Vivere in un mondo à la carte: Cosa dovrebbero imparare i politici Europei dall’opinione pubblica mondiale
In breve
- I leader europei e americani tendono a vedere il mondo di oggi attraverso la lente di sistemi ideologici e politici in competizione, in cui si sta con o contro l’Occidente.
- I risultati di un importante sondaggio d’opinione indicano tuttavia che, in tutto il mondo, prevale nell’opinione pubblica la preferenza per un approccio “à la carte” che permetta ai governi di scegliere pragmaticamente i partner a seconda della questione.
- L’attrattiva dell’Occidente come luogo dove vivere e in termini di valori resta superiore a quella di Cina e alla Russia. Se i cittadini di tutto il mondo tendono a dichiararsi favorevoli alla collaborazione tra il proprio Paese e il fronte guidato dagli Stati Uniti in materia di sicurezza, in materia di cooperazione economica preferiscono invece la Cina e, in generale, l’opinione pubblica al di fuori dell’Occidente non auspica un allineamento politico a tutto campo né con la Cina né con l’Europa e gli Stati Uniti.
- Questa posizione emerge in maniera particolarmente evidente in relazione alle questioni di guerra e di pace. La maggior parte degli intervistati nei Paesi non occidentali sarebbe favorevole a una risoluzione rapida del conflitto anche qualora ciò comportasse una perdita territoriale per Kyiv.
- Al di fuori dell’Europa, l’apprezzamento per lo stile di vita e i valori occidentali non implica fiducia nel progetto politico europeo o nella tenuta delle società liberali. Molti, al di fuori dell’Occidente, dubitano che l’UE e le società liberali in generale possano sopravvivere.
Introduzione
Secondo la visione dei leader europei e statunitensi, il mondo del XXI secolo è caratterizzato dalla contrapposizione di sistemi ideologici e politici in competizione e, in tale contesto, l’Occidente ambisce a conquistare il “Sud del mondo” e a rafforzare l’ordine basato sulle regole per allontanare eventuali minacce.
Tuttavia, un ampio sondaggio d’opinione condotto in autunno in 21 Paesi per conto dell’ECFR e del progetto di ricerca Europe in a Changing World dell’Università di Oxford pare indicare che tale visione del mondo non raccoglie molti consensi al di fuori dell’Occidente.
I risultati del sondaggio indicano che l’Europa e l’America sono ritenute più attraenti rispetto alla Cina e alla Russia e i loro valori vengono giudicati più condivisibili (in altre parole, esiste un maggiore apprezzamento nei confronti del soft power occidentale), ma questo non si traduce in un allineamento politico. Seconda buona parte degli intervistati nella maggioranza dei Paesi esaminati – tra cui anche alcuni Paesi membri dell’UE – viviamo ormai in un mondo à la carte in cui è preferibile scegliere i propri alleati a seconda della questione in gioco, piuttosto che optare per un menu fisso che prevede la fedeltà assoluta a una o all’altra parte.
La seconda tornata di sondaggi condotti dall’ECFR e Oxford nei cosiddetti Paesi CITRUS (Cina, India, Turchia, Russia e Stati Uniti) e in 11 Paesi europei (Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna e Svizzera) insieme ad altri cinque grandi Paesi non europei che abbiamo analizzato per la prima volta (Brasile, Indonesia, Arabia Saudita, Sudafrica e Corea del Sud), rivela un panorama geopolitico complesso, in cui i cittadini delle grandi e medie potenze di tutto il mondo non si rivelano interessati a una serie di partnership fisse.
A partire dall’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022, europei e americani hanno cercato di mobilitare il mondo in difesa dell’ordine liberale post Guerra Fredda ma, come ha dimostrato la nostra prima indagine sui Paesi CITRUS all’inizio del 2023, tale sforzo non ha portato grandi frutti. Il nuovo sondaggio evidenzia e ribadisce che gran parte del resto del mondo sarebbe favorevole a una risoluzione rapida del conflitto anche qualora ciò comportasse una perdita territoriale per Kyiv e pochissimi, anche in Europa, prenderebbero le parti di Washington se scoppiasse una guerra tra Stati Uniti e Cina in relazione a Taiwan.
Al di fuori dell’Occidente si tende a considerare la grande importanza attribuita alla guerra in Ucraina come un esempio lampante di “doppio standard” occidentale. Se tale conflitto ha ormai superato i 600 giorni, è scoppiata nel frattempo un’altra grande guerra, quella tra Israele e Hamas (iniziata dopo il completamento del sondaggio) e la minaccia di conflitto armato a medio termine tra Stati Uniti e Cina per Taiwan si fa sempre più concreta: in altre parole, il mondo odierno pare avviato verso uno scenario di guerre multiple e di alleanze in costante evoluzione.
