Vulnerabilità virale: come la pandemia sta contagiando la democrazia nei Balcani occidentali

Serbian gendarmerie officers stand guard during the funeral of Serbia’s late Patriarch Irinej, who died of COVID-19, in front of Belgrade’s St. Sava temple in Belgrade
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In breve

  • Nei paesi dei Balcani occidentali la crisi del Covid-19 ha accentuato le debolezze esistenti in materia di stato di diritto e governance democratica e non ha segnato l’inizio di una nuova era politica nella regione.
  • I governi dei Balcani occidentali hanno spesso adottato approcci selettivi e arbitrari nell’applicare misure restrittive per fare fronte alla pandemia, talvolta utilizzandole per mettere a tacere le voci critiche e gli oppositori.
  • Nel lungo periodo tali misure possono avere effetti più gravi di ogni aspetto di risposta alla crisi.
  • Tali dinamiche rappresentano una seria minaccia al processo di adesione all’UE dei Balcani occidentali: il regresso sui criteri politici.
  • L’UE sembra meno incline di una volta a chiudere un occhio sui passi indietro dei governi dei Balcani occidentali in materia di democrazia in cambio dell’allineamento geopolitico all’Unione.

Introduzione

Durante la pandemia i Paesi dei Balcani occidentali hanno registrato tassi di incidenza di Covid-19 tra i più d’Europa. Serbia, Montenegro e Macedonia del Nord sono tra i 15 Stati più colpiti del continente. Kosovo e Bosnia-Erzegovina hanno faticato molto a contenere il virus. Tutti i Paesi dei Balcani occidentali hanno imposto serie limitazioni alla vita pubblica, tra cui il coprifuoco, la chiusura di quartieri e di intere città, la chiusura di negozi e scuole e il divieto di assembramento. Tali misure sono state implementate a metà marzo 2020, per poi essere in buona parte eliminate a giugno e in parte reintrodotte a luglio quando il numero dei casi ha ricominciato a salire.

Nonostante le apparenti somiglianze, esistono in realtà differenze significative riguardo alle motivazioni che hanno spinto i vari governi ad adottare tali misure, talvolta utilizzate allo scopo di accrescere il potere dell’esecutivo limitando le libertà, minando il sistema di checks and balances e indebolendo le istituzioni indipendenti. Se l’Unione Europea ambisce a promuovere la democrazia nei Balcani occidentali e a rafforzare le proprie relazioni con gli Stati della regione, la sua politica di allargamento non potrà non tenere conto di questi cambiamenti.

Le diverse risposte dei governi dei Balcani occidentali riflettono in parte le differenze nella reazione dei cittadini alla crisi. In Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina, Albania e Kosovo si è assistito a proteste contro le autorità per le restrizioni imposte o per la gestione della crisi sanitaria. Tanto la fiducia della popolazione nei confronti del governo e dell’adozione di misure equilibrate ma efficaci quanto quella del governo nei cittadini e nella loro volontà di seguire regole semplici, come indossare le mascherine, determineranno il successo degli sforzi per contenere la prossima ondata del virus e per proteggere gli Stati dei Balcani occidentali da ulteriori danni economici. A loro volta, questi fattori influenzeranno il sostegno che l’UE dovrà fornire a questi Paesi.

Western Balkan countries that experienced protests against covid-19 measures

A dispetto delle grandi sfide poste dalla pandemia, la crisi del Covid-19 non sembra aver dato avvio a una nuova era politica nei Balcani occidentali, ma pare piuttosto aver accentuato le debolezze esistenti in materia di stato di diritto e governance democratica. La crisi ha rafforzato i governi, indebolito le funzioni legislative e di controllo dei parlamenti, limitato la libertà dei media e portato a un aumento delle violazioni della protezione dei dati personali.

Eppure, se la gestione della crisi sanitaria ha in generale aumentato la visibilità e la popolarità dei governanti in carica, non tutti i partiti al potere hanno saputo capitalizzare sulla rinnovata popolarità alle urne. Ad esempio, le elezioni del 21 giugno in Serbia e del 12 aprile in Macedonia del Nord hanno rafforzato la posizione dei partiti al potere, ma in Montenegro il voto del 30 agosto ha segnato la sconfitta del Partito Democratico dei Socialisti per la prima volta in tre decenni. In Bosnia-Erzegovina la frammentata struttura statale ha reso la gestione della crisi più impegnativa a causa dell’assenza di un’organizzazione centrale di coordinamento.[1]

A questo potrebbe fare seguito un ulteriore deterioramento politico e sociale scatenato dalla pressione economica generata dalla crisi (la Banca Mondiale prevede che l’attività economica nei Balcani occidentali si ridurrà del 4,8 per cento nel 2020). I costi sociali di questo declino sono stati amplificati dalla rilevanza del lavoro informale, del lavoro autonomo, delle rimesse e del blocco del turismo in alcune economie della regione. Di conseguenza, come sembra probabile, occorrerà prevedere un costoso sostegno economico fino al 2021, ma questo comporterebbe l’adozione di importanti misure di bilancio, politiche e sociali da parte dei governi dei Balcani occidentali. L’impegno dell’UE a mobilitare 3,3 miliardi di euro in assistenza finanziaria per far fronte alle immediate necessità umanitarie dei Balcani occidentali durante la pandemia e per sostenerne la ripresa sociale ed economica sarà fondamentale per bilanciare gli effetti economici e sociali della pandemia.

Questo documento esplora le implicazioni della crisi del Covid-19 sul processo di adesione all’UE dei Balcani occidentali. Inizialmente si concentra su due aspetti fondamentali dell’allargamento: il rispetto dei criteri politici dell’UE da parte dei Paesi candidati e l’allineamento della loro politica estera al processo. Il documento analizza l’impatto della crisi sulla governance democratica e sul rispetto dei diritti umani, in particolare in relazione all’uso di restrizioni arbitrarie o illegali nei confronti dei cittadini. La seconda metà del documento esplora come questi cambiamenti abbiano influito sulle relazioni tra l’UE e i Paesi dei Balcani occidentali, in particolare sulle prospettive di adesione dei due nuovi candidati, l’Albania e la Macedonia del Nord. L’allegato illustra alcune questioni chiave che influenzano l’orientamento della politica estera degli Stati dei Balcani occidentali e, quindi, il loro impegno verso l’integrazione nell’UE, e presenta i casi studio relativi alla caduta del governo in Kosovo e Montenegro, agli sviluppi del dialogo Belgrado-Pristina e agli sforzi della Serbia per trovare un equilibrio nelle relazioni con la Russia e con l’Occidente.

Le implicazioni a lungo termine delle misure arbitrarie

Se in alcuni Stati membri occidentali dell’UE i governi si sono inizialmente affidati al rispetto da parte dei cittadini delle restrizioni imposte contro il Covid-19, nei Balcani occidentali le misure adottate sono state particolarmente severe e paragonabili a quelle dell’Italia, uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia nella primavera del 2020. Queste misure, il cui mancato rispetto comportava ammende e persino la detenzione, hanno limitato la mobilità dei cittadini e la libertà di assembramento, eppure la maggior parte dei cittadini le ha inizialmente accettate riconoscendo che i sistemi sanitari della regione non erano preparati alla crisi.[2]

L’Albania è stato il primo Paese dei Balcani occidentali a imporre un lockdown molto rigido, che ha comportato il dispiegamento dei militari e l’introduzione del coprifuoco. Il governo albanese ha anche modificato il codice penale al fine di disporre di una base giuridica per punire le violazioni delle ordinanze di quarantena con pene detentive fino a 15 anni. In maniera analoga, il Montenegro ha imposto un lockdown sotto il controllo della polizia, minacciando sanzioni economiche e pene detentive in caso di violazioni. All’inizio di maggio 2020 la polizia montenegrina aveva già sporto denuncia contro 1.531 persone e ne aveva arrestate 753. Il governo serbo ha imposto il coprifuoco e l’obbligo di quarantena di 14-28 giorni ai cittadini di ritorno dall’estero. Le autorità della Bosnia-Erzegovina hanno introdotto il lockdown nel mese di marzo e hanno iniziato a rimuovere gradualmente le restrizioni ad aprile, pur lasciando in vigore le limitazioni agli spostamenti per gli over 65 e i minori di 18 anni, poi dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale essendo in violazione del diritto alla libertà di movimento. La Macedonia del Nord ha applicato misure simili, tra cui il coprifuoco per le festività musulmane e cristiane, la chiusura delle frontiere e la sospensione delle lezioni in presenza (un tema che è diventato importante nel dibattito pubblico con l’inizio del nuovo anno accademico).

Nella maggior parte dei casi le limitazioni alla libertà di movimento e di assembramento erano di natura temporanea e limitate a momenti in cui il tasso di infezione aumentava rapidamente. Ma, come ha dimostrato la sentenza della Corte costituzionale in Bosnia-Erzegovina, i governi hanno talvolta applicato queste misure in modo autoritario e incostituzionale, erodendo la governance democratica e lo stato di diritto.

Questa tendenza si è dimostrata particolarmente preoccupante nei Paesi in cui le istituzioni indipendenti sono troppo deboli per resistere a un’azione eccessiva da parte delle autorità. Ad esempio, in Serbia l’applicazione di misure molto severe è parsa spesso arbitraria: alcune delle persone arrestate per presunte violazioni dell’obbligo di autoisolamento non erano state informate della necessità di restare preventivamente in quarantena, una situazione che ha riguardato in particolare individui di rientro dall’estero ai quali le autorità di frontiera non avevano comunicato alcuna informazione in tal senso. Come afferma il Balkan Investigative Reporting Network, “gli arresti e le multe sono diventati una delle principali tattiche per contrastare le notizie false e le violazioni delle misure restrittive imposte da tutti i governi.”

Secondo una ricerca del Centro per i diritti umani di Belgrado, le limitazioni alla circolazione e all’interazione sociale che la Serbia ha imposto agli anziani, ai migranti e ai rifugiati nei centri di asilo e di accoglienza durante la fase di emergenza erano simili agli arresti domiciliari. Ad esempio, nelle prime settimane della crisi, le persone di età superiore ai 65 anni potevano uscire di casa solo una volta alla settimana per un massimo di 30 minuti e dal 16 marzo al 14 maggio i rifugiati e i migranti hanno potuto lasciare i centri di asilo e di accoglienza solo in circostanze eccezionali. Come ha sostenuto Ivan Cavdarevic, se la proporzionalità e la necessità di tali misure resta discutibile, la loro adozione da parte delle autorità non ha seguito la corretta procedura dal punto di vista legislativo. Le restrizioni sono infatti state attuate attraverso un decreto ministeriale anche se, secondo la costituzione, le misure che comportano una limitazione dei diritti umani richiedono un decreto governativo firmato anche dal presidente.

Più in generale, i governi dei Balcani occidentali hanno talvolta applicato tali misure senza seguire criteri trasparenti. Per esempio, in Montenegro la polizia ha chiuso un occhio su alcuni raduni pre- e post-elettorali, tra cui una manifestazione filogovernativa che ha riunito 50.000 persone il 7 settembre, ma ne ha bloccati altri, tra cui un evento dell’opposizione organizzato dalla Chiesa ortodossa serba a Podgorica il 23 agosto.

Questo approccio selettivo e arbitrario all’applicazione delle restrizioni potrebbe avere effetti più seri nel lungo periodo rispetto a qualsiasi altro aspetto di risposta alla crisi. Il processo decisionale adottato stabilisce importanti precedenti e mette a rischio il processo di ingresso dei Balcani occidentali nell’UE in quanto potrebbe indicare un regresso sui criteri politici per l’adesione. L’arbitrarietà con cui alcuni governi hanno fatto ricorso a queste misure per mettere a tacere le voci critiche e gli oppositori è certamente l’aspetto più preoccupante.

