Disordine dal caos: perché l’Europa non riesce a stabilizzare il Sahel

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In breve

  • Allo scopo di migliorare il coordinamento degli sforzi volti a finanziare iniziative di assistenza allo sviluppo e di altra natura nella regione, nel 2017 la Francia, la Germania e i Paesi del Sahel hanno dato vita all’Alleanza del Sahel, che riunisce i principali donatori internazionali.
  • L’Alleanza si proponeva di integrare sicurezza, sviluppo e governance, ma ha faticato a trovare un’espressione coerente ed efficace nonostante l’adozione di nuovi approcci.
  • Il deterioramento delle condizioni della sicurezza nel Sahel ha spinto gli attori internazionali a creare nuove iniziative, tra cui il Partenariato per la sicurezza e la stabilità nel Sahel e, più recentemente, la Coalizione per il Sahel. Tuttavia i rapporti tra queste iniziative restano in buona parte teorici, in attesa di definire gli aspetti pratici della cooperazione e della condivisione degli oneri.
  • Queste nuove iniziative rischiano di privilegiare soluzioni di sicurezza a problemi complessi senza rispondere all’esigenza di una necessaria riforma della governance nonostante la consapevolezza, anche da parte di alti funzionari francesi, che non esiste una soluzione puramente militare ai vari conflitti e alle sfide del Sahel.

Introduzione

L’annuncio del presidente francese Emmanuel Macron relativo alla creazione dell’Alleanza del Sahel in occasione di un incontro del G5 a Nouakchott, in Mauritania, nel luglio 2017 era accompagnato da grandi speranze. La nuova alleanza si proponeva di rendere più efficace l’azione di Francia e Germania, insieme ad altri partner internazionali, allo scopo di migliorare la stabilità del Sahel associando le questioni di sicurezza e di governance alle preoccupazioni legate allo sviluppo.

Fin dall’inizio l’attività dell’Alleanza del Sahel è stata espressione delle ambizioni ad ampio raggio della politica europea e internazionale per la regione e ha evidenziato, al tempo stesso, le difficoltà insite nel tentativo di coordinare gli sforzi in atto e di rendere più efficaci le politiche attuali e future. La confusione che caratterizza i programmi europei e le strategie internazionali nel Sahel è ulteriormente complicata dal peggioramento del quadro della sicurezza. Nel 2019, l’anno più letale per la regione dall’occupazione jihadista del nord del Mali nel 2012, almeno 4.000 persone, tra soldati e civili, hanno perso la vita. Anche le dinamiche del conflitto sono diventate sempre più complesse, con scontri tra gruppi jihadisti rivali e una miriade sempre più eterogenea di fazioni armate in lotta per la supremazia. Questo tormentato scenario di sicurezza è stato accompagnato da gravi disordini politici sfociati in un vero e proprio colpo di stato in Mali, in attesa delle imminenti elezioni presidenziali in Niger e Burkina Faso che potrebbero scatenare nella regione un caos ancora più profondo. Qualunque fosse l’obiettivo della comunità internazionale, appare evidente che i progressi non vanno affatto nella direzione sperata e lo scenario politico regionale rimane preoccupante ed estremamente instabile.

Questo documento analizza l’Alleanza del Sahel e il modo in cui si è sviluppata a partire dalla sua creazione, con particolare riferimento all’evoluzione del suo approccio e delle sue pratiche. Esamina inoltre le carenze dell’Alleanza, in particolare per quanto riguarda la governance, che si sono rivelati determinanti nel caso di eventi come il colpo di stato del Mali. Questo approfondimento si basa sui comunicati ufficiali e sui documenti programmatici dell’Alleanza del Sahel, nonché sulla documentazione interna e su interviste effettuate con i principali attori coinvolti nelle attività per la sicurezza, lo sviluppo e il coordinamento nel Sahel e in Europa. Il documento analizza anche due iniziative successive: la Partnership per la sicurezza e la stabilità nel Sahel (P3S) e la Coalizione per il Sahel, annunciate rispettivamente nell’agosto 2019 e nel gennaio 2020, illustrandone la configurazione in rapporto all’Alleanza per il Sahel e i possibili rischi e vantaggi.

Il P3S e la Coalizione, come anche l’Alleanza, mirano ad affrontare la difficile situazione politica e di sicurezza nel Sahel e a garantire maggiore integrazione e coordinamento delle iniziative europee e internazionali. In particolare, si propongono di internazionalizzare ulteriormente la risposta militare e politica alle crisi del Sahel, richiamare l’attenzione sulla regione e aiutare la Francia a condividere il peso delle operazioni militari e degli sforzi politici e di sviluppo. Rispetto ad altri attori internazionali, la Francia è infatti maggiormente coinvolta con le sue forze militari nelle operazioni antiterrorismo nel Sahel, e i funzionari francesi hanno anche assunto la guida di una serie di iniziative non militari.