Se, da un lato, i leader europei insistono sulla necessità di considerare l’UE come un attore geopolitico a pieno titolo, come ha ribadito a Pechino Josep Borrell, il capo della politica estera europea, dall’altro l’Unione europea è vista in gran parte del resto del mondo come una destinazione attraente ma non come un hard power (cioè una potenza militare ed economica) da rispettare. In effetti, nonostante siano in molti al di fuori dell’Occidente ad apprezzare lo stile di vita americano ed europeo, sembrano addirittura crescere i dubbi sulle possibilità di sopravvivenza di queste società liberali.
In ultima analisi, il mondo apprezza l’Occidente per tutto ciò che esso ha da offrire e per gli sforzi intesi a preservare quanto fatto fino ad ora di fronte a un mondo che cambia, ma sarà difficile massimizzare la potenziale leadership geopolitica occidentale se si continuerà a guardare alla politica mondiale in termini di scelte bipolari (“con noi o contro di noi”) che ricordano la Guerra Fredda o la “guerra al terrore” dell’ex presidente americano George W. Bush.
Scelte, scelte
Se in Occidente molti leader politici sperano di preservare l’ordine internazionale post Guerra Fredda, in altre parti del mondo i governi sono già al lavoro per adattarsi alla sua scomparsa e, ove possibile, per cercare di trarre vantaggio dal nuovo disordine mondiale. In termini di opinione pubblica, il proverbiale telegramma ebraico “Inizia a preoccuparti. Seguiranno i dettagli” riassume al meglio lo stato d’animo europeo e americano riguardo all’andamento generale: rispetto a molti altri Paesi del mondo, i cittadini dell’UE e degli USA sono più pessimisti sul futuro dei rispettivi Paesi.
Nonostante la sensazione di declino, il sondaggio mostra che, in relazione a una serie di questioni, l’appeal dei Paesi occidentali è in realtà decisamente superiore a quanto ritengono molti dei loro abitanti.
Una delle domande più significative che si possono porre alle persone è dove vorrebbero vivere se dovessero emigrare. Per i cittadini di tutti i continenti intervistati, l’UE e gli Stati Uniti sembrano esercitare una forte attrattiva. Alla domanda su quale Paese sceglierebbero se dovessero trasferirsi e vivere al di fuori del loro Paese, una netta maggioranza in Brasile, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud e Turchia ha indicato infatti l’UE o gli Stati Uniti. Russia e Indonesia sono state le uniche eccezioni, ma anche in questi due Paesi, come altrove, pochi hanno indicato la Cina o la Russia come meta preferita. La percentuale più elevata che indica una preferenza per Cina e Russia corrisponde al 16% rilevato in Sudafrica, dove il 65% degli intervistati sceglierebbe comunque l’UE o gli USA.
Gran parte di questa attrattiva deriva probabilmente dalla relativa prosperità dell’Occidente, che alimenta la percezione delle opportunità economiche e della qualità della vita, ma il sondaggio suggerisce che parte del soft power europeo e americano sia radicato anche nella natura liberale, tollerante e aperta delle rispettive società e nei valori che esse rappresentano.
In materia di diritti umani, ad esempio, una netta maggioranza di persone in Brasile, India, Sudafrica, Corea del Sud e Turchia preferirebbe che il proprio Paese fosse più vicino agli Stati Uniti e ai suoi alleati (cioè all’Occidente) che alla Cina e ai suoi partner. Si tratta di un’opinione prevalente anche in Arabia Saudita, dove quasi la metà degli intervistati ha indicato la preferenza per un approccio ai diritti umani più vicino a quello occidentale (47%) che a quello cinese (21%). È incoraggiante notare che gli intervistati più giovani (di età compresa tra i 18 e i 34 anni) in Turchia e in Russia sono più inclini a preferire l’Occidente non solo come luogo in cui vivere, ma anche per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti dei diritti umani.
Allo stesso modo, l’opinione prevalente dei cittadini di tutti i Paesi intervistati a eccezione della Russia riguardo al controllo di Internet è che il loro Paese sia più allineato agli Stati Uniti e ai suoi partner, piuttosto che alla Cina e ai suoi alleati.
