L’uccisione di Amadou Koufa: un’occasione per tenere a freno il conflitto in Mali

Lo scorso mese le forze francesi hanno ucciso uno dei principali leader jihadisti del Mali, Amadou Koufa. La sua scomparsa offre una fugace opportunità per il governo maliano e la comunità internazionale

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Lo scorso mese le forze francesi hanno ucciso uno dei principali leader jihadisti del Mali, Amadou Koufa. La sua scomparsa offre una fugace opportunità per il governo maliano e la comunità internazionale

Nella notte tra il 22 e il 23 novembre, le forze francesi operative nella regione di Mopti in Mali hanno dichiarato di aver ucciso uno dei top leader jihadisti del Sahel, Amadou Koufa, figura chiave della crescente violenza e instabilità nel Mali centrale che tra gennaio e agosto di quest’anno ha ucciso almeno 500 persone. Koufa era inoltre un membro fondatore del Group for the Support of Islam and Muslims (JNIM), i cui attacchi sono motivo di preoccupazione per l’operazione francese Barkhane, l’operazione ONU e altre internazionali. Il raid, che ha coinvolto molte risorse militari francesi, ha colpito altri 30 combattenti oltre Koufa – nonostante il leader di Al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM) Abdelmalek Droukdel abbia fermamente negato quanto riportato. (Lavorando a fianco del Katibat Macina, AQIM rappresenta la parte principale del JNIM).

Il 23 novembre il ministro francese delle forze armate Florence Parly ha dato l’annuncio del raid e della presunta morte di Koufa, dichiarando che “questo nuovo successo per l’impegno militare francese nel Sahel testimonia la nostra volontà a combattere senza tregua il terrorismo. Dimostra altresì la nostra determinazione ad aiutare le autorità maliane nella lotta quotidiana per la stabilità e pacificazione del paese”. L’attacco è avvenuto a meno di due settimane da un raid delle forze francesi diretto ad un bersaglio di elevato rilievo in prossimità dei confini del Mali con il Burkina Faso, che ha ucciso il combattente jihadista Almansour Ag Alkassoum. Queste missioni sono parte di un piano di potenziamento degli sforzi internazionali per combattere i gruppi jihadisti con una presenza e un braccio operativo nel Sahel che si sta espandendo.

Allo stesso tempo, l’Unione europea e altri attori internazionali stanno stanziando maggiori risorse per i programmi di cooperazione allo sviluppo nella regione, aventi l’obiettivo di restaurarne la stabilità. Ciò è stato reso noto in una conferenza tenutasi a Nouakchott il 6 dicembre, nella quale si è deciso per lo stanziamento di centinaia di milioni di euro di finanziamenti aggiuntivi per il Priority Investment Program dei G5 del Sahel. 

Malgrado resti ancora difficile prevederne l’impatto nel lungo periodo, l’uccisione mirata dei leader jihadisti, come quella di Koufa, potrebbe arrestare l’attività militante nel breve periodo e lasciare alle forze maliane e ONU un certo margine di manovra per iniziare a ricostruire l’autorità dello stato nel Mali centrale. Tuttavia, questa strategia duplice che mira, da una parte, a tagliare l’erba sotto i piedi ai jihadisti, e dall’altra, in contemporanea, ad aumentare gli aiuti allo sviluppo, non risolverà da sé i mali del paese. Tanto la strategia francese quanto le strategie dell’UE per stabilizzare il Mali, non hanno saputo tenere conto dei maggiori fattori di successo dei jihadisti come Koufa e dei rischi durevoli per la stabilità del Mali posti da violenze e abusi pubblici commessi dalle milizie e forze dell’ordine.

La via verso la violenza e l’insurrezione

Per anni prima dello scoppio della ribellione e della violenza jihadista in Mali, Koufa è stato considerato un predicatore carismatico e colto – un uomo con il talento di saper attrarre molti seguaci con le sue convinzioni religiose. Attraverso la sua prima associazione con l’ex ribelle maliano Tuareg e attuale leader jihadista Iyad Ag Ghali, Koufa si è unito ai gruppi jihadisti durante la conquista del Mali del nord nel 2012 – una conquista cui ha fatto seguito la sconfitta e marginalizzazione dei più ampi movimenti armati Tuareg che per primi insorsero contro lo stato.

Il nome di Koufa divenne ben noto a gennaio 2012, durante il respingimento dei jihadisti verso la regione di Mopti e il sud del Mali sollecitato dall’operazione Serval, l’intervento militare francese nel paese. Serval ha ucciso centinaia di combattenti jihadisti e tolto terreno a molti altri, ma nel 2015 Koufa è riemerso come leader di un gruppo di militanti di etnia prevalentemente Fulani (noti nella regione come “Peul”). Alle volte indicato come il Fronte Liberazione Macina (FLM), il gruppo prende il nome da una regione del Mali centrale in cui, agli inizi del diciannovesimo secolo, Amadou Shekou fondò uno stato islamico.