A causa della inevitabile sovrapposizione, le varie iniziative hanno talvolta generato un’enorme confusione tra gli attori internazionali e i loro partner saheliani. Dopo una partenza lenta, l’Alleanza ha recentemente iniziato a concentrare i suoi sforzi sulla promozione di un approccio integrato, suo vero motivo d’essere, evitando che il P3S e la Coalizione dirottino le attività internazionali lungo binari più incentrati sulla sicurezza. I timidi progressi compiuti a favore del rinnovamento e della riconcettualizzazione dell’Alleanza del Sahel dimostrano che è possibile cambiare gli approcci in positivo quando gli attori internazionali sono disposti ad accettarli e a perseguirli sul campo, anche se permane un abisso tra il piano teorico e il cambiamento reale.

L’Alleanza del Sahel

Inizi ambiziosi, risultati incerti

Prima della creazione dell’Alleanza, per anni si era evidenziata la necessità di maggiore coordinamento nel Sahel tra il gran numero di attori internazionali e i diversi progetti di sviluppo e sicurezza. La comunità internazionale ha cominciato a rivolgere la sua attenzione alla regione a seguito della ribellione tuareg e dell’acquisizione del nord del Mali da parte dei jihadisti nel 2012, nonché dell’Operazione Serval, l’intervento francese del 2013 inteso a contrastare i gruppi jihadisti che si erano addentrati nel Mali centrale. La stabilizzazione della regione richiede necessariamente il ripristino della sicurezza oltre a progressi sul fronte dello sviluppo.

Le Nazioni Unite sono state tra i primi a prendere coscienza che questi sforzi devono procedere di pari passo e hanno iniziato a coordinare le attività di sviluppo e i finanziatori all’inizio del 2013. Mauritania, Mali, Burkina Faso, Ciad e Niger hanno formato il G5 Sahel all’inizio dell’anno successivo. Il G5 mirava ad affrontare sia le esigenze di sicurezza sia quelle di sviluppo in tutta la regione, ma la sua creazione e la fretta di sostenere la nuova iniziativa hanno fatto sì che, secondo lo specialista del G5 Sahel Nicolas Desgrais, l’attività dell’ONU risultasse “paradossalmente … paralizzata dal lancio del G5 Sahel”, poiché quest’ultimo ha rapidamente ottenuto sostegno e catturato l’attenzione sul piano internazionale. Al momento dell’elezione di Macron nel 2017, le condizioni di sicurezza nel Sahel stavano peggiorando ed erano pochi i progetti di sviluppo ad aver avuto successo. Sia il presidente francese che il cancelliere tedesco Angela Merkel hanno iniziato a valutare altre opzioni per portare stabilità nei Paesi della regione, convinti che un maggiore coordinamento e sostegno internazionale potessero dimostrarsi fondamentali in tal senso. Il 2 luglio 2017 Macron ha annunciato la creazione dell’Alleanza del Sahel. L’organizzazione è stata lanciata formalmente poco dopo, una volta ottenuta l’approvazione del Consiglio dei Ministri franco-tedesco.

L’Alleanza riuniva inizialmente la Francia, la Germania, l’Unione Europea, la Banca Africana per lo Sviluppo, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo e la Banca Mondiale, per espandersi poi con l’adesione di Italia, Spagna, Regno Unito, Lussemburgo, Paesi Bassi e Danimarca. In definitiva, l’Alleanza del Sahel era e rimane un’iniziativa di sviluppo volta a migliorare il coordinamento sul campo nel Sahel, compito che si prefigge di svolgere in modo integrato, così che gli attori dello sviluppo, della politica e della sicurezza siano tutti quantomeno in contatto tra loro, completando e sostenendo il lavoro gli uni degli altri.

Il documento fondativo dell’Alleanza conferma tale intento sostenendo che “i partner per lo sviluppo devono definire il più rapidamente possibile un approccio integrato che prenda in considerazione allo stesso tempo la sicurezza, la stabilizzazione a breve termine e lo sviluppo a medio e lungo termine”. La missione della nuova alleanza era ampia e ambiziosa: “il ripristino della sicurezza, della giustizia, dello stato di diritto, della coesistenza pacifica delle comunità, della fornitura di servizi di base, la creazione di opportunità di lavoro per i giovani e di concrete opportunità economiche per le popolazioni locali, in particolare nelle aree più periferiche e vulnerabili”.