Libertà dei media

La libertà dei media, che ormai da un decennio continua a diminuire nei Balcani occidentali, ha subito un colpo particolarmente duro durante la pandemia. Ciò è dovuto alle misure di emergenza che i governi hanno introdotto per evitare il panico causato dalla diffusione di informazioni false. Sebbene tali restrizioni possano apparire giustificate data la necessità di mantenere il rispetto della legge e l’ordine, sono state tuttavia utilizzate da alcuni governi per mettere a tacere le voci critiche e limitare ulteriormente la libertà di espressione e di informazione. Come hanno recentemente dichiarato Milena Lazarevic e Marko Sosic, “la crisi viene sempre più spesso usata come scusa per fare passi indietro rispetto ai progressi compiuti fino a qui.”

Media freedom rankings in Western Balkan countries

La Serbia rappresenta l’esempio più significativo nella regione riguardo al ricorso a queste tattiche da parte delle autorità al potere, nel tentativo di assumere gradualmente un maggiore controllo sulla società e sullo stato.[3] Il partito al governo ha infatti usato la sua influenza sui media, in particolare i mezzi di comunicazione radiotelevisivi e i giornali, per centralizzare la diffusione delle informazioni sul Covid-19. Questo ha creato un ambiente ancora più ostile per i giornalisti indipendenti. A metà aprile il governo ha cominciato a organizzare conferenze stampa alle quali i giornalisti non erano autorizzati a partecipare e le domande potevano essere presentate solo per iscritto. Tali restrizioni sono state abolite una volta terminato lo stato di emergenza, ma a luglio il Ministero delle Finanze ha adottato un decreto che rischia di intimidire i media indipendenti e di mettere a tacere le voci critiche verso il governo. Con il pretesto di combattere il riciclaggio di denaro sporco e il terrorismo (piuttosto che la crisi del Covid-19), il decreto chiedeva alle banche di comunicare all’esecutivo i dati relativi alle transazioni effettuate da una serie di ONG e di individui, comprese alcune organizzazioni del settore mediatico come il Balkan Investigative Reporting Network, il Centro per il giornalismo investigativo della Serbia, il Progetto di indagine sulla corruzione e il crimine organizzato e la Scuola di Giornalismo di Novi Sad. Il portavoce della Direzione Generale Prossimità e Allargamento della Commissione Europea ha chiesto delucidazioni al governo serbo sui criteri utilizzati per la creazione di tale elenco ma, secondo l’Associazione europea degli avvocati per la democrazia e i diritti umani nel mondo, finora le autorità serbe “non sono state in grado di fornire una spiegazione conclusiva e coerente”. Questo è molto preoccupante, dato che “tali informazioni possono essere richieste solo se sussistono ragionevoli motivi per sospettare che il cliente sia coinvolto in determinati reati.”

Il governo serbo è solo uno dei tanti nei Balcani occidentali ad aver sospeso le richieste nell’ambito della libertà di informazione o ad aver reso la procedura più complicata nella pratica. Durante la fase emergenziale le autorità serbe hanno rinviato le risposte a tali richieste, vincolandole a tutti gli effetti alla buona volontà delle istituzioni statali, come ha spiegato Rodoljub Sabic, ex Commissario per le informazioni di rilevanza pubblica e la protezione dei dati personali. In Serbia, Montenegro e Kosovo i governi hanno aumentato sempre più il controllo sulle notizie relative alla pandemia, ma non sono riusciti a comunicare efficacemente al pubblico le informazioni mediche sulla base delle quali sono state adottate le restrizioni. In Bosnia-Erzegovina le comunicazioni ufficiali sulla pandemia sono state frammentate in base ai diversi livelli di governo.

Allo stesso tempo, i governi dei Balcani occidentali hanno ottenuto scarso successo nel contrasto alla diffusione della disinformazione, che al contrario si è intensificata in tutta la regione durante la crisi. Se da tempo molti osservatori internazionali evidenziano i problemi che tradizionalmente caratterizzano il panorama mediatico della regione, come la proprietà e la pluralità dei media e la qualità del giornalismo in generale, i media della regione si sono dimostrati impreparati a contrastare le fake news, che hanno subito un’impennata e potrebbero rappresentare un serio ostacolo alla gestione della pandemia. Una ricerca affidabile del 2019 collega la scarsa alfabetizzazione mediatica alla diffidenza nei confronti di scienziati e giornalisti, ma indipendentemente dalle ragioni, le teorie della cospirazione hanno avuto gioco facile e riguardano qualsiasi aspetto della malattia, dalle origini del virus alla gravità dei suoi effetti. È improbabile che i cittadini che non credono alla ricerca scientifica sul Covid-19 rispettino le misure imposte dal governo, indipendentemente dalla loro rigidità. I governi devono quindi cercare il modo di ristabilire la fiducia dell’opinione pubblica se, a loro volta, devono fare affidamento sui cittadini per il rispetto delle restrizioni.

Le multe e gli arresti da parte delle autorità serbe e montenegrine hanno riguardato anche i responsabili di post sui social media che potevano causare il panico e compromettere la sicurezza pubblica. Sebbene i governi abbiano il diritto di adottare misure volte a prevenire il diffondersi del panico, chiedere ai cittadini di verificare la veridicità delle notizie che condividono sui social media sembra una misura draconiana che limita la libertà di parola. Il governo montenegrino ha anche aumentato la pressione sui media, adottando a luglio una misura legislativa che obbligava i giornalisti, pena l’arresto, a rivelare fonti che, secondo le autorità, avevano messo in pericolo la sicurezza e la salute pubblica.

La libertà dei media e la libertà di espressione sono state sottoposte a una pressione simile anche in Bosnia-Erzegovina durante la fase di emergenza. Le autorità della Republika Srpska e della Federazione hanno fatto ricorso rispettivamente a multe e procedimenti penali contro chi, a loro giudizio, diffondeva informazioni false attraverso i media e i social network. Tali misure rappresentano una minaccia per i giornalisti e rischiano di limitare la libertà di espressione incoraggiando l’autocensura.

Nel frattempo, molti media della regione si trovano a subire una crescente pressione dal punto di vista finanziario. Questo vale soprattutto per i canali di comunicazione dell’opposizione, che generalmente non ricevono fondi pubblici per la pubblicità né cofinanziamenti da parte dei governi locali.

Violazioni della protezione dei dati personali

Il diritto alla protezione dei dati personali sembra anch’esso essere caduto vittima delle misure emergenziali nella regione. Le cartelle cliniche di pazienti affetti da Covid-19 sono state pubblicate illegalmente online in Serbia e Montenegro. Le autorità della Serbia, della Macedonia del Nord, del Montenegro e della Republika Srpska in Bosnia hanno pubblicato i nomi delle persone che hanno violato l’autoisolamento o l’obbligo di quarantena. Mentre queste violazioni della protezione dei dati personali sono avvenute in fase di lockdown, la facilità con cui alcune autorità hanno negato questi diritti ai cittadini fa pensare che potrebbe trattarsi dell’inizio di una nuova tendenza.

La minaccia al diritto alla privacy si riflette anche nel modo in cui le autorità serbe hanno lavorato con Huawei per installare una rete 5G e 1.000 telecamere di riconoscimento facciale a Belgrado nell’ambito di un progetto per la “città sicura” concepito per facilitare l’identificazione dei criminali.[4] Il sistema non è conforme alla legislazione serba sulla protezione dei dati,[5] è teoricamente fonte di rischi per la sicurezza nazionale e solleva importanti interrogativi relativamente a chi nella polizia raccoglierà, elaborerà e utilizzerà questi dati. La documentazione sull’installazione di questo sistema è stata classificata come riservata dal governo per motivi di sicurezza nazionale (per inciso, l’installazione delle telecamere ha avuto luogo durante la fase di lockdown, quando le persone erano costrette a rimanere a casa).[6] Anche la Serbia si è dedicata alla sorveglianza intercettando i dati di geolocalizzazione dei telefoni cellulari per tracciare i movimenti di persone che potevano essere state contagiate o che avrebbero dovuto essere in quarantena, ma anche in stato di emergenza tale pratica è illegale senza un ordine del tribunale.

A giugno il Ministro della Sanità macedone Venko Filipce ha dichiarato che l’unico modo per aumentare la consapevolezza sulla diffusione del virus era pubblicare un elenco di nomi di persone che avevano violato la quarantena. In seguito all’annuncio, sui giornali sono apparsi i nomi di 138 persone che avrebbero dovuto essere in autoisolamento, ma che si sono rifiutate di farlo o hanno fornito un indirizzo falso.[7] Ciò è accaduto nonostante all’epoca il governo avesse sottolineato che avrebbe fatto del suo meglio per proteggere l’identità delle persone in quarantena, soprattutto dopo aver reso disponibile un’applicazione di tracciamento per contenere il virus. Eppure, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare altrove in Europa, la reazione del pubblico non è stata particolarmente significativa.

Nel frattempo, il governo albanese si è guardato dal fare qualsiasi riferimento alla privacy in relazione alle informazioni mediche e le eventuali violazioni della privacy, se ci sono state, sono probabilmente avvenute attraverso canali non ufficiali come i social media.

Emarginazione dei Parlamenti

Se, da un lato, gli esecutivi hanno ampliato i loro poteri in tutti i Paesi dei Balcani occidentali durante la crisi sanitaria, dall’altro il controllo democratico da parte dei parlamenti e delle istituzioni indipendenti si è deteriorato, un fenomeno particolarmente evidente in alcuni Stati. Il potere di supervisione è stato largamente inefficace nella maggior parte dei Paesi della regione, a parte il Montenegro e il Kosovo. Il Parlamento della Macedonia del Nord non si è mai riunito nel periodo tra lo scioglimento del 12 febbraio e l’elezione a sorpresa del 15 luglio. Al momento delle elezioni il Presidente aveva dichiarato lo stato di emergenza per cinque volte, permettendo al governo di transizione di governare per decreto. Il Parlamento è stato di fatto estromesso per poi sciogliersi dopo aver fissato, ad aprile, una data per le elezioni.

L’emarginazione del Parlamento da parte dell’esecutivo è stata ancora più evidente in Serbia. Il Presidente Aleksandar Vucic ha dichiarato lo stato di emergenza nonostante il fatto che, secondo la costituzione, tale responsabilità ricade sui 250 membri del Parlamento, una decisione che ha creato una notevole incertezza giuridica in quanto il Parlamento è stato convocato solo 44 giorni dopo l’annuncio. Un gruppo di avvocati ha chiesto un esame della costituzionalità della dichiarazione dello stato di emergenza da parte dello speaker del Parlamento, del Primo Ministro e del Presidente, ma a maggio la Corte Costituzionale ha respinto la richiesta. Poiché una parte significativa dell’opposizione, tra cui la coalizione più ampia dell’Alleanza per la Serbia (che comprende i partiti liberali e di destra), ha boicottato le elezioni generali di giugno, i partiti al governo ora controllano più del 90 per cento dei seggi parlamentari e i restanti sono andati ai partiti di minoranza nazionale, la maggior parte dei quali sostiene il governo. Pertanto, in Parlamento manca di fatto un’opposizione. Questo rafforzerà la recente tendenza che ha portato l’opposizione politica nelle strade, come dimostrano le sempre più frequenti manifestazioni di massa a Belgrado e in altre grandi città.

In Bosnia-Erzegovina, così come in Albania, l’attività parlamentare è proseguita ma, a causa dello strapotere della coalizione al governo, si è ridotta per lo più a un’approvazione formale delle decisioni dell’esecutivo. In Albania il boicottaggio del Parlamento da parte dell’opposizione e l’atteggiamento disfunzionale della Corte costituzionale hanno permesso al governo di acquisire poteri eccessivi. In sostanza, la situazione è tale che la maggioranza parlamentare permette al governo di approvare qualsiasi misura senza incontrare praticamente alcuna resistenza.