Sul piano del soft power, la Cina e i suoi alleati non sono quindi in competizione con l’Occidente e non lo è nemmeno la Russia, come dimostra la sua scarsa popolarità come luogo in cui vivere rispetto agli Stati Uniti e all’UE. Inoltre, per i cittadini di molti Paesi del mondo il concetto di “Europa” sembra essere associato non solo a uno spazio geografico, ma anche a un insieme di valori politici che la Russia di Vladimir Putin non condivide. Una netta maggioranza in Cina e in Russia (così come in Europa e negli Stati Uniti) ritiene che la Russia non faccia parte dell’Europa per quanto riguarda i suoi attuali valori politici, opinione condivisa anche dal 48% degli intervistati in Arabia Saudita. Solo in India emerge una posizione divergente, con il 36% che afferma che la Russia è parte dell’Europa, il 27% che non lo è e il resto che dichiara di non avere un’opinione.
Dal punto di vista militare, l’hard power dell’Occidente sembra esercitare lo stesso appeal del suo soft power sui cittadini di molti Paesi. In Brasile, India e Corea del Sud la maggioranza degli intervistati preferirebbe che il proprio Paese collaborasse più strettamente in materia di sicurezza con gli Stati Uniti e i suoi partner piuttosto che con la Cina, opinione prevalente anche in Sudafrica, Arabia Saudita e Turchia, anche se in maniera meno netta. La Russia è l’unica eccezione: poco più della metà degli intervistati (ma la cosa non sorprende) sceglierebbe la Cina come garanzia di sicurezza e solo il 16% sarebbe favorevole a una maggiore cooperazione con l’Occidente.
In realtà, tanto in materia di hard che di soft power, l’unico aspetto su cui la Cina e i suoi alleati superano l’Occidente è il fascino come partner economici. Alla domanda se preferiscono che il loro Paese sia più vicino agli Stati Uniti e ai loro alleati o alla Cina e ai suoi alleati in ambito commerciale, gli intervistati in molti Paesi hanno indicato una preferenza per la Cina. È questa l’opinione prevalente in Russia, ma anche in Indonesia, Arabia Saudita, Sudafrica e Turchia. I cittadini della Corea del Sud sono divisi su questo punto, mentre solo in Brasile e in India gli intervistati preferiscono rapporti commerciali più stretti con la compagine americana.
Nel complesso, se fossero costretti a scegliere, i cittadini di quasi tutti i Paesi intervistati preferirebbero optare per il campo americano piuttosto che quello cinese, opinione prevalente in Brasile, India, Sudafrica, Corea del Sud e Turchia. Anche in questo caso la Russia rappresenta l’unica eccezione, con una maggioranza del 56% che sceglierebbe la Cina. Gli intervistati in Indonesia sono invece equamente divisi, con circa un terzo favorevole agli Stati Uniti, un terzo alla Cina e un altro terzo che si dichiara indeciso.
L’aspetto più sorprendente dei risultati del sondaggio risiede tuttavia nel numero di persone in vari Paesi che sembrano convinte di potersela cavare senza fare una scelta di campo e che opterebbero per un mix tra lo stile di vita occidentale e la cooperazione per la sicurezza a guida americana, da una parte, e la Cina come partner economico dall’altra.
In altre parole, prevale nell’opinione pubblica la preferenza per un approccio à la carte, che non richiede ai rispettivi governi di assumere una posizione allineata a oltranza e che permette invece di perseguire pragmaticamente i propri interessi nazionali con partner diversi a seconda della questione in gioco. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea da un lato e la Cina dall’altro non sono quindi percepiti come modelli politici competitivi da emulare, ma come grandi potenze con cui è possibile cooperare o competere, a seconda della questione.
Questo spiega lo scostamento tra il pensiero di alcuni politici europei e americani e molte delle persone che abbiamo intervistato in tutto il mondo. Spesso i leader politici occidentali partono dal presupposto che, poiché altri Paesi hanno beneficiato dell’ordine mondiale esistente, saranno disposti a restare al loro fianco per mantenerlo, mentre per altri Paesi i cambiamenti che i leader politici occidentali vedono come disordine appaiono invece come un riordino da sfruttare a proprio vantaggio.
Detto questo, la maggior parte dei cittadini della maggior parte dei Paesi intervistati (tranne la Turchia) afferma che i buoni leader daranno priorità alla cooperazione internazionale rispetto all’indipendenza nazionale. Gli europei e i sudcoreani sono quelli che esprimono una maggiore preferenza per la cooperazione internazionale (entrambi al 61%), mentre negli Stati Uniti gli intervistati si dividono quasi equamente tra coloro che danno priorità alla cooperazione internazionale e coloro che favoriscono l’indipendenza nazionale (ed è facile immaginare quale risposta darebbero Donald Trump e i suoi seguaci MAGA).
