Il difficile divorzio dell’Italia dalla Russia

La guerra in Ucraina ha spinto l’Italia a cambiare urgentemente la propria politica estera. Gli sforzi di Palazzo Chigi implicano diverse sfide.

Vertice tra Italia e Russia, Trieste 2013
Immagine di Palazzo Chigi

La guerra in Ucraina ha posto sotto i riflettori l’orientamento della politica estera italiana degli ultimi vent’anni. Il Presidente del Consiglio Mario Draghi deve gestirne le conseguenze trovandosi davanti il difficile compito di ridisegnare le relazioni del Paese con la Russia.

Forza Italia, Movimento 5 Stelle e Lega –tre dei partiti della coalizione di governo – hanno a lungo intrattenuto “legami speciali” con Mosca, sulla scia del passato rapporto tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin. A seguito dell’invasione dell’Ucraina e malgrado un’iniziale esitazione sulle sanzioni, Draghi e il ministro degli Affari esteri del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio hanno fatto fronte comune nel condannare le azioni della Russia, in linea con le posizioni degli altri leader europei.

I leader di tutti i partiti italiani ed i relativi parlamentari si sono uniti nel condannare le azioni della Russia. Persino Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia – partito conservatore, euro-scettico e anti-immigrazione sulla linea politica del partito polacco “Diritto e Giustizia” – hanno appoggiato la linea adottata dall’Unione Europea e dall’Italia nei confronti della Russia. Il Movimento 5 Stelle ha fatto lo stesso, nonostante in passato diversi esponenti grillini siano stati tra i grandi sostenitori di Russia e Cina. Quanto a Salvini, il leader della Lega, si è preso del tempo prima di riconoscere la Russia come aggressore. Per Berlusconi, invece, si è trattato di una questione personale, risolta con una dichiarazione di opposizione alla guerra.

In questo senso si può dire che questa guerra abbia cambiato gli orientamenti della classe politica italiana. Tuttavia, la politica estera e le relazioni esterne dell’Italia verso Mosca avevano iniziato a evolvere già prima dell’invasione russa. Appena formato il nuovo governo a febbraio 2021, infatti, Draghi aveva manifestato una posizione di chiaro sostegno all’UE e all’Occidente, con dichiarazioni in merito alla Russia sostanzialmente diverse da quelle di alcuni suoi predecessori, sottolineando in più occasioni la ripetuta violazione dei diritti civili nel Paese e smettendo di annoverare la Russia come partner, considerandola piuttosto un attore con cui mantenere il dialogo.

Per queste ragioni, l’allineamento dell’Italia alla condanna dell’invasione russa da parte di Unione Europea, Stati Uniti, NATO e G7 non avrebbe dovuto sorprendere – eppure, è accaduto, dato il corteggiamento di Mosca che l’élite politica italiana ha portato avanti negli ultimi vent’anni. Comportamento che, peraltro, non rispecchia un analogo apprezzamento da parte dell’opinione pubblica italiana. A tal proposito, un sondaggio di ECFR, pubblicato lo scorso gennaio, aveva riscontrato un inaspettato consenso dei cittadini europei, italiani compresi, nel ritenere probabile un’invasione della Russia in Ucraina nel corso del 2022. Gli intervistati avevano anche concordato sul fatto che i Paesi europei avessero il dovere di difendere Kiev, e che un conflitto tra i due Paesi sarebbe stato un vero e proprio problema europeo. Erano inoltre emerse le preoccupazioni degli italiani in merito alle ripercussioni economiche della guerra sul Paese, in particolare sul fronte dell’approvvigionamento energetico.

L’attuale linea del governo sulla Russia dovrebbe essere chiara e definita, ma sarà difficile affrontare le conseguenze delle sanzioni che l’Italia ha sostenuto con entusiasmo, soprattutto alla luce della dipendenza energetica dalla Russia. Come ha sottolineato Arturo Varvelli, infatti, il Paese dipende dal gas russo e sarà difficile trovare alternative nel breve termine. Inoltre, l’Italia non ha molti terminali di gas, e i rifornimenti da sud sono limitati a causa dell’instabilità in Libia e della ridotta capacità di produzione dell’Algeria. 