Le eccezioni più evidenti nei Balcani occidentali sono il Montenegro e il Kosovo, i cui Parlamenti sono rimasti attivi e i cui partiti di opposizione hanno svolto un ruolo importante in vari ambiti della politica. In entrambi i Paesi il governo è caduto durante la crisi, rispettivamente attraverso un’elezione democratica e un voto di sfiducia.

Relazioni con l’UE e processo di adesione

L’UE ha espresso il proprio disagio nei confronti di queste manifestazioni di regresso democratico. La situazione ha rivelato la tensione tra la democratizzazione da una parte e la stabilità e la sicurezza sanitaria dall’altra, due obbiettivi che tuttavia non sono semplicemente in antitesi ma legati da un rapporto complesso. La pandemia non ha causato, ma ha piuttosto accelerato i processi che hanno portato alla caduta in Montenegro del governo del Partito Democratico Socialista, che era al potere da tre decenni e controllava di fatto tutte le sfere della società. L’avvento di una nuova leadership offre l’opportunità di avviare riforme a lungo attese a favore della democrazia e dello stato di diritto. Questo avviene dopo almeno un decennio di passi indietro, una tendenza che ha rappresentato il principale ostacolo all’adesione del Paese all’UE, e in un momento in cui esistono buone ragioni di credere che l’orientamento della politica estera del Paese possa scostarsi dal tradizionale allineamento con l’Occidente.

In Kosovo il governo di breve durata guidato da Vetëvendosje aveva una forte legittimità democratica, ma ha dovuto affrontare le critiche di una grande potenza occidentale nei confronti delle sue propensioni geopolitiche. L’amministrazione Trump ha infatti condannato l’approccio di Vetëvendosje al dialogo Belgrado-Pristina, sostenendo tacitamente un voto di sfiducia scatenato da una crisi all’interno della coalizione riguardo alla gestione della pandemia, che ha messo fine al suo mandato.

La competizione geopolitica attraverso gli aiuti

La crisi del Covid-19 sembra aver accelerato il deterioramento delle relazioni tra l’UE e la Serbia di Vucic. Questo è testimoniato dal fatto che l’Unione non ha permesso alla Serbia di aprire quest’anno un nuovo capitolo nel processo di adesione.

I leader politici serbi e i media filogovernativi sono stati oggetto delle critiche degli analisti internazionali per aver dato grande rilievo agli aiuti russi e cinesi contro la pandemia e per aver condannato al contempo la reazione inizialmente lenta dell’UE alla crisi. La Cina è stata la prima potenza straniera a venire in aiuto della Serbia inviando a Belgrado, a metà marzo, i kit per i test appena due giorni dopo che la Commissione Europea aveva iniziato ad agire per limitare la vendita di attrezzature mediche al di fuori dell’UE. Questo spiega in qualche modo la dura dichiarazione di Vucic del 15 marzo: “La solidarietà europea non esiste. È una favola ed è scritta sulla carta. Ho inviato una lettera agli unici che ci possono veramente aiutare, ovvero i cinesi.”[8] Il Ministro degli Esteri serbo si è unito ai suoi omologhi degli altri Paesi dei Balcani occidentali per chiedere all’UE di eliminare queste restrizioni, cosa che è avvenuta alla fine di aprile. Come i serbi, i cittadini della Bosnia-Erzegovina sono rimasti sconvolti dalla decisione di bloccare le esportazioni di materiale sanitario verso i Balcani occidentali, come ha dichiarato Adnan Huskic.

I sei Paesi dei Balcani occidentali hanno espresso la comune preoccupazione per le restrizioni dell’UE in una lettera pubblica firmata congiuntamente dai rispettivi Ministri degli Esteri. L’episodio ha inferto un duro colpo all’immagine dell’Unione Europea nella regione, dando l’impressione che gli Stati in via di adesione non appartengano realmente al club, e ha contribuito a fare sì che la Serbia non fosse l’unico Paese dei Balcani occidentali a dare maggiore risalto mediatico agli aiuti di Russia, Cina e Turchia rispetto a quelli dell’UE.[9]

La Portavoce della Commissione Europea Ana Pisonero ha tentato di rassicurare Vucic sul fatto che l’UE stesse cercando un modo per includere i Paesi dei Balcani occidentali nelle iniziative europee contro la pandemia. Infatti, il 20 marzo l’UE ha concesso 7,5 milioni di euro alla Serbia in aiuti per l’emergenza e ha fornito al Paese attrezzature mediche per un valore stimato in 50 milioni di euro nell’ambito del Meccanismo di protezione civile. All’inizio di aprile, attraverso lo Strumento di assistenza preadesione 2014-2020, la Serbia ha ricevuto 93,4 milioni di euro dall’UE per le necessità sanitarie più urgenti e per la ripresa economica e sociale, e ulteriori 4,9 milioni di euro per l’acquisto di respiratori, kit per i test e attrezzature da laboratorio. Alla fine di aprile, la Commissione Europea ha annunciato che avrebbe collaborato con la Banca Europea per gli Investimenti per fornire più di 3,3 miliardi di euro di sostegno finanziario ai sei Paesi dei Balcani occidentali.

Per fare un confronto, la Cina ha offerto alla Serbia una donazione per la costruzione di due laboratori che in totale potrebbero gestire fino a 3.000 test al giorno e la Russia ha inviato 3.000 set di dispositivi di protezione. Eppure, nei primi due mesi della pandemia, le notizie dei media serbi sull’Unione Europea sono rimaste contrastanti e, anche se i toni si erano lievemente addolciti, Russia e Cina continuavano a riscuotere grandi consensi, spesso accompagnati da riferimenti all’amicizia e alla fratellanza. Il Montenegro, l’Albania e la Macedonia del Nord non hanno seguito l’esempio serbo e sono restati allineati su posizioni filo-europee senza trionfalismi relativamente agli aiuti ricevuti da parti terze.

Questo suggerisce che l’UE, in quanto di fatto principale donatore della regione, dovrebbe cercare di mettere a frutto tale vantaggio in vari modi. Cosa ancora più importante, l’UE dovrebbe migliorare la propria strategia di comunicazione per rendere più visibili i significativi contributi ai cittadini della regione. Questo contribuirebbe ad alleviare il senso di stanchezza nei confronti delle riforme richieste dall’UE, ormai evidente in tutti i Paesi candidati.

Migrazione e credibilità dell’UE

La credibilità dell’UE ha subito un duro colpo anche in Bosnia-Erzegovina con riferimento alle politiche migratorie. La situazione dei migranti e dei rifugiati bloccati in Bosnia sulla strada verso l’UE sembrava già insostenibile prima della crisi del Covid-19 ed è notevolmente peggiorata durante la pandemia. Da gennaio 2018 sono quasi 60.000 i migranti e i rifugiati arrivati in Bosnia-Erzegovina dalla Grecia. Di questi, tra 6.500 e 7.000 sono bloccati nel Paese, in buona parte nella zona di confine tra il cantone di Una-Sana della Federazione e la Republika Srpska. Solo la metà circa risiede in centri di accoglienza, mentre gli altri dormono all’addiaccio. Tale situazione ha portato a un aumento della tensione tra la popolazione locale. Il Ministro per la Sicurezza della Bosnia-Erzegovina si è dimesso a causa della gestione della crisi da parte del governo, esacerbata dalle restrizioni anti-Covid alla libera circolazione dei migranti e dei rifugiati, nonché a seguito dei casi di positività rilevati in alcuni campi in cui risiedono. Le autorità non hanno garantito ai migranti e ai rifugiati il diritto d’asilo a causa di importanti ostacoli istituzionali e del fatto che i centri di accoglienza non sono riconosciuti come indirizzi di residenza validi per le domande di asilo, il che imprigiona i richiedenti in un limbo giuridico. Allo stesso tempo, la Croazia è stata accusata di respingere con violenza i migranti in arrivo dalla Bosnia-Erzegovina, in quella che sembra essere una chiara violazione delle norme internazionali sul non-respingimento. La mano pesante della Croazia sembra comunque aver incontrato la tacita approvazione di altri Stati membri dell’UE, nonostante le segnalazioni di Amnesty International e di Human Rights Watch che denunciano in dettaglio le presunte violenze. A novembre, a seguito di una segnalazione di Amnesty International, l’Ombudsman dell’UE ha avviato un’indagine per verificare l’operato della Commissione Europea nel garantire il rispetto dei diritti dei migranti e dei rifugiati da parte della Croazia.

Dall’inizio del 2018 l’UE ha fornito alla Bosnia-Erzegovina assistenza in materia di migrazione per circa 36 milioni di euro, ma la rabbia e la frustrazione dell’opinione pubblica nei confronti di Bruxelles sono cresciute, alimentate dalla percezione che l’Unione stia utilizzando il Paese come zona cuscinetto. Inoltre la situazione è resa più complessa dal fatto che la Grecia, in quanto membro dell’UE, avrebbe dovuto gestire le richieste di asilo di molti migranti e rifugiati prima che arrivassero in Bosnia-Erzegovina.

Progressi limitati verso l’adesione

Le battute d’arresto sul percorso verso l’adesione sono state meno evidenti in Montenegro, Macedonia del Nord e Albania, dove si sono registrati invece alcuni progressi. Il Montenegro ha avviato l’ultimo capitolo negoziale sulla concorrenza alla fine di giugno (anche se la velocità dei restanti colloqui dipenderà in gran parte dall’approccio del nuovo governo). Dopo la scioccante decisione di veto del governo francese nell’ottobre 2019, a marzo gli Stati membri dell’UE hanno finalmente dato il nulla osta ai negoziati per l’adesione di Macedonia del Nord e Albania. Nella riunione del Consiglio Affari Generali del 17 novembre 2020 i due Paesi non hanno ricevuto conferma sul quadro negoziale, in quanto, da un lato, la Bulgaria si opponeva all’ingresso della Macedonia del Nord in virtù di questioni bilaterali e, dall’altro, i Paesi Bassi ritenevano insufficienti i progressi dell’Albania in materia di stato di diritto.

Durante l’estate sia l’Albania che la Macedonia del Nord hanno partecipato ad iniziative di integrazione regionale allo scopo di dare impulso all’apertura del processo di adesione. Per esempio, il piano del Primo Ministro albanese Edi Rama di creare una mini area Schengen nei Balcani occidentali si sta sviluppando più velocemente di quanto ci si potesse aspettare: il Kosovo ha accettato di partecipare nell’ambito dell’Accordo sul dialogo con la Serbia, firmato recentemente a Washington. Il piano di Rama creerebbe un mercato unico che riunirebbe la Serbia, l’Albania, la Macedonia del Nord e il Kosovo, facilitando al tempo stesso il movimento di merci e persone attraverso l’uso della carta d’identità invece che del passaporto.

Tuttavia, la mini area Schengen può integrare ma non sostituire l’adesione e il Processo di Berlino, poiché la creazione delle strutture e delle istituzioni necessarie non avrebbe grande utilità se non in vista di un’adesione all’UE. Al vertice del Processo di Berlino, presieduto congiuntamente da Sofia e Skopje all’inizio di novembre, i leader dei Paesi balcanici hanno firmato due dichiarazioni di cui una sul Mercato comune regionale, che li preparerà a entrare nel mercato unico dell’UE, e l’altra a conferma dell’impegno della regione a rispettare il Green Deal europeo. Queste dichiarazioni offrono ai leader regionali l’opportunità di dimostrare di possedere sia la capacità di costruire strutture che saranno utili nel processo di allargamento e oltre, sia la lungimiranza di ristrutturare vari settori economici e quindi di attrarre investimenti.

Non è chiaro se la mini area Schengen avrà un ruolo nella campagna per le elezioni parlamentari del 2021 in Albania. Il Primo Ministro Edi Rama potrà tentare di sfruttare la questione per dare un’’immagine di sé in quanto leader lungimirante attento alla cooperazione internazionale, simile a quella del Primo Ministro macedone Zoran Zaev.