Tuttavia, questi risultati non dovrebbero essere motivo di compiacimento per l’Occidente. In un mondo in cui i cittadini di molti Paesi preferiscono scegliere i partner a seconda della questione in gioco, la potenza sovversiva o concorrente non deve necessariamente essere attraente quanto quella consolidata. È sufficiente che esista per offrire una scelta. Se il proprio governo non ritiene che l’Occidente o la Cina possano costringerlo a scegliere da che parte stare, la presenza di un’opzione cinese offre semplicemente un’arma negoziale in più nei confronti di Stati Uniti e UE. Questa strategia non è praticata solo da potenze extraeuropee, ma anche da Paesi europei come la Serbia e persino da Stati membri dell’UE come l’Ungheria di Viktor Orban, tutti convinti che in un mondo à la carte sia possibile intrattenere importanti relazioni economiche con la Cina e relazioni di sicurezza con gli Stati Uniti, godendo al contempo di ciò che l’Europa ha da offrire.
Allineamento selettivo in un mondo in guerra
Lo scollamento tra l’attrattiva dei Paesi occidentali (compresi i valori politici che essi rappresentano) e la volontà di altri Stati di allinearsi a tutto campo è più evidente quando si tratta di questioni di guerra e di pace. Molti leader occidentali sono rimasti sconvolti dal fatto che le loro controparti in tutto il mondo non abbiano attribuito alla guerra della Russia contro l’Ucraina la stessa importanza esistenziale che hanno attribuito loro, stringendosi attorno agli Stati Uniti e all’Unione Europea per proteggere non solo l’Ucraina, ma anche i principi alla base dell’ordine internazionale a guida occidentale.
Questo sondaggio dimostra che il fascino dei Paesi e dei valori occidentali spesso non si traduce in un sostegno alle politiche occidentali. Come nel precedente sondaggio sui Paesi CITRUS, in Cina, India e Turchia (e ovviamente in Russia) permane una chiara preferenza per una rapida conclusione del conflitto in Ucraina anche se questo comportasse per Kyiv la rinuncia al controllo di parte del suo territorio. Il nuovo sondaggio mostra che tale opinione è prevalente anche in Brasile, Indonesia, Arabia Saudita e Sudafrica.
Ciò non significa che in questi Paesi l’opinione pubblica ritenga che la guerra in Ucraina sia un’occasione per respingere il dominio occidentale del mondo, argomento che rimane popolare solo ed esclusivamente in Russia. Tuttavia, fatta eccezione per la Corea del Sud, il sostegno alla proposta transatlantica di sostenere l’Ucraina per tutto il tempo necessario raccoglie pochi consensi (e gli stessi europei tendono a esprimere opinioni contrastanti su questo punto).
Nel complesso, sembra che un gran numero di persone al di fuori dell’Occidente veda la guerra in Ucraina non tanto come una lotta morale ma come una guerra per procura tra grandi potenze. La maggioranza degli intervistati in Cina, Russia, Arabia Saudita e Turchia ritiene che gli Stati Uniti e la Russia siano in guerra. Negli Stati Uniti e in Europa, come solamente in India e in Brasile, prevale invece l’opinione che gli Stati Uniti non siano in guerra con la Russia (anche se in alcuni Paesi europei la maggioranza ritiene il contrario).
In molti Paesi, inoltre, l’opinione pubblica rifiuta l’idea che la Russia sia da ritenere responsabile di aver scatenato la guerra. Solo in Europa, Stati Uniti e Corea del Sud emerge una chiara maggioranza convinta che la Russia costituisca il maggiore ostacolo alla pace tra Russia e Ucraina, mentre è invece l’Occidente (Ucraina, UE e Stati Uniti) a essere ritenuto il problema più significativo non solo in Russia e in Cina, ma anche in India, Indonesia, Arabia Saudita e Turchia.
Il problema non risiede solo nel fatto che molte persone non sembrano sostenere la causa dell’Occidente, ma nel fatto che esistano dubbi sulla capacità dell’Occidente di determinare l’esito del conflitto. La maggioranza degli intervistati in Russia, Cina, India, Indonesia, Arabia Saudita, Sudafrica e Turchia ritiene infatti probabile che la Russia vinca la guerra in Ucraina entro i prossimi cinque anni.
Solo negli Stati Uniti prevale chiaramente l’opinione che sarà l’Ucraina a vincere la guerra, mentre in Europa il 30% degli intervistati ritiene che probabilmente la Russia vincerà la guerra entro cinque anni e solo il 38% afferma che sarà l’Ucraina a prevalere. Si tratta di una notizia sconfortante non solo per gli ucraini, ma anche per tutti coloro che credono che una vittoria ucraina sia essenziale per il futuro dell’ordine europeo e internazionale.
