazia. Se ha i territori e non concede i diritti ai palestinesi mette a repentaglio la sua natura democratica».

Poteva andare diversamente? Si può ancora salvare Oslo?
«A mio parere Oslo è stato un errore fin dal principio. La leadership palestinese ci è arrivata impreparata e non ha mai avuto la forza di farlo implementare. Anche l’Europa ha le sue colpe. Ha assistito all’espansione degli insediamenti senza contrastarli in maniera incisiva. Il processo di pace è diventato disfunzionale».

Che errori hanno fatto i palestinesi?
«Molti. Ma certamente la spaccatura del 2006-2007, con il rifiuto della leadership di accettare i risultati delle elezioni legislative e poi il colpo di mano di Hamas a Gaza, li ha molto indeboliti. La mancanza di rappresentanza democratica si aggrava anno dopo anno. Lo steso Abu Mazen è stato eletto per la prima e ultima volta nel 2005, quindici anni fa. L’autoritarismo è accentuato dal fatto che il potere è in mano a ottuagenari come il presidente, sulla breccia dagli Anni Ottanta-Novanta. Stenta a emergere una nuova generazione anche se il nuovo premier, Mohammad Shtayyeh, si è comportato bene durante la crisi del coronavirus. Una piccola speranza».

Pubblicato su La Stampa il 6 Giungo 2020.

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