Nel frattempo, l’Unione Socialdemocratica di Macedonia (SDSM) al potere ha inserito la creazione del Forum di Prespa nel suo nuovo programma politico. Finanziato dallo Strumento di assistenza preadesione dell’UE, nelle parole del governo il progetto mira a creare “una sorta di forum internazionale per il dialogo, la cooperazione e la risoluzione di questioni internazionali che, sulla scorta del successo storico dell’Accordo di Prespa, servirebbe da ispirazione alle generazioni future per superare le differenze e risolvere i problemi esistenti.”

Nonostante si siano impegnati in queste iniziative di cooperazione regionale, i governi dei Paesi candidati all’adesione devono rimanere concentrati sull’arduo processo di adeguamento al quadro negoziale dell’UE. Ciò è più vero che mai sullo sfondo della pandemia, poiché esiste il rischio che il processo in cui sono impegnati possa essere accantonato e possa subire ulteriori ritardi. Gli sforzi per stabilire relazioni di buon vicinato segnalano la volontà di impegnarsi in una più profonda integrazione, ma i benefici di tale integrazione si potranno mantenere solo costruendo e rafforzando istituzioni conformi agli standard dell’UE che vadano oltre le iniziative regionali.

Il ruolo chiave della Bulgaria

A partire dalla firma del Trattato di amicizia, buon vicinato e cooperazione con la Macedonia del Nord nel 2017 e dall’assunzione della presidenza del Consiglio dell’UE nel 2018, la Bulgaria ha continuato a costruirsi l’immagine di modello virtuoso regionale per l’adesione all’UE. Il Paese si è posizionato all’interno dell’UE come Stato membro disposto ad assumersi la piena responsabilità del processo e a rassicurare almeno alcuni dei Paesi della regione sul fatto che qualcuno è disposto a prendersi cura di loro e a garantire l’avanzamento del processo.

Inoltre, la Bulgaria e la Macedonia del Nord hanno guidato congiuntamente il processo di Berlino per tutto il 2020 ed è stata la prima volta che ciò accadeva per uno Stato membro e un Paese candidato. Per questo motivo la recente decisione di bloccare i negoziati con la Macedonia del Nord è sembrata una nota stonata.

A settembre uno dei partiti della coalizione al governo in Bulgaria, l’Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone – Movimento Nazionale Bulgaro (VMRO-BND), ha dichiarato che la Macedonia del Nord era venuta meno al rispetto del trattato del 2017. Dopo alcuni accesi scambi tra i leader dei due Paesi, la Bulgaria ha impedito alla Macedonia del Nord di fissare quest’anno una data per la conferenza intergovernativa che avvierà il processo di adesione. Sofia vuole che Skopje riconosca le radici bulgare della lingua macedone, che dichiari che la denominazione “Macedonia del Nord” si riferisce al territorio della Repubblica della Macedonia del Nord, che rinunci a qualsiasi rivendicazione sulla minoranza macedone in Bulgaria e che metta fine alla retorica anti bulgara.

Se entrambe le parti hanno qualche responsabilità nella controversia, il comportamento che offende Sofia arriva perlopiù dall’opposizione macedone, che sta ancora raccogliendo i cocci dopo aver perso tre elezioni consecutive. Ciononostante, i principali partiti di estrema destra in Bulgaria e in Macedonia del Nord si divertono ad alimentare le polemiche sulle questioni di identità nazionale e a darsi contro nell’imminenza delle elezioni anche se, ironia della sorte, i loro nomi derivano storicamente dalla stessa fonte, l’Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone (VMRO). Sulla scia delle proteste antigovernative in Bulgaria, il VMRO-BND contava poco più della soglia minima di preferenze per assicurarsi una presenza in Parlamento. Nella Macedonia del Nord, dopo aver perso di poco le elezioni di luglio a vantaggio dell’SDSM, il VMRO-DPMNE ha cercato di delegittimare il governo in vari modi. Per questi motivi, il VMRO-BND e il VMRO-DPMNE tentano ora di guadagnare sostegno popolare attraverso dichiarazioni roboanti sull’identità nazionale e la seconda si è spinta fino a organizzare una protesta sulle questioni più controverse.

Un recente sondaggio dell’opinione pubblica ha rilevato che più dell’80 per cento dei bulgari non sosterrebbe l’adesione all’UE della Macedonia del Nord se il Paese non sarà disposto a soddisfare le condizioni imposte da Sofia sulle controversie storiche. Nel 2019 solo il 15 per cento dei bulgari aveva un atteggiamento negativo nei confronti del riconoscimento della storia moderna della Macedonia del Nord e diversi personaggi pubblici in Bulgaria hanno cercato di impedire il veto. Nelle settimane precedenti la riunione del Consiglio Affari Generali, un gruppo di studiosi bulgari e macedoni ha inviato una lettera aperta ai Primi Ministri dei due Paesi esortandoli a risolvere la questione, mentre gli analisti politici in Bulgaria hanno cercato di sottolineare i vantaggi della cooperazione. Eppure gli attacchi si sono intensificati da entrambe le parti, arrivando alla decisione di porre il veto. Nei giorni successivi le due parti sembravano voler proseguire le trattative sulla controversia, con l’obiettivo di risolvere alcuni dei punti di disaccordo, ma la tensione non sembrava allentarsi. Se Borisov intende ottenere un altro mandato alle elezioni di aprile, potrebbe dover assumere una linea più morbida per compiacere Bruxelles o sposare pienamente un approccio populista-nazionalista.

La Bulgaria rischia di vanificare gli sforzi fatti per crearsi l’immagine di paladina dell’integrazione regionale non solo nei Balcani occidentali, ma anche nell’UE. Altri Stati membri dell’UE sono contrari a inserire questioni bilaterali nel quadro dei negoziati di adesione, convinti che non ci sia posto al tavolo dei negoziati per Stati membri che intendono sfruttare l’asimmetria di potere rispetto ai Paesi candidati. Al tempo stesso, gli Stati membri più riluttanti a completare il processo di adesione dei Balcani occidentali, come i Paesi Bassi e la Danimarca, non dovrebbero gongolare per il veto bulgaro, motivato da preoccupazioni nazionalistiche e non da questioni legate alle condizioni di adesione all’UE, come i progressi sullo stato di diritto. Tutto questo indica che il successo della presidenza tedesca dell’UE è appeso a un filo, dopo essere stato sabotato prima dall’Ungheria e dalla Polonia sull’approvazione del Recovery Fund e sul nuovo bilancio europeo, e poi dalla Bulgaria con il veto. In occasione della prossima riunione del Consiglio Affari Generali fissata per i primi di dicembre, la Bulgaria e la Macedonia del Nord dovrebbero cercare di raggiungere un accordo e di salvare ciò che resta dei progressi compiuti negli ultimi tre anni. La Germania può svolgere un ruolo decisivo in questo senso, ricordando ai due Paesi i vantaggi di un futuro comune nell’UE. Una Macedonia del Nord stabile e integrata darebbe alla Bulgaria molte opportunità di cooperazione economica e politica.

La Bulgaria non vuole assumere un ruolo simile alla Grecia nella lunga disputa sul nome della Macedonia del Nord e il Primo Ministro bulgaro Boyko Borissov ha più da guadagnare rispetto al suo omologo nella coalizione nel mostrarsi un leader determinato in questo momento.

La Macedonia del Nord dovrebbe essere paziente, poiché le elezioni parlamentari di aprile2021 in Bulgaria potrebbero contribuire a trovare una soluzione (magari attraverso un allegato o comunque un’aggiunta al trattato del 2017). Nel frattempo, i politici non dovrebbero mettere al centro della controversia il comitato storico congiunto della Bulgaria e della Macedonia del Nord, poiché l’organizzazione ha ripreso il suo lavoro e il processo è delicato e richiede tempo.

L’attuale situazione di stallo dimostra la necessità di slegare le controversie bilaterali dal processo di adesione. Tali disaccordi, che non si limitano a quelli tra Sofia e Skopje, fiaccano la volontà politica di concentrarsi sull’essenza del processo negoziale ovunque, tra i leader e le amministrazioni locali come negli Stati membri e nella Commissione europea. A causa dei recenti sviluppi, è improbabile che l’allargamento segua un processo lineare. Esso richiederà un impegno sostenuto sia da parte dell’UE che dei Paesi candidati, nonché iniziative sostanziali come incontri intergovernativi e sforzi volti ad attuare il programma di riforma.

Di certo sembra improbabile che la Macedonia del Nord organizzi le elezioni in tempi brevi, come ha fatto dopo il veto dei negoziati nel 2019. Alcune delle richieste della Bulgaria sarebbero inaccettabili per qualsiasi governo e non accendono come un tempo gli animi dei macedoni quanto i negoziati sul nome del loro Paese. Una volta che le parti avranno risolto questi problemi e fissato una data per la conferenza intergovernativa, il Vice Primo Ministro macedone per gli Affari europei Nikola Dimitrov guiderà il proprio Paese attraverso i negoziati. A tal fine, dovrà assicurarsi che il suo ministero sviluppi le competenze necessarie per affrontare le questioni relative all’adesione e stabilisca forti legami con altri ministeri, assicurando in tal modo un’agevole adozione dell’acquis comunitario. Il governo di Skopje dovrebbe impegnarsi, come proposto, a fare affidamento sulle organizzazioni della società civile per beneficiare della loro esperienza riguardo ai singoli capitoli di adesione.[10]

La riforma giudiziaria ed elettorale in Albania

Sebbene l’UE sia pronta ad avviare i negoziati con l’Albania, il Paese deve ancora soddisfare diversi requisiti di adesione relativi alle procedure elettorali e al sistema giudiziario. Il complesso processo di controllo del sistema giudiziario ha reso difficile per le corti costituzionali, le alte corti d’appello e le corti d’appello dell’Albania pronunciarsi su questioni di ogni tipo. L’UE e l’Albania dovrebbero cercare una soluzione reciprocamente accettabile per migliorare le capacità del sistema giudiziario, consentendo di riprendere il lavoro in ambito nazionale e di portare avanti, in parallelo, il processo di adesione.

Nel frattempo, per diversi mesi le principali forze politiche del Paese, il Partito Socialista al potere e il Partito Democratico e il Movimento Socialista per l’Integrazione all’opposizione, hanno lavorato a un accordo sulla riforma elettorale sotto l’egida dell’UE, del Regno Unito e degli Stati Uniti. I loro sforzi sono culminati in un accordo congiunto tra i partiti all’inizio di giugno ma, poche settimane dopo, il Parlamento (in cui il Partito Socialista ha la maggioranza) ha adottato modifiche alla costituzione che vanno ben oltre i requisiti elettorali proposti dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Il 5 ottobre il Parlamento ha votato a favore delle modifiche. Tuttavia, nei mesi precedenti l’opposizione ha sostenuto che le modifiche apportate dal partito al potere erano in contrasto con l’accordo congiunto. L’attuazione della riforma elettorale rimane una delle due priorità principali per poter fissare una data per la conferenza intergovernativa (l’altra è il processo di controllo) e il Ministro di Stato tedesco per l’Europa Michael Roth ha incoraggiato l’Albania a lavorare per raggiungere questi obiettivi entro la fine dell’anno (un processo per il quale mancava una scadenza prima dell’ultima riunione del Consiglio Affari Generali). Se questi cambiamenti dovessero avvenire, richiederebbero un grande impegno istituzionale in vista delle prossime elezioni parlamentari, previste per aprile 2021. Inoltre, ogni sforzo relativo a soddisfare i prerequisiti è attentamente monitorato dagli Stati membri scettici come i Paesi Bassi. È improbabile che gli olandesi si accontentino di riforme che sembrano solo intese a mettere la spunta alle caselle giuste.