Questo diffuso senso di insicurezza globale e la perdita di fiducia nell’Occidente riguardo alla possibilità di riportare ordine nel mondo ha implicazioni che vanno ben oltre l’Ucraina. Molte persone sono favorevoli al fatto che i rispettivi Paesi abbiano accesso alle armi nucleari, forse ritenendole l’unico strumento in grado di garantire la sovranità nazionale in un mondo sempre più pericoloso. Dopo tutto, l’Ucraina ha rinunciato alle armi nucleari negli anni ‘90 in cambio di garanzie di sicurezza da parte di Stati Uniti, Russia e Regno Unito. La spettacolare e brutale violazione di tali garanzie da parte della Russia può aver contribuito a far credere che solo le armi nucleari possano garantire la sicurezza del proprio Paese.
Negli ultimi mesi, due potenti Stati membri dell’UE, la Francia e la Germania, hanno avuto un acceso scambio di vedute sull’opportunità di ricorrere all’energia nucleare per scopi civili. Nel frattempo, la maggioranza dell’opinione pubblica in Cina, India, Arabia Saudita, Corea del Sud e Stati Uniti ritiene che il proprio Paese debba avere accesso alle armi nucleari. Solo in Brasile, Europa e Indonesia una chiara maggioranza si oppone all’acquisizione di armi nucleari.
Questa perdita di fiducia nell’Occidente avrà probabilmente ripercussioni anche in altri contesti. Esiste infatti il rischio di un terzo potenziale grande conflitto, lo scontro armato tra Stati Uniti e Cina riguardo a Taiwan: ben il 52% dei cinesi ritiene che sia probabile, opinione condivisa dal 39% degli americani e dal 35% degli europei.
Ma quando si ipotizza un potenziale conflitto tra Stati Uniti e Cina su Taiwan, nemmeno gli europei sono pronti a impegnarsi a fianco del loro alleato transatlantico. Infatti, come ha mostrato un precedente sondaggio dell’ECFR condotto all’inizio del 2023, una media del 62% delle persone in 11 Stati membri dell’UE preferirebbe rimanere neutrale qualora si arrivasse al conflitto e solo il 23% sarebbe pronto a sostenere gli Stati Uniti. Nell’ultimo sondaggio, solo l’8% degli europei ha dichiarato che sosterrebbe il coinvolgimento militare del proprio Paese in una possibile guerra su Taiwan, rispetto al 32% degli americani, anche se in entrambi i Paesi la maggioranza si oppone a tale scenario.
Quando il soft power non basta
Alcuni europei vivono gli attuali cambiamenti geopolitici non solo come una crisi dell’ordine internazionale, ma anche come una crisi di identità. Nel periodo successivo alla Guerra Fredda, fino al 2022, hanno sperato non solo che l’Europa fosse davvero un continente di pace, ma anche che avrebbe plasmato il resto del mondo a sua immagine e somiglianza, secondo un modello di governance multilivello post-nazionale e rispettosa della legge. Di quella speranza rimane ben poco e i nostri sondaggi indicano che (se si separa l’Europa dagli Stati Uniti) i cittadini del resto del mondo sembrano non essere particolarmente convinti dell’hard power dell’UE e del suo ruolo come attore geopolitico.
Quando in un precedente sondaggio dell’ECFR è stato chiesto quale parola descrivesse meglio i diversi Paesi e regioni, raramente gli intervistati di tutto il mondo hanno associato all’UE la parola “forte”. In tutti i Paesi analizzati gli intervistati si sono rivelati più propensi a usare tale aggettivo per descrivere gli Stati Uniti e la Cina: gli Stati Uniti sono ritenuti “forti” in tutti i Paesi tranne che in Russia e la Cina viene descritta come “forte” o “in ascesa” nella stessa Cina, in India, Russia e Turchia (o entrambe le cose in India). Rispetto all’UE le risposte sono generalmente più frammentate, con un numero relativamente basso di persone che dichiara di considerare l’UE “forte”.
Tuttavia, il nuovo sondaggio mostra che l’UE dispone di enormi riserve di soft power e nessuna delle grandi potenze non occidentali sembra poter competere in materia di attrattiva. Eppure emerge chiaramente da altre ricerche del progetto Europe in a Changing World di Oxford che la maggior parte dei cittadini dei Paesi CITRUS vede l’Europa non come una singola unità omogenea, né tanto meno semplicemente come l’Unione Europea, ma piuttosto come una serie di grandi Paesi europei, come Francia e Germania (includendo di solito anche il Regno Unito, nonostante la sua uscita dall’UE).