La visione di ampio respiro che ne avrebbe guidato l’azione poggiava su quattro pilastri principali: rafforzare il coordinamento tra settori chiave e aumentare i finanziamenti per la sicurezza, la stabilizzazione e lo sviluppo a breve termine; garantire la responsabilità reciproca dei partner per lo sviluppo nella regione e quella tra i partner per lo sviluppo e il G5; sviluppare nuove pratiche innovative per garantire un’azione efficace e risultati sostenibili, soprattutto in collaborazione con il settore privato, dove lo Stato è a malapena presente; fornire maggiore sostegno alle forze di sicurezza per garantire il successo delle iniziative per lo sviluppo. Questo richiedeva la fornitura di assistenza internazionale immediata agli apparati di sicurezza dei Paesi del Sahel, alle forze interne del G5 e alla Forza Congiunta del G5 Sahel.

La creazione dell’Alleanza del Sahel era in linea con la “regionalizzazione” di altri programmi dell’UE di allora, in particolare le missioni nell’ambito della Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) già attive in Mali e Niger. In concreto, tale approccio ha cominciato a prendere forma nell’UE nel 2015 e ricordava molto quello dell’Agence Française du Développement (AFD), un partner chiave nonché uno dei membri più influenti dell’Alleanza del Sahel[1]. L’AFD aveva adottato un approccio altrettanto regionalizzato nei suoi programmi prima della formazione dell’Alleanza, come dimostra la creazione nel 2017 di un ufficio di coordinamento regionale per le operazioni dell’AFD nei Paesi del G5, con sede a Ouagadougou, Burkina Faso. Lo scopo di questa regionalizzazione, secondo la missione dell’AFD e della PSDC, era migliorare e aumentare il coordinamento tra i Paesi e nella regione, con l’obiettivo di affrontare le questioni transfrontaliere comuni e di incoraggiare lo scambio di informazioni tra i funzionari di stanza nei diversi Paesi sulle sfide e le potenziali soluzioni. Gli insegnamenti sulla regionalizzazione appresi dall’esperienza dell’AFD e da altre iniziative hanno giocato un ruolo importante nell’organizzazione delle attività dell’Alleanza del Sahel[2].

Tuttavia, mano a mano che cresceva il numero di programmi e progetti, la portata delle operazioni aumentava di conseguenza. Si stima che entro il 2022 gli Stati membri e le organizzazioni dell’Alleanza avranno finanziato e coordinato circa 800 progetti, ma solo dopo ripetute e faticose false partenze. L’Alleanza ha penato non poco a definire e ridefinire sé stessa in termini di strutture di governance e del ruolo da svolgere nella complessa rete di programmi, operazioni e meccanismi di coordinamento europei nella regione.

Il nesso tra sicurezza e sviluppo

Negli ultimi anni anche l’AFD e l’esercito francese hanno lavorato per migliorare la cooperazione a sostegno dell’operazione Barkhane, l’iniziativa antiterrorismo francese attualmente in corso nel Sahel. In quanto primo esempio concreto di tentativo di integrazione delle attività di sviluppo e di sicurezza nel Sahel, si rivela utile esaminarne i successi e i fallimenti. L’obiettivo era migliorare il coordinamento delle iniziative intese a promuovere la stabilizzazione e il ripristino delle autorità governative in aree come quella di Ménaka, nel nord-est del Mali. Nell’ambito della collaborazione tra l’AFD e l’Operazione Barkhane, un ufficiale di collegamento militare sedeva nell’unità di prevenzione delle crisi e dei conflitti dell’AFD a Parigi, mentre un consulente dell’AFD si trovava presso il quartier generale di Barkhane a N’Djamena, in Ciad.

Questo primo tentativo di collaborazione continuativa, presso il quartier generale e sul campo, ha ottenuto un certo successo agli occhi dei funzionari francesi e sembra lasciare ben sperare per un partenariato per lo sviluppo e la sicurezza nel Sahel. Ad esempio, un alto funzionario racconta che, a metà del 2018, i soldati e gli ufficiali coinvolti nell’operazione Barkhane hanno incontrato le comunità locali nel corso delle ronde di pattuglia e hanno definito progetti a impatto rapido in risposta a esigenze materiali, commerciali o anche politiche. Il personale dell’Operazione Barkhane ha poi condiviso tali informazioni con l’AFD attraverso il rappresentante di collegamento dell’AFD. In alcuni casi l’AFD ha concesso finanziamenti alle ONG locali giudicate idonee a gestire il progetto o ha individuato altre modalità per attuare tali iniziative a impatto rapido[3]. Tutto ciò, in teoria, mirava a colmare almeno in parte il vuoto lasciato dalle istituzioni di governance locale assenti e a preparare il terreno per ripristinarle una volta stabilizzata la situazione in termini di sicurezza.