Il malcontento si è diffuso nel Paese per tutta la durata del mandato di Rama. Nonostante l’iniziale approvazione delle misure del governo per combattere il Covid-19, gli albanesi hanno pesantemente criticato la gestione della pandemia nel suo complesso, ma l’opposizione ha deciso di lasciare il Parlamento nel 2019 e da allora ha fatto ben poco, contribuendo a consolidare la percezione che le istituzioni albanesi siano disfunzionali. Resta da vedere se, dopo le elezioni, i due partiti troveranno un terreno comune sulle pressanti questioni poste dalle precondizioni dell’adesione all’UE.

L’equilibrio tra democratizzazione e stabilità

Il veto imposto dalla Francia ai colloqui di adesione dell’Albania e della Macedonia del Nord lo scorso anno ha attirato l’attenzione sulla persistente tensione all’interno della politica di allargamento tra il perseguimento delle riforme democratiche e gli sforzi per promuovere la stabilità. L’episodio ha mostrato l’insostenibilità di scendere a compromessi sugli obiettivi di democratizzazione per mantenere la pace e la sicurezza e ha anche focalizzato l’attenzione dell’UE sull’importanza delle riforme interne dei Paesi candidati come strumento per sostenere i progressi verso l’adesione.

Oggi l’UE sembra meno incline di una volta a chiudere un occhio se i governi dei Balcani occidentali fanno passi indietro sul percorso democratico solo perché si allineano all’Unione dal punto di vista geopolitico. Questo spiega il rifiuto dell’UE di aprire quest’anno un nuovo capitolo dei negoziati di adesione con la Serbia e la grande attenzione dedicata alla riforma elettorale e giudiziaria in Albania.

L’UE ha dimostrato di essere in grado di utilizzare la prospettiva dell’integrazione euro-atlantica per fare pressione sui governi dei Balcani occidentali affinché adottino posizioni in politica estera impopolari a livello nazionale, come l’adesione del Montenegro alla NATO e i compromessi della Serbia con il Kosovo, ma è improbabile che l’UE ottenga lo stesso successo sulle riforme interne in Paesi in mano a governi autoritari. Lo suggeriscono gli eventi nella Macedonia del Nord, il cui processo di democratizzazione è ripreso solo quando la coalizione guidata dall’SDSM è salita al potere nel 2017. Il Montenegro rappresenta un altro caso in cui un nuovo governo potrebbe dare slancio alle riforme interne, mentre in Kosovo il governo di Vetëvendosje ha offerto la prima opportunità di combattere la corruzione e rafforzare lo stato di diritto, anche se non è stato al potere abbastanza a lungo da fare la differenza.

L’UE dovrebbe accogliere con favore i cambiamenti politici che promettono una maggiore democrazia e il rispetto dello stato di diritto, pur continuando a fare pressione sui governi di tutta la regione affinché facciano progressi su questi temi. Questo è l’unico modo per bilanciare il regresso democratico che ha subito un’impennata durante la crisi del Covid-19. Gli esempi della Macedonia del Nord e potenzialmente del Montenegro dovrebbero segnalare agli altri Stati dei Balcani occidentali che l’adesione è possibile solo se si impegnano in una trasformazione democratica.

In linea di principio, tutti i Paesi dei Balcani occidentali sono impegnati a raggiungere l’integrazione nell’UE, tuttavia sembra che manchi ovunque un vero impegno verso il processo di adesione tranne che nella Macedonia del Nord, l’unico Paese in cui la democrazia ha fatto concreti passi avanti negli ultimi due o tre anni. Il lungo processo di allargamento dell’UE, la stanchezza per le riforme e la parziale perdita di credibilità dell’UE sono alla base di questa mancanza di entusiasmo. Gli errori commessi dall’UE sugli aiuti, soprattutto nei primi mesi della crisi del Covid-19, hanno dimostrato che occorre concentrarsi maggiormente sui rapporti di causa-effetto e sulla comunicazione, rivelando al contempo la dolorosa disillusione nei confronti dell’UE di alcuni Paesi dei Balcani occidentali. In Kosovo la prolungata sospensione del programma di liberalizzazione dei visti da parte dell’UE senza alcun valido motivo è stata un disastro per le pubbliche relazioni. A meno che il programma, che è stato approvato dalla Commissione Europea, venga ripristinato, l’UE non sarà in grado di rimediare alla perdita reputazionale nel Paese (come ha sostenuto il rappresentante speciale dell’UE Miroslav Lajcák).

In questo contesto, le recenti mosse della Serbia per cercare di migliorare i rapporti con gli Stati Uniti e la NATO potrebbero essere segnali incoraggianti del fatto che il Paese è disposto a prendere le distanze dalla Russia, a rafforzare i partenariati occidentali e forse anche a risolvere la disputa con il Kosovo. Tuttavia, indipendentemente dalle intenzioni di Vucic, un accordo definitivo tra Serbia e Kosovo non sembra essere in vista, anche a causa dell’attuale situazione politica del Kosovo. Allo stesso tempo, è probabile che questi Paesi continuino i negoziati su questioni pratiche come le controversie sulla proprietà pubblica e privata, nonché sull’autonomia territoriale serba. Risolvendo tali problemi, che sono cruciali per una soluzione duratura, ci si potrebbe finalmente avvicinare a un accordo definitivo.

Raccomandazioni

L’UE non dovrebbe permettere all’orientamento geopolitico di governi autoritari di influenzare l’andamento del processo di adesione, né in senso positivo né in senso negativo. Ad esempio, la Commissione Europea e il Consiglio Europeo dovrebbero sostenere il nuovo governo montenegrino nello sforzo di riforma a condizione che esso rimanga realmente impegnato in una trasformazione democratica. Continuare a sostenere gli autocrati comprometterebbe la credibilità dell’UE e rafforzerebbe le argomentazioni contro l’integrazione.

L’Unione e i suoi partner nei Balcani occidentali possono trovare il giusto equilibrio adottando i seguenti approcci:

  • La Commissione Europea dovrebbe continuare ad aiutare l’Albania e la Macedonia del Nord a completare il processo di valutazione preadesione, in parte imparando dalle difficoltà incontrate con Tirana su questioni come la riforma giudiziaria.
  • La Commissione Europea dovrebbe fornire un’assistenza mirata ai media indipendenti e alle organizzazioni della società civile nei Paesi dei Balcani occidentali, soprattutto se governati da regimi autocratici dove la maggior parte dei media è controllata dal governo.
  • I leader nazionali nei Balcani occidentali dovrebbero utilizzare il quadro di adesione rinegoziato per gettare le basi di cambiamenti sostenibili in relazione allo stato di diritto. Ciò migliorerebbe la fiducia dell’opinione pubblica nel governo, consentendo al tempo stesso ulteriori riforme e progressi verso l’adesione.
  • I singoli Stati membri dell’UE dovrebbero astenersi dal porre il veto al processo di allargamento, come spesso hanno fatto negli ultimi tempi. Solitamente dettati da considerazioni di politica interna da parte degli Stati membri, questi veti rendono il processo imprevedibile, incoerente e poco credibile. In particolare, i vicini europei dei Paesi candidati dei Balcani occidentali dovrebbero evitare di ricorrere a strumenti così drastici, perché sono tra coloro che beneficeranno maggiormente del processo di adesione nella regione.
  • La Commissione Europea, insieme al responsabile della politica estera dell’UE, dovrebbe continuare a promuovere la cooperazione all’interno dei Balcani occidentali e tra la regione e gli Stati membri limitrofi. Ad esempio, il sostegno espresso da Vucic per una mini area Schengen potrebbe fornire l’opportunità di smantellare le barriere esistenti al commercio e agli spostamenti, soprattutto a beneficio dei cittadini del Kosovo. L’UE dovrebbe inserire questi sforzi nel quadro più ampio dell’integrazione europea, dato che le istituzioni e i meccanismi che li facilitano sono legati a iniziative come il Processo di Berlino.
  • Il Consiglio Europeo dovrebbe concedere la liberalizzazione dei visti al Kosovo, un passo fondamentale per ripristinare la fiducia del Paese nell’UE. In caso contrario, sembra improbabile che il Paese accetti l’UE come mediatore onesto nel dialogo Belgrado-Pristina, continuando invece a cercare il coinvolgimento degli Stati Uniti. Con la liberalizzazione dei visti per il Kosovo l’UE migliorerebbe la sua immagine di partner che mantiene le sue promesse.
  • L’UE, guidata dalla Commissione Europea e da Stati membri influenti come la Germania, dovrebbe sollecitare i cinque Stati membri che non riconoscono la sovranità del Kosovo a rivedere la loro posizione sulla questione. Ciò aiuterebbe il Kosovo a rafforzare il suo status internazionale e quindi a impegnarsi in una maggiore cooperazione internazionale, anche attraverso istituzioni multilaterali.
  • La Commissione Europea dovrebbe prendere in considerazione l’inclusione dei Balcani occidentali nelle politiche sulla libera circolazione e la gestione delle crisi durante la pandemia. Mentre alcuni potrebbero sostenere che si tratta di un beneficio riservato agli Stati membri, questo tipo di solidarietà contribuirebbe a creare un’immagine positiva dell’UE nella regione.
  • La Commissione Europea dovrebbe migliorare la comunicazione pubblica sull’assistenza finanziaria e sugli altri benefici che fornisce ai cittadini dei Balcani occidentali, mirando a bilanciare parte delle critiche sollevate dalla stampa e da alcuni media della regione. La Commissione deve dare maggiore rilievo ai numerosi casi in cui ha distribuito pacchetti di aiuti alle famiglie bisognose della regione, anche arricchendo i comunicati stampa con foto, interviste e altri strumenti promozionali.
  • L’UE, intesa tanto come singoli Stati membri quanto come Commissione Europea, dovrebbe affrontare la situazione precaria dei migranti e dei rifugiati in Bosnia-Erzegovina fornendo più di un semplice aiuto finanziario. L’Unione potrebbe offrire a queste persone l’opportunità di chiedere asilo in UE, un’iniziativa che sarebbe legittimata dal precedente passaggio attraverso uno Stato membro.

Allegato: Casi studio

L’inatteso cambio di governo in Montenegro

Tra dicembre 2019 e agosto 2020 il governo montenegrino si è trovato coinvolto in un confronto con la Chiesa ortodossa serba (SOC) in relazione a una nuova legge sulle proprietà ecclesiastiche. Le turbolenze politiche create dalla legge, che avrebbe di fatto trasferito allo Stato la proprietà della maggior parte dei beni della SOC in Montenegro, hanno contribuito in modo significativo alla sconfitta del Partito Democratico dei Socialisti (DPS) alle elezioni politiche di agosto.[11] Le proteste di piazza organizzate dalla chiesa e dai suoi sostenitori hanno attirato decine di migliaia di persone e sono durate fino a metà marzo, quando il governo ha imposto restrizioni alla libertà di movimento in risposta alla crisi del Covid-19.

In questo senso, la pandemia sembrava avvantaggiare il governo, ma le grandi processioni ecclesiastiche sono riprese a metà maggio, questa volta in violazione delle restrizioni. Le autorità hanno risposto imponendo misure severe che hanno portato all’arresto di un vescovo e di diversi sacerdoti. In questa controversia l’opposizione si è schierata con la chiesa riconoscendo che gli sforzi del governo per sfidare la potente SOC erano da considerarsi un attacco alla comunità serba in Montenegro. Eppure, nonostante il difficile contesto, le elezioni di agosto hanno sancito una vittoria a sorpresa per la politica democratica, visto “l’indebito vantaggio del partito al governo attraverso l’uso improprio delle risorse statali e di posizioni di rilievo e la copertura mediatica dominante”, come ha affermato la missione internazionale di osservazione elettorale dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.

