La pandemia avrebbe dovuto giovare i leader autoritari, ma non è stato così. Perché?

Da Trump a Lukashenko, i leader autoritari stanno scoprendo come la pandemia non sia il loro tipo di crisi.

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Per un europeo dell'Est della mia generazione, assistere alle proteste in corso in Bielorussia è come guardare un vecchio album fotografico. Le scene dei lavoratori in sciopero richiamano alla memoria i cantieri navali di Danzica e il movimento Solidarność degli anni Ottanta. L’attuale dilemma di Mosca sul se offrire o meno sostegno “amichevole” al regime del presidente Lukashenko mi ricorda la Cecoslovacchia del 1968, quando le truppe sovietiche entrarono nella capitale ceca per porre fine alla Primavera di Praga. L’impressionante incapacità odierna dell'Occidente di agire a sostegno della società civile in Bielorussia ricorda molto quanto accaduto nel 1989 in Cina. La questione del momento è se Lukashenko si spingerà tanto fino a ripetere la tragedia di Tienanmen.

Ma quello che mi viene veramente in mente alla luce di queste proteste non è il ricordo dei movimenti di protesta della mia gioventù ma più una catastrofe naturale. La rivolta in Bielorussia ha alle spalle lo spettro di Chernobyl, la peggiore catastrofe nucleare della storia dell'umanità, avvenuta nella vicina repubblica sovietica dell'Ucraina. Trentaquattro anni dopo, i cittadini si sono resi conto che nulla è cambiato nel loro Paese, e che sono ancora governati da un’amministrazione pronta a sacrificare il proprio popolo per occultare la decadenza del regime.

Questa primavera, mentre tutta l'Europa era in isolamento per combattere la pandemia del coronavirus, Lukashenko rassicurava i bielorussi dicendo che non c'era nulla da temere. La cosa migliore che i cittadini potevano fare, ha detto, era ignorare l'isteria globale e distrarsi andando allo stadio. Molti lo hanno fatto e, così facendo, molti sono stati infettati dal virus, anche fatalmente. Non sappiamo quanti bielorussi avrebbero avuto questo comportamento se non fosse stato per le incitazioni del governo, ma è chiaro che la risposta incosciente delle autorità abbia rappresentato un punto di svolta.

Le proteste in Bielorussia dovrebbero costringerci a ripensare il rapporto tra pandemia e autoritarismo. Il virus infetta le nostre società rafforzando i governi autoritari o invece va a fortificare l'immunità democratica?

Alcuni temono che, più di ogni altra crisi, un'emergenza sanitaria pubblica di questa portata spingerà le persone ad accettare restrizioni alle loro libertà nella speranza di aumentare la sicurezza personale. La pandemia ha aumentato la tolleranza nei confronti della sorveglianza invasiva e dei divieti di libertà di associazione. In diversi Paesi occidentali – tra cui Stati Uniti e Germania – ci sono state proteste pubbliche contro l’uso obbligatorio delle mascherine e contro l’imposizione del lockdown.

Allo stesso tempo, la pandemia ha eroso il potere degli autoritari e di tutti coloro che hanno tendenze autoritarie. La reazione istintiva di leader come Lukashenko in Bielorussia, Vladimir Putin in Russia, Jair Bolsonaro in Brasile e Donald Trump negli Stati Uniti non è stata quella di approfittare dello stato di emergenza per espandere la propria autorità, ma di minimizzare la gravità della pandemia.

Ma perché i leader autoritari che prosperano dalle crisi e dalla politica della paura sono riluttanti a cogliere l'opportunità posta dalla pandemia? Perché sembrano odiare una crisi che dovrebbero amare? La risposta è semplice: gli autoritari giovano solo delle crisi che essi stessi fanno emergere. Hanno bisogno di nemici da sconfiggere, non di problemi da risolvere. La libertà a cui i leader autoritari tengono di più è la libertà di poter scegliere quali crisi meritano una risposta e quali no. È proprio questa capacità di discernimento che essi stessi si attribuiscono che permette loro di proiettare un’immagine di potere assoluto, quasi divino.

Prima del coronavirus, Putin poteva “risolvere” una crisi innescandone un'altra. Un esempio lampante è il fatto che sia riuscito a contrastare il declino della sua popolarità dopo il movimento di protesta del 2011-12 annettendo la Crimea e scatenando così la più grave crisi diplomatica dalla fine della Guerra Fredda. Trump una volta poteva affermare che le ondate di migranti provenienti dal Messico fossero la minaccia più grande e ignorare la minaccia civile del cambiamento climatico, ma nell'era del coronavirus, questo non è più possibile.

Ora in qualsiasi parte del mondo c’è solo una crisi, la pandemia e i governi vengono giudicati in base a come la gestiscono. Gli attori autoritari non solo detestano le crisi che non hanno scelto liberamente, ma detestano anche le “situazioni eccezionali” che li costringono a rispondere con regole e protocolli standardizzati piuttosto che con mosse arbitrarie. Comportamenti banali come il distanziamento sociale, l'autoisolamento e il lavaggio delle mani sono i modi migliori per fermare la diffusione del virus ma rendono insignificante l’audace colpo di genio di un leader. Seguire le regole non è la stessa cosa che obbedire agli ordini.

Ancora più minaccioso per le élite autoritarie ai tempi del coronavirus è il fatto che queste non hanno il vantaggio chiave di cui godono i leader democratici: il lusso di poter sopravvivere anche quando appaiono deboli. Immaginate che Putin ordini a tutti i cittadini russi di indossare le mascherine e che metà della popolazione scelga di non farlo. Per un leader democratico, questo sarebbe un imbarazzo ma per un autoritario rappresenterebbe una minaccia diretta al suo potere.

Il fatto che la malattia sia pressappoco onnipresente rappresenta un’ulteriore sfida per gli autoritari. Poiché la pandemia colpisce ogni paese del mondo, i cittadini possono confrontare le azioni dei propri governi con quelle degli altri. Il successo o il fallimento nell'appiattire la curva fornisce una metrica comune, rendendo possibili confronti transnazionali e facendo pressione anche su quei governi che in precedenza erano riusciti a sfuggire alle critiche pubbliche.

In questo contesto, il covid-19 è diventato mortalmente pericoloso per regimi autoritari come quello di Lukashenko in Bielorussia. Anche se è ancora possibile che il paziente sopravviva se messo in coma artificiale al pronto soccorso di Putin, resta comunque chiaro che il virus è una maledizione per gli autoritari come lui.

Nel 1986 la tragedia di Chernobyl ha rivelato la realtà riguardo il sistema comunista da tempo nascosta dalla propaganda di Stato: il regime non era onnipotente, anzi, non era nemmeno competente. Dal momento di questa rivelazione il regime durò solo qualche anno in più.

Ivan Krastev è co-presidente dell'ECFR, presidente del Centre for Liberal Strategies di Sofia, e analista per il Institute for Human Sciences, IWM di Vienna. Questo articolo è apparso per la prima volta sul New York Times.

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