Purtroppo, anche questo potere di attrazione potrebbe ora rappresentare un problema per l’Europa, poiché la resistenza all’immigrazione contribuisce probabilmente a spingere gli elettori di alcuni Paesi verso i partiti nazionalisti populisti xenofobi. L’attrattiva della prosperità dei Paesi dell’Europa occidentale sta risucchiando persone anche da Paesi come la Lituania e la Bulgaria. A meno che la guerra in Ucraina non si concluda con una chiara vittoria e un enorme sforzo di ricostruzione, lo stesso potrebbe accadere, su scala ancora più ampia, anche con l’Ucraina.
Inoltre, i risultati suggeriscono che i cittadini extraeuropei distinguono nettamente tra l’attrattiva dell’Europa come luogo da visitare e in cui vivere, e la forza e la resilienza dell’UE come progetto politico. Ciò è dimostrato dal fatto che un numero straordinariamente elevato di persone fuori dall’Europa ritiene che l’UE cesserà di esistere entro i prossimi 20 anni. Si tratta di un’opinione maggioritaria in Cina, Russia e Arabia Saudita, ma anche altrove sono in molti a crederlo, tra cui non meno di un terzo degli americani. È sorprendente che anche un terzo degli europei intervistati ne sia convinto, anche se il 50% non è d’accordo. È interessante notare che l’UE non è l’unica a essere giudicata vulnerabile. Molte persone in tutto il mondo - tra cui la maggioranza in Cina e Arabia Saudita e oltre il 40% in Russia e Turchia - ritengono inoltre che gli Stati Uniti potrebbero cessare di essere una democrazia entro i prossimi due decenni.
La percezione che i cittadini del resto del mondo hanno del futuro dell’UE è correlata alla probabilità che la Russia vinca o meno la guerra in Ucraina. Al di fuori dell’Europa, il 73% di coloro che ritengono probabile il collasso dell’UE prevede anche una vittoria russa, rispetto al 53% di coloro che ritengono improbabile il collasso dell’UE. Sebbene la maggioranza di entrambi i gruppi preveda la vittoria della Russia, questa prospettiva è nettamente più dominante tra coloro che prevedono anche il crollo dell’UE. Questa correlazione è particolarmente evidente in Cina, Sudafrica, Corea del Sud e Stati Uniti, ma è visibile anche in Brasile, Arabia Saudita e Turchia. Inoltre, il 14% degli intervistati non europei che giudicano il crollo dell’UE “molto probabile” si distinguono anche per ritenere, in maggioranza, una vittoria russa “molto probabile” (52%).
È quindi plausibile sostenere che l’esito della guerra in Ucraina avrà un impatto sulla credibilità dell’UE non solo agli occhi del resto del mondo, ma anche degli stessi europei. Mentre la maggioranza degli intervistati europei che non pensano che l’UE arriverà al collasso nei prossimi 20 anni dubita della probabilità di vittoria della Russia nei prossimi cinque, la maggioranza relativa di coloro che credono che l’UE cesserà di esistere ritiene anche che la Russia vincerà la guerra.
Esiste una correlazione ancora più forte, sia all’interno che all’esterno dell’Europa, tra l’aspettativa dei cittadini rispetto al collasso dell’UE e il crollo della democrazia degli Stati Uniti. Tra i cittadini non europei, due terzi di coloro che prevedono il collasso dell’UE sono anche dell’opinione che gli Stati Uniti potrebbero cessare di essere una democrazia nei prossimi due decenni. Nel frattempo, tra coloro che dubitano che l’UE crollerà, tre quarti vedono la democrazia statunitense come resiliente. Questa tendenza è particolarmente evidente nell’opinione pubblica di Cina, India, Indonesia, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica e Turchia, ma è visibile anche altrove, compresa l’Europa. Tali opinioni potrebbero quindi essere collegate a una percezione generale dei sistemi politici occidentali, siano essi la democrazia americana o l’Unione europea.
Conclusione
In tutto il mondo i Paesi europei sembrano esercitare una grande attrattiva in termini di stile di vita e sistemi di valori ma, se considerati indipendentemente dal loro partner transatlantico, sembrano mancare della forza d’urto necessaria per proteggere gli interessi e i valori europei in un mondo di guerre e di grandi e medie potenze in competizione.