Allo stesso tempo, l’avvicendamento al vertice ha sollevato domande sul futuro della politica estera montenegrina, in quanto il DPS e il suo leader, il presidente Milo Dukanovic, seguivano generalmente un orientamento euro-atlantico, mentre i tre blocchi di opposizione che hanno formato la nuova coalizione ora al potere sono composti da partiti con profili e priorità variegate. Il Fronte Democratico Pro-Serbo, che guida l’alleanza “Per il futuro del Montenegro”, ha forti legami con la Russia e si è opposto all’adesione del Montenegro alla NATO. L’alleanza ha conquistato 27 seggi parlamentari facendo meglio di entrambi i propri partner nella coalizione, ovvero il “Movimento Nero su Bianco” liberale e  pro-UE guidato da un carismatico politico di etnia albanese, Dritan Abazovic, e l’alleanza “La Pace è la nostra nazione”, un gruppo filoserbo più moderato, di orientamento civico, composto dal Partito Democratico, da Demos e da diversi partiti minori.[12] Tale coalizione controlla collettivamente 41 seggi parlamentari, mentre i restanti 40 sono detenuti dal DPS e dai suoi partner più piccoli.

Riguardo alla posizione geopolitica del Montenegro, i tre leader della coalizione vittoriosa hanno dichiarato in diverse occasioni che manterranno l’orientamento euro-atlantico del Paese e che rispetteranno gli impegni internazionali, compresi quelli verso la NATO e l’integrazione nell’UE. In effetti, tali impegni sono menzionati nell’accordo di coalizione. Ciononostante, esiste il rischio che il nuovo governo possa effettivamente minare il rispetto degli obblighi verso la NATO dall’interno dell’Alleanza Atlantica. Alcuni leader del Fronte Democratico si sono lamentati di non essere stati consultati sul contenuto dell’accordo di coalizione prima di firmarlo e le precedenti dichiarazioni del Fronte Democratico sull’appartenenza alla NATO sono in netto contrasto con l’accordo.

Diversi leader politici dei Paesi vicini temono che la nuova coalizione rilanci il nazionalismo irredentista della “Grande Serbia”. Di conseguenza, prima delle elezioni, il DPS ha ricevuto promesse di sostegno dal Primo Ministro albanese Edi Rama, dall’ex Presidente del Kosovo Hashim Thaci e dal Primo Ministro macedone Zoran Zaev. Un sostegno analogo è arrivato anche da Zeljko Komsic, il membro croato della presidenza bosniaca, e dal Gran Muftì Husein Kavazovic, capo della comunità islamica in Bosnia-Erzegovina.

Anche se è difficile prevedere come si comporterà il nuovo governo, dato che ancora non si è costituito, il rapporto del Montenegro con la Serbia pare destinato a migliorare. Diversi politici serbi, tra cui il Presidente Aleksandar Vucic, si sono espressi contro l’arresto dei sacerdoti ortodossi durante le proteste di maggio. Ciò ha dato origine a una controversia più ampia che ha coinvolto il Ministero degli Esteri montenegrino. A giugno il Montenegro ha riaperto i confini con tutti i Paesi limitrofi a parte la Serbia, una mossa che Belgrado ha percepito come un gesto ostile. La coalizione vincitrice ha promesso di abrogare la legge sulle proprietà della chiesa, eppure il Primo Ministro designato Zdravko Krivokapic ha recentemente criticato Vucic tanto da far pensare che le relazioni bilaterali tra Montenegro e Serbia saranno distanti da una presunta stretta alleanza.

È tuttavia probabile che il Montenegro forgerà legami più forti con la Serbia sotto il nuovo governo, soprattutto se adotterà modifiche legislative per consentire ai cittadini serbi di avere la doppia cittadinanza montenegrina, aumentando così l’influenza del voto serbo nelle future elezioni. Tuttavia, dato che anche la Serbia è candidata all’adesione all’UE, un rapporto più stretto tra i due Paesi non deve farderagliare il processo di adesione del Montenegro e Abazovic ha affermato che la coalizione verrà meno se le parti abbandoneranno l’orientamento euro-atlantico del Montenegro. Attualmente, il rischio maggiore per la sopravvivenza della coalizione è rappresentato dalle numerose differenze ideologiche tra i suoi membri.[13]

La crisi economica del Montenegro, esacerbata dalla pandemia, dà al nuovo governo un altro motivo per restare vicino all’Unione Europea. Dopo le elezioni, la Banca Centrale del Montenegro ha chiesto al governo di ristrutturare il crescente debito pubblico del Paese, che si prevede raggiungerà quest’anno i 3,7 miliardi di dollari, pari a circa il 90% del PIL. Non sarà facile finanziare la spesa pubblica, compresi stipendi, pensioni, contributi sociali e il sistema sanitario, in quanto le entrate di bilancio sono diminuite di circa il 25 per cento su base annua, secondo i dati della banca centrale. Questo richiederà al governo di impegnarsi con il Fondo monetario internazionale e l’UE in ulteriori negoziati per un salvataggio.

La caduta del governo del Kosovo

In contrasto con la transizione democratica in Montenegro, il governo del Kosovo guidato da Vetëvendosje è caduto il 25 marzo 2020, quando il partito più piccolo della coalizione al governo, la Lega Democratica del Kosovo (LDK), ha appoggiato un voto di sfiducia nei confronti del suo partner Vetëvendosje. Il voto, che il Primo Ministro uscente Albin Kurti ha definito un “colpo di stato”, ha avuto il sostegno sia dell’ex Presidente Hashim Thaci che dell’amministrazione Trump e ha avuto luogo anche se il governo di Vetëvendosje godeva di una significativa legittimità democratica, avendo ottenuto quasi il 50 per cento delle preferenze alle urne.

Se la caduta del governo non è stata causata dalla crisi del Covid-19, la gestione della pandemia ha comunque fornito l’opportunità per il voto di sfiducia, iniziativa avviata dall’LDK dopo che Kurti ha rimosso Agim Veliu, un membro del partito, dall’incarico di Ministro degli Interni. Kurti ha liquidato Veliu perché quest’ultimo voleva che il Parlamento dichiarasse lo stato di emergenza a causa della crisi sanitaria, cosa che avrebbe trasferito il potere al Consiglio di Sicurezza del Kosovo, guidato da Thaci.

Un altro punto di discordia tra i due partner della coalizione riguarda il fatto che l’LDK ha insistito per l’immediata eliminazione di una tassa sulle importazioni al 100% per le merci provenienti dalla Serbia, così come su quelle provenienti dalla Bosnia-Erzegovina come richiesto da Richard Grenell, Inviato speciale degli Stati Uniti per il dialogo Belgrado-Pristina. I dazi erano entrati in vigore nel novembre 2018 con l’allora Primo Ministro Ramush Haradinaj e avevano portato alla sospensione del dialogo Belgrado-Pristina per quasi due anni. A differenza di Veliu e dell’LDK, Kurti ha appoggiato la graduale eliminazione dei dazi su base reciproca in attesa che la Serbia dimostrasse una certa volontà di non ostacolare il Kosovo in ambito internazionale.[14] Poiché la Serbia non riconosce documenti e certificati rilasciati dal Kosovo né prodotti provenienti dal Paese, gli esportatori kosovari hanno dovuto ottenere certificati serbi per le merci che volevano vendere in Serbia. Il fatto più significativo, tuttavia, riguarda la richiesta di Grenell di eliminare la reciprocità come condizione per riavviare il dialogo. Invece di sviluppare una partnership strategica con gli Stati Uniti, Kurti ha rifiutato di soddisfare le richieste di Grenell[15] e la diatriba ha avuto un peso significativo nella caduta del governo. Allo stesso tempo, Kurti è riuscito a coltivare relazioni positive con molti politici dell’UE e a costruire un’immagine positiva in Europa.

Nel giugno 2020 Kurti, che era ancora Primo Ministro ad interim dopo il voto di sfiducia, ha reagito alla decisione sulle barriere non tariffarie alle esportazioni del Kosovo in Serbia attuando misure di reciprocità che richiedevano alle imprese serbe che esportano in Kosovo di utilizzare l’emblema del Paese e la dicitura “Repubblica del Kosovo” su tutti i certificati sanitari e veterinari. Tali misure hanno attirato le critiche non solo della Casa Bianca ma anche di Miroslav Lajcak, Rappresentante speciale dell’UE per il dialogo Belgrado-Pristina, che le ha descritte come “iniziative unilaterali” che “minano la ripresa del dialogo.” Washington ha fatto pressione su Pristina affinché cambiasse atteggiamento, minacciando di ritirare le truppe statunitensi dal Kosovo e di trattenere gli aiuti economici qualora i dazi fossero rimasti in vigore. Il Capo della politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell, ha avvertito Kurti che il dialogo con la Serbia non sarebbe ripreso fino all’abolizione dei dazi.

La caduta del governo sembrava essere una vittoria per la vecchia élite politica del Kosovo, che dal 1999 detiene il potere in un ambiente politico caratterizzato da clientelismo e corruzione diffusa. Al contrario, Vetëvendosje ha fornito l’opportunità per creare una diversa cultura di governance politica in Kosovo.[16] Il partito ha fatto affidamento sul sostegno del popolo, essendo nato dalle manifestazioni non violente del 1997 e del 1998 organizzate dagli studenti dell’Università di Pristina. In tal senso, il partito rappresentava una rottura con l’eredità corrotta della vecchia élite. Come sostiene l’analista Andrea Capussela, la vittoria di Vetëvendosje alle elezioni dell’ottobre 2019 è il risultato di “due decenni di stagnazione, furto e disuguaglianza”. Il partito ha costruito la sua piattaforma elettorale sullo stato di diritto, la giustizia sociale e la lotta alla corruzione, sostenendo anche una versione intransigente del nazionalismo kosovaro che rifiuta qualsiasi concessione alla Serbia in cambio di un riconoscimento diplomatico.[17] Il governo, che è durato solo pochi mesi, ha cercato di avviare una serie di riforme volte ad affrontare la corruzione e il clientelismo, anche attraverso l’ingresso di persone della società civile e del mondo accademico. Tuttavia non ha resistito abbastanza a lungo per fare la differenza.[18]

La coalizione è stata caratterizzata dalle tensioni fin dall’inizio dei colloqui interni sulla cooperazione reciproca, iniziati nell’ottobre 2019. Non avendo abbastanza seggi per governare da solo, Kurti si è unito con riluttanza all’LDK. I due partiti hanno impiegato quattro mesi per formare un governo, anche a causa della notevole diffidenza reciproca. Quando ha licenziato il Ministro degli Interni senza consultare il suo partner della coalizione, Kurti ha violato l’accordo tra il suo partito e l’LDK, scatenando la crisi che ha fatto cadere il suo governo. Nonostante il suo ruolo nella caduta del governo, non è chiaro se intendesse preparare il terreno per nuove elezioni e sfruttare la crescente popolarità di Vetëvendosje. Provocando un confronto con l’LDK cercava forse di rafforzare la posizione dei membri più giovani del partito che gli erano politicamente vicini, come Vjosa Osmani, Speaker del Parlamento, rispetto alla vecchia guardia.[19] Nel corso degli anni Kurti è diventato più cooperativo con gli altri partiti e più comunicativo con l’Occidente, ha smesso di parlare di unificazione con l’Albania e ha notevolmente moderato le sue tendenze radicali che si sono tradotte nel rifiuto del Piano Ahtisaari nel 2008, nel ricorso ai gas lacrimogeni in Parlamento nel 2015 in risposta a un accordo tra Kosovo e Serbia sulla normalizzazione delle relazioni e nella campagna del 2018 contro un accordo di confine con il Montenegro.[20]

A giugno, in seguito al voto di sfiducia, l’LDK ha formato un nuovo governo con l’Alleanza per il futuro del Kosovo, guidata da Haradinaj, la Nuova Alleanza del Kosovo, guidata dall’ex Ministro degli Esteri Behgjet Pacolli, l’Iniziativa Socialdemocratica e diversi partiti che rappresentano le comunità delle minoranze etniche. Si è trattato di una soluzione politica allo stallo generato dal rifiuto di Vetëvendosje di accettare il mandato del presidente per cercare di formare un nuovo governo. Vetëvendosje ha insistito sul fatto che solo il partito più grande aveva diritto a formare un governo e, se non avesse avuto successo, si sarebbero dovute tenere nuove elezioni invece di far posto al secondo partito nel tentativo di creare un esecutivo. Alla fine, la situazione di stallo è stata risolta da una sentenza della Corte costituzionale che ha spianato la strada alla formazione di un nuovo governo da parte dell’LDK.[21] Dopo essere diventato Primo Ministro, il leader dell’LDK Avdullah Hoti ha rapidamente abolito la tassa sulle importazioni di beni serbi e bosniaci, per poi annunciare la sua disponibilità a continuare il dialogo con Belgrado.