Il gruppo di Koufa, composto in prevalenza da Peul, riflette le sue origini etniche e gli sforzi di reclutare quei giovani combattenti Peul che avevano tentato di unirsi ai gruppi jihadisti sin dal 2012. Numerosi sono i fattori che hanno spinto questi giovani al jihadismo (la natura dell’impegno ideologico alla causa è molto varia). Tra questi possono essere citati i conflitti decennali per la proprietà terriera e la condivisione delle risorse tra pastori, per lo più Peul, e le popolazioni sedentarie, i conflitti sociali all’interno delle comunità Peul e il bisogno di proteggersi dalla minaccia percepita dei Tuareg e altri gruppi armati, così come da quella dell’esercito maliano in seguito al suo ritorno nella regione di Mopti.

Dopo il 2015, i combattenti legati a Koufa (il quale potrebbe aver agito autonomamente o sotto altri combattenti) iniziarono a sferrare una serie di attacchi alle forze ONU, agli uomini per la difesa e la sicurezza del Mali, agli ufficiali locali e ai civili. Gli attacchi ricevettero una significativa opposizione tra le comunità locali. Alcune comunità sedentarie appartenenti ai gruppi etnici Bambara e Dogon sentirono di aver ricevuto particolare attenzione da parte degli uomini di Koufa, percepiti, quest’ultimi, come una minaccia per il loro stile di vita o il loro status tra le gerarchie locali. Di conseguenza, le milizie di autodifesa cominciarono a mobilitarsi. Alcuni di questi gruppi furono originariamente addestrati attorno ai “Dozo” – o storiche bande di cacciatori e altri combattenti di diversa natura diffusi in tutta l’Africa occidentale. Alcune milizie di autodifesa hanno realizzato dei brutali massacri di ritorsione tra i civili – a volte sfociati nella distruzione o rovina di interi villaggi – in diverse parti del Mali. Human Rights Watch ha ampiamente documentato questa violenza, riportando i dati di due organizzazioni per i diritti umani che stimano come in tale combattimento e altri attacchi degli ultimi due anni, siano state 1,200 le persone uccise.

Il caos

Le attività dei gruppi jihadisti nel Mali centrale sono state a lungo parte di conflitti di natura sociale, economica, politica e persino religiosa interconnessi tra loro, i quali intrappolano un numero crescente di comunità. Koufa, un oratore pubblico di successo i cui messaggi venivano spesso diffusi nella regione tramite WhatsApp, usava spesso alternare il suo ruolo di combattente jihadista regionale sotto il comando di Iyad Ag Ghali – il quale ha contrastato l’intervento militare straniero nel Sahel – con il suo ruolo di leader Peul. Con ciò, egli stava cercando di creare e organizzare un movimento transnazionale militante di etnia Peul incorporato all’interno di un affiliato di Al-Qaeda.

La composizione fluida dei gruppi armati nel Mali centrale è una delle ragioni per le quali il conflitto nella regione è stato difficile da comprendere e da risolvere. Benché non si possa dire che a portare alla violenza sia stato un semplice conflitto etnico, è certamente vero che l’etnicità è diventata un fattore sempre più determinante nel suo inasprimento. Gli abitanti della comunità Peul sono sempre più descritti come terroristi e sono in aumento le milizie delle comunità locali che vengono fondate o riformate. Queste milizie hanno avuto una parte nella degenerazione della violenza tra le varie comunità che ha segnato gli ultimi anni della ribellione Tuareg degli anni novanta.

Tuttavia, l’attuale picco di violenza è stato più rapido ed espansivo rispetto a quanto accaduto due decadi fa. Durante gli anni novanta, il governo ha cercato di placare parzialmente la violenza tramite il sostegno alle milizie locali composte sommariamente da diversi esponenti delle comunità – una policy portata avanti dall’allora direttore dell’intelligence e attuale primo ministro Soumeylou Boubèye Maiga. Malgrado non si possa dimostrare con evidenza che il governo stia ancora implementando questa strategia, le organizzazioni non governative attive nella regione hanno sospettato che sia così sin dal febbraio 2017 (quando l’autore del report udì tali affermazioni durante un viaggio di ricerca a Bamako), se non prima. Tali asserzioni persistono, data la sorprendente capacità organizzativa e la possibilità di munirsi di armi moderne dei Dozo. Se lo si combina all’applicazione disomogenea delle norme da parte dei soldati maliani, si può avere l’impressione che il governo abbia scelto da che parte stare nel conflitto.