Sia la guerra della Russia contro l’Ucraina che quella tra Israele e Hamas avranno effetti più diretti sull’Europa che sugli Stati Uniti. Una vittoria russa in Ucraina sarebbe vissuta come una minaccia esistenziale dalla maggior parte dei Paesi dell’Europa centrale e orientale, mentre il conflitto in Medio Oriente potrebbe mettere in discussione la stabilità interna dei Paesi dell’Europa occidentale con consistenti popolazioni minoritarie.
Il concetto di “UE geopolitica” rimane per ora poco più che uno slogan e, quando si arriva al dunque, ci si rivolge agli Stati Uniti per trovare una rassicurazione definitiva: un sondaggio dell’ECFR del 2020, per esempio, ha dimostrato che la maggioranza degli europei continua a considerare la garanzia di sicurezza offerta dagli Stati Uniti un fattore necessario per ritenersi al sicuro da invasioni militari. Ma in un mondo à la carte, nessuna grande potenza potrà imporre i propri desiderata al resto del mondo.
Al momento gli europei sono stretti tra due strategie contrastanti. Da un lato c’è chi è fedele all’idea di un mondo bipolare fatto di democrazie contro autocrazie e pensa che il destino dell’Europa sia quello di allinearsi il più possibile agli Stati Uniti, la potenza con cui condivide più valori. Ma anche se l’amministrazione Biden è stata essenziale per la difesa dell’Ucraina e gli Stati Uniti continueranno a essere la grande potenza più affine all’Europa, i risultati dei sondaggi suggeriscono che è improbabile che il mondo si divida in due campi contrapposti.
Inoltre, la politica interna degli Stati Uniti continua a essere iperpolarizzata e i futuri presidenti americani saranno probabilmente meno in sintonia con i valori e gli interessi europei. Ciò diventerebbe drammaticamente evidente se Donald Trump venisse rieletto nel 2024 per un secondo mandato, ma anche qualora ciò non accadesse, lo spostamento dell’attenzione degli Stati Uniti verso la Cina significherà necessariamente un minore coinvolgimento in Ucraina rispetto agli europei, continente nel quale si trova il Paese.
D’altra parte, è probabile che la richiesta di maggiore “autonomia strategica” - uno slogan giudicato antiamericano che rivela una preferenza ad agire da soli piuttosto che di concerto con il partner transatlantico – abbia come conseguenza per l’Europa una maggiore divisione, piuttosto che una maggiore unità. In ogni caso, l’insistenza dell’UE a voler essere un attore geopolitico forte e autonomo è destinata a ritorcersi contro l’Europa stessa se avulsa da una reale capacità di fare la differenza.
All’ECFR abbiamo suggerito che un approccio alternativo potrebbe consistere nel perseguire una politica di “interdipendenza strategica“ riconoscendo, da un lato, che l’UE non sarà mai in grado di essere autosufficiente e che il desiderio di interdipendenza è nel suo DNA e che, dall’altro, l’UE deve fare molto di più per diventare un attore geopolitico a pieno titolo. La guerra in Ucraina ha portato alla luce la dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia e la pandemia di Covid-19 ha rivelato la sua dipendenza dalle catene di approvvigionamento dalla Cina, pertanto l’UE non può farsi illusioni riguardo alle sue vulnerabilità derivanti da dipendenze asimmetriche. Per questo motivo avrebbe senso diversificare le relazioni e sviluppare una risposta alla “dual circulation” cinese e alla politica industriale degli Stati Uniti. Si tratta dell’aspetto economico dell’hard power.
È inoltre giunto il momento che gli europei investano maggiormente nella dimensione militare e di sicurezza dell’hard power, sulla base di quanto hanno già fatto per sostenere l’Ucraina. Il successo di un ulteriore allargamento dell’UE verso est, anche prima della conclusione della guerra in Ucraina, renderebbe l’UE più forte e più credibile in un mondo di grande competizione geopolitica e geoeconomica.
Piuttosto che aggrapparsi al vecchio menù fisso di allineamenti a oltranza, i politici europei devono cercare nuovi partner su questioni di importanza fondamentale per adattarsi a vivere in questo mondo à la carte.
Metodologia
Questo rapporto si basa su un sondaggio di opinione condotto tra settembre e ottobre 2023 su una popolazione adulta (di età superiore ai 18 anni) in 11 Paesi europei (Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Italia, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna, Svizzera e Gran Bretagna) e in 10 Paesi extraeuropei (Brasile, Cina, India, Indonesia, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia e Stati Uniti). Il numero totale degli intervistati è stato pari a 25.266.