La situazione politica in Kosovo rimane instabile. Il governo detiene solo 61 seggi parlamentari su 120 e la coalizione continua a soffrire di forti tensioni. Nel frattempo, il Kosovo affronta un drammatico aumento dei casi di coronavirus e Thaci si è recentemente dimesso per difendersi dalle accuse di crimini di guerra all’Aia, il che significa che il Parlamento dovrà ora eleggere un nuovo Presidente. Nel frattempo, lo Speaker ha assunto la presidenza ad interim per sei mesi. Se entro tale data il Parlamento non riuscirà a nominare un nuovo Presidente, occorrerà indire nuove elezioni che, secondo i sondaggi più recenti, vedrebbero la vittoria di Vetëvendosje, anche se probabilmente non sarebbe in grado di formare un governo da solo. Tuttavia, gli altri partiti della coalizione sono contrari a tornare alle urne e potrebbero essere costretti a scendere a compromessi sulla nomina del nuovo Presidente.[22]

Il dialogo Belgrado-Pristina

Nel giugno 2020, poco dopo la formazione del nuovo governo in Kosovo, l’Inviato speciale degli Stati Uniti Richard Grenell ha annunciato che i negoziati Belgrado-Pristina, entrati in una fase di stallo a novembre 2018, sarebbero ripresi a Washington. La spinta per un maggiore coinvolgimento americano nel processo è iniziata nel gennaio 2020, quando Grenell ha mediato le trattative tra Serbia e Kosovo per la ripresa dei voli tra le due capitali. La Casa Bianca ha dichiarato che gli Stati Uniti avrebbero assunto il ruolo di mediatore nei colloqui sulla normalizzazione economica tra le parti, lasciando all’Unione Europea la responsabilità del dialogo politico, ma Washington ha poi avviato le trattative senza coordinarsi con Bruxelles.

I colloqui sotto l’egida degli Stati Uniti si sono svolti in parallelo ai negoziati condotti dall’Unione Europea, che sono ripresi a Bruxelles a luglio. Quando gli Stati Uniti hanno organizzato un incontro tra il Presidente serbo Aleksandar Vucic e il Primo Ministro kosovaro Avdullah Hoti a Washington nello stesso mese, l’impressione era che stessero tentando di estromettere l’UE, ma l’Unione ha risposto invitando i due leader a Bruxelles per una discussione prima dell’incontro a Washington. Le discussioni a Bruxelles si sono incentrate su questioni pratiche come la cooperazione in materia di persone scomparse e la cooperazione economica.

Le parti hanno poi rinviato l’incontro di Washington, previsto tra luglio e settembre, in considerazione del fatto che il procuratore dell’Aia sembrava in procinto di incriminare l’ex Presidente del Kosovo Hashim Thaci per crimini di guerra. Poiché Hoti e Vucic hanno firmato documenti separati durante la riunione di Washington, non è chiaro se abbiano raggiunto accordi tra di loro o con il governo degli Stati Uniti. Se le discussioni si sono concentrate sulla normalizzazione economica, sono state comunque affrontate anche diverse questioni politiche. Alcuni progressi in tal senso erano già stati fatti durante gli incontri di Bruxelles, in particolare in relazione al reciproco riconoscimento dei diplomi e alla costruzione di un’autostrada di collegamento tra le due capitali, ambiti in cui l’UE aveva già fornito assistenza tecnica. Ana Pisonero, Portavoce dell’UE per l’allargamento, ha sottolineato la somiglianza di questi punti, evidenziando così la mancanza di coordinamento transatlantico riguardo alle discussioni.

Nonostante questi problemi, l’accordo di Washington ha prodotto alcuni risultati politici, ad esempio la Serbia si è impegnata a mettere fine ai tentativi di convincere gli Stati a rivedere il riconoscimento del Kosovo e il Kosovo ad astenersi dal presentare domanda di adesione alle organizzazioni internazionali.

I colloqui si sono concentrati sulla rimozione delle barriere esistenti all’attività economica nei Balcani occidentali e sulla realizzazione di una mini area Schengen nella regione. Il progetto darebbe vita a una zona di libero scambio regionale e a un mercato del lavoro integrato, facilitando al tempo stesso la libera circolazione delle persone da un Paese all’altro. Ciò richiederebbe un’armonizzazione giuridica tra gli Stati partecipanti in materia di sicurezza sociale e di riconoscimento reciproco dei permessi di lavoro, dei diplomi e dei permessi di soggiorno. Le parti liberalizzerebbero il commercio nel quadro dell’Accordo di libero scambio dell’Europa centrale. L’ambizione sarebbe garantire la libera circolazione di capitali d’investimento e la creazione di un mercato comune digitale.

A differenza dei precedenti leader del Kosovo, Hoti ha accettato l’idea di una mini area Schengen. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno promesso prestiti per lo sviluppo di infrastrutture strategiche, come la linea ferroviaria tra Pristina e Nis e l’autostrada che collegherà le due capitali.

L’accordo riguarda anche alcune tematiche che non erano legate al processo di normalizzazione, come ad esempio l’obbligo che entrambe le parti trasferiscano le rispettive missioni diplomatiche in Israele a Gerusalemme e che proteggano i loro sistemi 5G da “fornitori non fidati” (un chiaro riferimento all’azienda cinese Huawei, seppure senza una menzione esplicita). Tali condizioni alimentano i dubbi sul fatto che l’accordo possa effettivamente far progredire il processo di normalizzazione, considerata la vaghezza dei contenuti e la sovrapposizione con altri accordi mediati dall’UE. Anche se l’accordo firmato a Washington mancava di sostanza, potrebbe comunque comportare alcuni vantaggi strategici per le parti.

In molti ritengono che si sia trattato di una mossa elettorale a favore del Presidente Donald Trump, come fanno presumere la mancanza di sostanza e i riferimenti a Israele. Ciononostante, poco dopo la riunione di Washington, la US International Development Financial Corporation ha aperto un ufficio a Belgrado, mentre Grenell ha fatto visita a Belgrado e a Pristina promettendo di portare investimenti americani nella regione.

Dal punto di vista del Kosovo, l’accordo ha avuto il vantaggio di ristabilire il coinvolgimento americano nel dialogo.[23] I cittadini e i politici del Kosovo si fidano maggiormente di Washington che di Bruxelles, anche perché quest’ultima continua a negare la liberalizzazione dei visti al Kosovo anche se il Paese ha soddisfatto i criteri necessari due anni fa (soddisfacendo le richieste dalla Commissione Europea).

Anche la leadership serba, che da tempo desiderava avere accesso all’amministrazione Trump, può ritenersi soddisfatta, in quanto la Casa Bianca ha preso le parti della Serbia facendo pressione sul Kosovo per abolire incondizionatamente i dazi sulle importazioni. Dal punto di vista strategico, l’accordo fornisce alla Serbia una scusa per allentare i legami con la Russia. La Serbia ha ceduto alle pressioni americane accettando le condizioni relative alla Cina e dando priorità al miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti.

L’accordo di Washington potrebbe costringere l’UE a intensificare il suo impegno con il Kosovo e la Serbia affrontando alcune delle questioni più difficili nei colloqui. In tal senso, il dialogo è continuato a Bruxelles a settembre dove per la prima volta, in vista di un accordo globale e giuridicamente vincolante, le parti hanno discusso la possibilità di mettere fine alle reciproche pretese finanziarie e sulle proprietà nonché di accettare “accordi per la comunità non maggioritaria”, valutando l’attuazione di una versione modificata dell’Associazione dei Comuni Serbi (ASM). La formazione dell’ASM, un raggruppamento di territori in Kosovo a maggioranza etnica serba con una certa autonomia, è stata sancita nel 2013 dall’Accordo di Bruxelles, ma successivamente è stata giudicata su molti punti incostituzionale dalla Corte costituzionale del Kosovo. Per l’UE sono in gioco non solo questioni sostanziali, ma anche la reputazione europea e la capacità di raggiungere obiettivi di politica estera e adempiere agli impegni internazionali.

L’UE mira a creare un accordo globale e giuridicamente vincolante in base al quale la Serbia riconoscerebbe il Kosovo, ma questa possibilità potrebbe concretizzarsi, da parte serba, solo a conclusione di un accordo che garantisca importanti concessioni in altri ambiti, come lo status della Chiesa serbo-ortodossa in Kosovo e le questioni delle proprietà serbe e dell’ASM. Tuttavia non è chiaro se questo sarebbe comunque sufficiente. Vucic ha sottolineato in diverse occasioni che si aspetta qualcosa di più dell’adesione all’UE in cambio del riconoscimento del Kosovo. Pur non avendo fornito delucidazioni in merito, negli ultimi anni le concessioni territoriali sono l’unico punto che ha apertamente sostenuto come soluzione potenzialmente accettabile, ma questo, per ora, è fuori discussione.

Negli ultimi mesi, Hoti ha chiarito che l’integrità territoriale del Kosovo non è negoziabile, rifiutando così l’idea di scambi territoriali e, di conseguenza, di discussioni sull’ASM. Ciononostante, a settembre i colloqui sugli “accordi per la comunità non maggioritaria” sono proseguiti.

In Kosovo sia l’establishment politico che l’opinione pubblica sono contrari a qualsiasi forma di compromesso con la Serbia sugli scambi territoriali. Sembra quindi che la soluzione non sia ancora in vista. Anche se Miroslav Lajcak, Rappresentante speciale dell’UE per il dialogo Belgrado-Pristina, vorrebbe chiudere i colloqui entro la fine del prossimo anno, questa prospettiva sembra improbabile.

L’equilibrismo geopolitico serbo

Per diversi anni la Serbia ha cercato attivamente una maggiore cooperazione con gli Stati Uniti, assumendo anche lobbisti per arrivare all’amministrazione Trump.[24] La strategia era sostenuta dal Presidente serbo Aleksandar Vucic in virtù del fatto che l’amministrazione Trump era favorevole allo scambio territoriale con il Kosovo auspicato da Vucic e dall’ex Presidente del Kosovo Hashim Thaci.[25] La partecipazione della Serbia al dialogo a guida americana era però sgradito alla Russia, tanto che un portavoce del Ministero degli Affari Esteri russo ha paragonato l’incontro di Vucic a Washington con una scena del film Basic Instinct. Negli ultimi tempi il partenariato Serbia-Russia sembra essere sotto pressione a causa dei tentativi di Vucic di ridurre la dipendenza serba da Mosca, con cui tuttavia Belgrado mantiene ancora legami molto stretti. La politica estera di Vucic è in effetti un esercizio di equilibrismo tra la Russia e l’Occidente, con temporanee e fugaci oscillazioni verso l’una o l’altra parte.