Draghi ha più volte riconosciuto la criticità della situazione. Nel suo discorso al Parlamento, lo scorso 1° marzo, il Premier ha ribadito come l’Italia importi attualmente il 95% del suo gas e che più del 40% di questo dalla Russia. Come ha spiegato il ministro della transizione energetica, Roberto Cingolani, ci vorranno tra i 24 e 30 mesi perché l’Italia diventi indipendente dal gas russo. 

Nel lungo periodo, il piano è quello di stabilizzare ed espandere tutte le alternative esistenti al gas russo, sfruttando gasdotti come la Trans Adriatic Pipeline e la GreenStream Pipeline, che forniscono gas rispettivamente dall’Azerbaijan e dalla Libia. Durante un colloquio con i leader algerini, Di Maio ha inoltre affermato che anche la Transmediterranean Pipeline, che trasporta gas dall’Algeria alla Sicilia passando per la Tunisia, giocherà un ruolo fondamentale. Il gas algerino, infatti, già rappresenta il 28.4% del totale del gas importato da Roma. Sul più lungo termine, poi, l’Italia dovrebbe anche cercare di diminuire in toto il proprio fabbisogno di gas, aumentando le fonti di energia rinnovabile. Così ha confermato, lo scorso 5 marzo, Di Maio durante una visita a Doha in cui si è incontrato con il ministro degli Esteri del Qatar, col quale ha concordato di intensificare le relazioni di cooperazione energetica. Per realizzare l’obiettivo energetico, l’Italia ha anche a disposizione €59.47 miliardi dei fondi NextGenerationEU destinati alle iniziative green. Tuttavia, vi è ora il rischio che l’impegno del Paese per la transizione verso le energie rinnovabili venga messo a repentaglio dalla preoccupazione per un’immediata scarsità di energia.

L’Italia, come ha sottolineato Draghi, sta quindi prendendo decisioni fino a qualche settimana fa inimmaginabili. Roma però non è la sola a doverlo fare. I cambiamenti di lungo periodo si sono resi altresì necessari coinvolgendo l’Europa intera come nel caso della Germania, per esempio, che ha dovuto rivedere drasticamente la propria politica estera ed energetica. Come sottolineano Mark Leonard e Jonathan Hackenbroich, questo è l’unico modo di cui Paese dispone per sottrarsi alle proprie inibizioni storiche ed essere fedele al percorso di crescita che ha intrapreso sulle ceneri della guerra, nonché per emergere come attore geopolitico sullo scacchiere internazionale. 

In realtà, un simile cambiamento dovrebbe avvenire in tutti gli Stati membri dell’UE. La guerra in Ucraina ha portato all’attuazione di una strategia coordinata e unanime sulle sanzioni. Gli sforzi della Russia nello sminuire la coesione all’interno dell’UE sono falliti, almeno per ora. Il solo successo politico di Mosca è quello di aver messo in luce la fragilità energetica dell’Europa – aspetto che l’Unione ha ignorato per troppo tempo. 

Ad ogni modo, è improbabile che l’UE si trovi ad affrontare una mancanza di energia nell’immediato. Le sfide in questo ambito emergeranno infatti in avanti, e si intersecheranno con quelle create dalla pandemia, portando così allo scoperto problematiche vecchie e irrisolte, come la questione dei rifugiati. Gli effetti congiunti della pandemia e delle sanzioni contro la Russia, difatti, implicano anche che l’Unione si troverà ad affrontare uno shock economico. E l’Italia, come noto, è vulnerabile.

Per questo motivo, come già sostenuto a febbraio insieme ad Arturo Varvelli, la stabilità politica generata dal governo Draghi e dalla rielezione di Mattarella al Colle rappresenta un vantaggio per Roma, reso ancora più evidente dalla guerra in Ucraina. Questa stabilità interna dovrebbe facilitare l’azione italiana di sostegno agli alleati in Europa – specialmente la Francia, alla presidenza del Consiglio dell’UE, e Germania, alla presidenza del G7. Così facendo, contribuirà al rafforzamento della coesione in seno all’UE

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