Al di fuori dell’Europa i sondaggi sono stati condotti da Gallup International Association attraverso una rete di partner locali indipendenti e operatori di panel transnazionali come sondaggio online in Brasile (1.003 intervistati; 19 settembre - 3 ottobre; attraverso Voices!), Cina (1.006; 19-28 settembre 2023; attraverso Distance/Dynata), Indonesia (1.000; 8 settembre-3 ottobre; attraverso DEKA), Russia (1.000; 19-27 settembre; attraverso Be Media Consultant), Arabia Saudita (1.012; 19-27 settembre; attraverso Distance/Dynata), Sudafrica (1.005; 19-28 settembre; attraverso Gallup International GmbH), Corea del Sud (1.000; 18-27 settembre; attraverso Gallup Korea), Turchia (1.000; 19-29 settembre; attraverso Distance/Dynata) e Stati Uniti (1.033; 19 settembre; attraverso Distance/Survey Monkey), e tramite sondaggi di persona in India (1.126; 18 settembre-3 ottobre; attraverso Convergent). La scelta dei sondaggi di persona in India è stata dettata dalla scarsa qualità di Internet nelle città più piccole del Paese.
In Brasile, Indonesia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia e Stati Uniti il campione era rappresentativo dei dati demografici di base a livello nazionale. In Cina il sondaggio ha coinvolto solo i quattro maggiori agglomerati urbani del Paese: Pechino, Guangzhou, Shanghai e Shenzhen. In India le aree rurali e le città di livello 3 non sono state coperte. In Russia sono state coperte solo le città con più di 100.000 abitanti. Pertanto, i dati di Cina, India e Russia devono essere considerati rappresentativi solo per la popolazione coperta dal sondaggio. Infine, considerando la portata del sondaggio e del questionario, i risultati di Cina, Russia e Arabia Saudita devono essere interpretati con cautela, tenendo conto della possibilità che alcuni intervistati si siano sentiti limitati nell’esprimere liberamente le proprie opinioni.
In questo policy brief, i risultati relativi all’“Europa” corrispondono a una media semplice degli 11 Paesi europei sopra citati, salvo dove indicato diversamente.
Nota sugli autori
Timothy Garton Ash è professore di studi europei all’Università di Oxford e co-direttore del progetto Europe in a Changing World. Il suo nuovo libro “Homelands: A Personal History” è attualmente in corso di pubblicazione in più di 20 edizioni europee.
Ivan Krastev è presidente del Centre for Liberal Strategies di Sofia, e permanent fellow presso l’Institute for Human Sciences di Vienna. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui in particolare “Is It Tomorrow Yet?: Paradoxes of the Pandemic”.
Mark Leonard è cofondatore e direttore dell’ECFR - European Council on Foreign Relations. Il suo nuovo libro “The Age of Unpeace: How Connectivity Causes Conflict” è stato pubblicato da Penguin in brossura il 2 giugno 2022. Presenta inoltre il podcast settimanale dell’ECFR “World in 30 Minutes”.
Ringraziamenti
La redazione di questo rapporto non sarebbe stata possibile senza lo straordinario contributo del team Unlock dell’ECFR, in particolare di Pawel Zerka che ha svolto un lavoro straordinario di analisi dei dati per individuare le tendenze chiave e aiutare gli autori ad affinare le loro argomentazioni. Kim Butson e Jeremy Shapiro sono stati brillanti revisori di varie bozze e hanno migliorato notevolmente il flusso narrativo del testo. Andreas Bock si è occupato della sensibilizzazione strategica dei media e Nastassia Zenovich della visualizzazione dei dati. Susi Dennison e Josef Lolacher hanno fornito suggerimenti utili e perspicaci sulla sostanza, mentre Anand Sundar ci ha aiutato a orientarci nelle successive stesure. Gli autori desiderano inoltre ringraziare Paul Hilder e il suo team di Datapraxis per la collaborazione nello sviluppo e nell’analisi dei sondaggi europei citati nel rapporto. Nonostante i numerosi e variegati contributi, gli eventuali errori restano a carico degli autori.
Questo sondaggio e questa analisi sono il risultato di una collaborazione tra l’ECFR e il progetto Europe in a Changing World del Dahrendorf Programme del St Antony’s College dell’Università di Oxford, che ringrazia anche la Stiftung Mercator per il generoso sostegno. Per questo progetto l’ECFR ha collaborato con la Fondazione Calouste Gulbenkian, il Think Tank Europa e l’International Center for Defence and Security.
ECFR non assume posizioni collettive. Le pubblicazioni di ECFR rappresentano il punto di vista degli autori.