Negli ultimi anni, poi, sulla scena serba si è aggiunta anche la Cina, la cui influenza ha superato quella della Russia in settori come gli investimenti in infrastrutture. Ulteriori segnali in tal senso, come la preferenza della Serbia per gli aiuti cinesi rispetto all’assistenza russa durante la pandemia e la crescente partecipazione di capitale cinese in settori come l’energia e le risorse minerarie, indicano che la Cina potrebbe diventare un punto di riferimento sempre più importante per la politica estera serba. Allo stesso tempo, la Cina è un partner politico importante per il suo fermo rifiuto dell’indipendenza del Kosovo in quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Finora la Cina non ha avanzato richieste politiche alla Serbia in cambio degli investimenti, tuttavia la Serbia ha recentemente fatto diverse concessioni ai suoi partner occidentali. Il Paese ha infatti approvato la Dichiarazione UE che condanna le autorità bielorusse per aver condotto una violenta repressione delle proteste seguite alle elezioni presidenziali di agosto. Sotto la pressione dell’Unione Europea, la Serbia si è ritirata, seppure a malincuore, da un’esercitazione militare con la Bielorussia e la Russia prevista per settembre. Quando a Belgrado sono scoppiate le proteste in risposta alla reintroduzione del lockdown dopo le elezioni di giugno, i tabloid filogovernativi hanno accusato la Russia di averle fomentate. Sebbene le accuse non siano sostanziate da prove, è insolito che i media filogovernativi mettano Mosca in cattiva luce. Inoltre, Vucic ha incoraggiato il Partito Socialista serbo, suo alleato, a liquidare i quadri filo-russi sperando di ridurre al minimo l’influenza di coloro che hanno legami diretti con la leadership russa.[26]

Se Vucic intende davvero risolvere la disputa con il Kosovo, avrebbe senso spingere per un riavvicinamento con gli Stati Uniti. La Serbia si affida da tempo alla Russia per trovare sostegno alle sue istanze in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e alle istituzioni internazionali. Uno sviluppo di questo genere ridurrebbe significativamente la presa russa sulla Serbia.[27] Vucic detiene il controllo di una schiacciante maggioranza in Parlamento e, considerata la debolezza e la frammentazione dell’opposizione, potrebbe effettivamente raggiungere questo obiettivo.

È più plausibile, tuttavia, che il Presidente non ritenga che la soluzione della questione del Kosovo sia nel suo interesse, in quanto lo priverebbe del suo vantaggio nei negoziati con l’UE. Come sostiene il politologo Florian Bieber, se Vucic fosse davvero intenzionato a risolvere la questione, starebbe preparando il terreno nell’opinione pubblica e non presenterebbe il dialogo come una battaglia, come invece fa attualmente.[28] Sembra quindi probabile che continuerà a trascinare avanti il processo di normalizzazione il più a lungo possibile.

Probabilmente, anche se le parti completassero rapidamente il processo, Vucic potrebbe comunque acquisire un ulteriore vantaggio concentrandosi su un’altra questione importante per l’Occidente, ovvero presentandosi come garante dell’integrità della Bosnia e contenendo le ambizioni secessioniste della Republika Srpska.

In alternativa, potrebbe perseguire l’adesione alla NATO.[29] Anche se, per ora, questa opzione è ufficialmente fuori discussione e l’opinione pubblica è fortemente contraria, alcuni militari serbi sono favorevoli a legami più stretti con l’Alleanza Atlantica.[30]

Da quando è salito al potere nel 2012, Vucic ha trovato un equilibrio tra l’Occidente e la Russia costruendo legami più forti con Mosca e, allo stesso tempo, impegnandosi nel dialogo con il Kosovo, perseguendo l’adesione all’UE e aumentando la cooperazione con la NATO.[31] Belgrado è ora impegnata in una cooperazione militare molto più intensa con la NATO che con Mosca, cercando però di evitare di darne risalto nei media poiché l’alleanza è molto impopolare a causa della campagna di bombardamenti del 1999 contro la Serbia.[32] Sebbene goda di status di osservatore nell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, nel 2017 la Serbia ha partecipato a due sole esercitazioni congiunte con la Russia e la Bielorussia, rispetto alle 13 a cui ha preso parte con i membri della NATO e ad altre sette con le forze statunitensi. Anche nel 2019 la Serbia ha condotto 13 esercitazioni militari con membri della NATO e solo quattro con la Russia. Inoltre, in quanto partecipante al Programma di partenariato per la pace della NATO, la Serbia ha adottato nel novembre 2019 il secondo Piano d’azione individuale di partenariato, che copre il periodo 2019-2021. Belgrado si affida alla NATO per la modernizzazione dell’esercito, collaborando con l’Alleanza Atlantica per la riforma e la formazione militare, lo smaltimento e il riutilizzo di munizioni obsolete. Inoltre partecipa al programma della NATO Science for Peace and Security.

Tuttavia, nonostante le recenti iniziative a favore dell’UE, degli Stati Uniti e della NATO, persiste il desiderio di continuare a collaborare con la Russia, come indicato dal fatto che, nella prima metà del 2020, la Serbia si è allineata a meno del 50% delle dichiarazioni e delle misure di politica estera dell’UE. Inoltre si dimostra particolarmente incline a negare il suo sostegno a tali azioni quando riguardano la Russia, la Cina o questioni di interesse diretto per questi due Paesi, e la leadership serba partecipa spesso a incontri ad alto livello con Mosca, una tendenza che si accentua soprattutto nel periodo che precede le elezioni politiche.[33]

Nel frattempo, la Russia controlla l’industria serba del gas attraverso la quota di maggioranza di Gazprom in Naftna Industrija Srbije e fornendo alla Serbia tutto il suo fabbisogno di gas naturale, altra fonte di attrito con gli Stati Uniti. Dato che a Washington si è recentemente discusso della possibilità di imporre sanzioni al progetto TurkStream 2, che trasporterebbe il gas russo attraverso la Turchia e sotto il Mar Nero verso la Bulgaria, la Serbia, l’Ungheria e l’Austria con il nome di “Balkan Stream”, la Serbia e gli altri partecipanti al progetto potrebbero subire una crescente pressione americana a diversificare le loro fonti di gas. La Russia gestisce inoltre una struttura umanitaria nella città serba di Nis, cosa che risulta preoccupante per la NATO e l’UE in quanto le potenze occidentali temono che venga utilizzata per operazioni militari e di intelligence anche in virtù della sua vicinanza alle forze di peacekeeping della NATO in Kosovo. La Serbia ha legami più stretti con i servizi di intelligence russi rispetto a qualsiasi altro Stato dei Balcani occidentali; tuttavia, a seguito della pressione della NATO, Belgrado ha rifiutato di concedere lo status diplomatico al personale russo del centro di Nis. Come sostiene l’analista Predrag Petrovic, i servizi segreti serbi sono divisi tra coloro che caldeggiano una più stretta cooperazione con la Russia da una parte e con l’UE dall’altra.

Tutto questo è importante per il processo di adesione della Serbia all’UE, in base al quale il Paese dovrà allineare la sua politica estera con la politica estera e di sicurezza comune dell’UE. Infatti, in un rapporto sullo stato di avanzamento di tale processo pubblicato nell’ottobre 2020, la Commissione Europea sottolineava che la Serbia deve intensificare i suoi sforzi “per allineare progressivamente la sua politica estera e di sicurezza con quella dell’Unione Europea nel periodo che conduce all’adesione”.

Autrici

Beáta Huszka è Visiting Fellow presso ECFR dove si occupa di questioni politiche nell’Europa sudorientale. Ha completato il dottorato di ricerca presso l’Università dell’Europa Centrale nel 2010. Tra il 2013 e il 2017 ha coordinato un pacchetto di lavoro del progetto FRAME nell’ambito del 7° PQ dell’UE sul ruolo dei diritti umani nelle relazioni esterne dell’UE. È autrice del libro “Secessionist Movements and Ethnic Conflict” (Routledge, 2014). I suoi attuali progetti di ricerca si concentrano sui conflitti bilaterali nei Balcani occidentali, sull’allargamento dell’UE e sulle controversie relative ai diritti delle minoranze nell’Europa centrale e orientale.

Tania Lessenska è stata Coordinatrice del programma per i Balcani occidentali di ECFR per gli ultimi tre anni. È autrice di “Finally, some good news”. Attualmente segue un master in politica pubblica presso la Hertie School of Governance di Berlino.

Ringraziamenti

Le autrici ringraziano tutti gli esperti in Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia che hanno dedicato a questo progetto il loro tempo condividendo le loro conoscenze, tra questi Ditmir Bushati, Andi Dobrushi, François Lafond, Remzi Lani, Zoran Nechev, Ivan Nikolovski e Andreja Stojkovski. Un ringraziamento particolare va ad alcuni degli esperti che hanno commentato le precedenti versioni di questo lavoro, in particolare Gezim Krasniqi e Nevena Ruzic. Le autrici desiderano ringraziare Vessela Tcherneva e Engjellushe Morina per i loro utili commenti. Sono inoltre grate agli editor Chris Raggett e Adam Harrison e a Marlene Riedel per il lavoro di grafica.

Questo documento è stato reso possibile grazie al sostegno della Compagnia di San Paolo.


[1] Intervista con Adnan Huskic via Skype, 21 settembre 2020.

[2] Intervista con Adnan Huskic via Skype, 21 settembre 2020.

[3] Intervista a Srdjan Majstorovic via Skype, 23 settembre 2020.

[4] Intervista a Bojan Elek via Skype, 1° settembre 2020.

[5] Intervista a Nevena Ruzic via Skype, 8 agosto 2020.

[6] Intervista a Nevena Ruzic via Skype, 8 agosto 2020.

[7] Come riportato da makfax.com.mk.

[8] Intervista a Jelena Milic via Skype, 13 agosto 2020.

[9] Intervista con Adnan Huskic via Skype, 21 settembre 2020.

[10] Intervista a Zoran Nechev, 11 settembre 2020.

[11] Intervista a Milena Muk via Skype, 15 settembre 2020.

[12] Intervista a Milena Muk via Skype, 15 settembre 2020.

[13] Intervista a Milena Muk via Skype, 15 settembre 2020.

[14] Commento di Engjellushe Morina, 12 ottobre 2020.

[15] Intervista con Agon Maliqi via Skype, 23 settembre 2020.

[16] Intervista a Gezim Krasniqi via Skype, 3 novembre 2020.

[17] Discussione online con Albin Kurti, “Kosovo’s Political Coherence during Pandemics and Negotiations with Serbia”, Evento online via Zoom, ECFR, 7 settembre 2020.

[18] Intervista a Gezim Krasniqi via Skype, 3 novembre 2020.

[19] Intervista a Gezim Krasniqi via Skype, 3 novembre 2020.

[20] Intervista a Gezim Krasniqi via Skype, 3 novembre 2020.

[21] Intervista a Gezim Krasniqi via Skype, 3 novembre 2020

[22] Intervista con Agon Maliqi via Skype, 23 settembre 2020.

[23] Intervista con Ardian Arifaj via Skype, 15 settembre 2020.

[24] Intervista a Igor Bandovic via Skype, 24 settembre 2020.

[25] Intervista con Maja Bjelos via Skype, 3 settembre 2020.

[26] Intervista a Bojan Elek via Skype, 1° settembre 2020.

[27] Intervista a Bojan Elek via Skype, 1° settembre 2020.

[28] Questo è il parere espresso da Florian Bieber, dell’Università di Graz, in un incontro online organizzato dall’ONG Aktiv il 23 settembre 2020.

[29] Intervista a Marko Drajic via Skype, 3 settembre 2020.

[30] Intervista a Bojan Elek via Skype, 1° settembre 2020.

[31] Intervista a Marko Drajic e Maja Bjelos, 3 settembre 2020.

[32] Intervista a Bojan Elek via Skype, 1° settembre 2020.

[33] Intervista a Marko Drajic via Skype, 3 settembre 2020.

ECFR non assume posizioni collettive. Le pubblicazioni di ECFR rappresentano il punto di vista degli autori.