Nonostante l’impegno portato avanti da Maiga nel marzo 2018 per il disarmo di tutte le milizie, il governo ha fatto poco pochi progressi in tale direzione. Fonti locali e rapporti ONU suggeriscono che le autorità abbiano effettuato dei recenti tentativi per disarmare i gruppi Dozo e altre milizie che hanno preso di mira i Peul, ma questi si sono dimostrati meno severi di operazioni simili contro i combattenti Peul. La scorsa settimana, quattro persone sono morte in scontri tra l’esercito del Mali e gruppi armati nei pressi del circolo amministrativo di Bankass, nella regione di Mopti. Questo ha fatto sorgere delle dispute tra l’esercito – che ha identificato gli assaltatori come terroristi – e una fazione delle milizie originariamente legate al governo, le quali hanno dichiarato che l’esercito li aveva attaccati con l’aiuto dei combattenti armati del Dogon. Benché non sia chiaro quale affermazione sia la più accurata, l’impressione che ne deriva è che l’esercito del Mali potrebbe trovarsi a lavorare con le milizie delle comunità locali della regione di Mopti (così come hanno fatto le forze francesi a Ménaka, lungo i confini con il Niger).

Di conseguenza, vi è un bisogno urgente per il governo di dimostrate che stia disarmando tutte le milizie imparzialmente. Dovrebbe farlo pubblicamente e sotto la vigilanza delle missioni di peacekeeping dell’ONU e di altri attori internazionali presenti in Mali.

Più in generale, tanto il Mali quanto la comunità internazionale devono cambiare approccio per riportare ordine nella regione. Nel trattare gli obiettivi degli sforzi congiunti per la sicurezza e lo sviluppo, gli attori internazionali parlano spesso del bisogno di aiutare lo stato a ritornare ad essere presente in alcune regioni, come quelle del Mali centrale. Tuttavia, in tale visione non si considera una questione importante: la struttura statale da ristabilire in tali luoghi non controllati. Una delle ragioni per cui, nel 2012, i gruppi jihadisti e le milizie di autodifesa trovarono un appoggio in alcune parti del Mali centrale e poterono da qui espandersi, va ritrovata nella considerazione che molti maliani – specialmente i gruppi etnici nomadi e semi-nomadi Peul – avevano dello stato, ovvero di un’entità predatrice. Le uccisioni che seguirono dopo il ritorno dell’esercito nel Mali centrale nel 2013 non hanno fatto altro che rinforzare questa percezione, come lo hanno fatto le azioni del governo e delle forze militari sino ad allora.

Se Koufa è morto, vi è al momento un vuoto nel movimento jihadista del Mali centrale che altri potrebbero cercare di riempire. Koufa rappresentava un importante collegamento, e punto di riferimento, per un significativo movimento jihadista maliano affiliato al JNIM. Come risultato, la sua morte potrebbe spingere i gruppi di combattimento semi-autonomi ad allontanarsi dall’organizzazione, permettendo al governo di negoziare con loro ed eventualmente coinvolgerli nei programmi di demilitarizzazione del paese.

Tuttavia, qualsiasi sforzo di riconciliazione non soltanto dovrebbe fare i conti con le operazioni militanti autonome e il variegato insieme di gruppi armati nel Mali centrale, ma dovrebbe anche provvedere ad una giustizia imparziale per gli abitanti della regione. Benché le comunità autonome (in particolare i Peul) abbiano sofferto enormemente a causa delle forze jihadiste, alcuni tra loro hanno finito per accettare la lenta amministrazione che queste forze hanno stabilito in alcune parti della regione di Mopti e delle aree circostanti.

Tale accettazione può derivare dall’assenza dello stato o dall’atteggiamento coercitivo delle forze jihadiste. Tuttavia, può anche provenire dalla percezione che alcune modalità di amministrazione della giustizia portate avanti dai gruppi jihadisti come quello di Koufa, fossero più giuste di quelle dello stato. Questo fattore diventa chiaro quando si ha l’occasione di parlare con dei maliani che hanno vissuto sotto il potere di gruppi come il Movimento per l’Unità e la Jihad nell’Africa Occidentale, i quali spesso denunciano il calo di sicurezza e giustizia che ha fatto seguito alla fine dell’occupazione del 2012. È proprio la mancanza di giustizia imparziale, di adeguati meccanismi di risoluzione dei conflitti e di una governance efficace ad inibire gli sforzi di riconciliazione, a diffondere la convinzione che il governo favorisca alcuni gruppi armati o popolazioni, e contribuisca al deterioramento della pace locale e degli accordi di riconciliazione.

Se confermata, la morte di Koufa, potrebbe rappresentare una fugace opportunità per il governo maliano e la comunità internazionale di risolvere il conflitto con l’adozione di un nuovo e più efficace approccio. Dato la recente diffusione di attività militanti in nuove aree e una crescente violenza tra le comunità, è auspicabile che intervengano prima che sia troppo tardi.

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