I progetti congiunti AFD-Barkhane, sebbene simili, sono comunque diversi da quelli gestiti direttamente o finanziati da Barkhane per le comunità locali. Nel 2019 questi ultimi, noti come operazioni CIMIC (operazioni civili-militari), si sono concentrati per lo più nelle aree intorno a Indelimane, Ansongo e Ménaka in Mali, regioni contese che sono state sede di importanti operazioni francesi e del G5 Sahel tra il 2018 e il 2020, e che sono regolarmente teatro di attacchi di gruppi jihadisti e scontri tra altri movimenti armati. La prevalenza di questi progetti nelle zone di conflitto attivo mostra come l’esercito francese veda lo sviluppo e i progetti a impatto rapido come strumento per conquistare la fiducia della popolazione locale e per gettare le basi di una stabilità di massima, sebbene l’impatto effettivo sia molto difficile da valutare.

In questa regione e altrove la collaborazione è cresciuta tra Barkhane e altre sezioni del governo francese, come l’Unità di stabilizzazione del Centro di supporto e crisi del Ministero degli Esteri, che rientra nell’approccio 3D (Diplomatie, Développement, Défence) della Francia verso le zone di crisi. La logica militare francese relativamente allo sviluppo della regione si articola in tre fasi: una a breve termine, in cui i CIMIC rispondono alle esigenze immediate delle popolazioni locali per contribuire a generare sostegno alle operazioni militari in corso e ai governi regionali, una a medio termine in cui il Centro di crisi e di sostegno sviluppa progetti e analisi per stabilizzare le aree a rischio e aiutare a puntellare la stabilità nelle zone considerate come potenziali fonti di criticità future e, in ultimo, una strategia di sviluppo più a lungo termine sotto la guida dell’AFD[4] compresa la corrispondenza dei vari livelli, che persegue per lo più obiettivi di sviluppo a medio e lungo termine.

Sia i militari sia i responsabili dello sviluppo riconoscono che, per un certo periodo di tempo, è esistita una discrasia tra i rispettivi obiettivi, la natura dei progetti da attuare e il linguaggio utilizzato per descrivere le problematiche da affrontare. Un ufficiale francese, ad esempio, ha parlato di un processo di “apprendimento della stessa lingua” anche all’interno del governo francese[5] e analogamente un funzionario dell’AFD ha riconosciuto che il lungo e costante scambio tra l’AFD e Barkhane ha contribuito a facilitare la mutua comprensione degli sviluppi e delle sfide per la sicurezza regionale[6].

Forse sorprendentemente, quest’ultimo ha poi aggiunto che tale valutazione e collaborazione condivisa ha contribuito a promuovere una migliore comprensione tra gli attori dello sviluppo e quelli militari sulla necessità di riportare la politica e la governance al centro delle rispettive attività e, in particolare, ha fatto emergere gli “anelli deboli” della programmazione sia militare sia di sviluppo, soprattutto per quanto riguarda la giustizia e il funzionamento delle istituzioni statali interne[7]. Questa presa di coscienza, sempre secondo il funzionario, ha portato alla creazione del P3S anche se, come discusso di seguito, rimangono numerose domande su come vengano definiti e attuati tali approcci.

La regionalizzazione perseguita dall’AFD e da Barkhane rispecchia in parte l’atteggiamento dell’Alleanza del Sahel e funge da banco di prova per una maggiore integrazione delle operazioni di sviluppo e di sicurezza. Ma la maggiore integrazione di progetti e attori della sicurezza e dello sviluppo porta alla luce anche i limiti dell’efficacia di alcuni degli sforzi per lo sviluppo in tale contesto, evidenziando come spesso l’enfasi resti fortemente rivolta alla sicurezza a scapito di altre priorità.

False partenze e ripartenze

L’obiettivo iniziale dell’Alleanza del Sahel era fungere da meccanismo di coordinamento flessibile per garantire un impatto rapido in una vasta gamma di ambiti e settori allo scopo di ripristinare la stabilità, la sicurezza e le prospettive di sviluppo del Sahel. Fin dall’inizio, tale approccio di ampio respiro ha incontrato numerosi ostacoli. L’attività dell’Alleanza del Sahel è stata ostacolata da problemi di comunicazione e da una mancanza di chiarezza tra gli attori internazionali sulla sua valenza istituzionale e sulla scelta delle priorità su cui concentrarsi [8].

Un esperto di sviluppo coinvolto già nelle prime fasi operative dell’Alleanza osserva che l’attività è iniziata con le migliori intenzioni e si proponeva di rompere con i vecchi approcci allo sviluppo, poiché i progetti esistenti non erano riusciti a rimediare ai gravi e sempre più radicati problemi della regione[9]. L’Alleanza è stata concepita dai membri fondatori come un organismo di coordinamento di alto livello piuttosto che come un’ennesima fonte di finanziamenti che avrebbe stanziato fondi aggiuntivi. Ma i governi della regione hanno frainteso il messaggio, considerandolo come una critica all’utilizzo del denaro fornito loro per vari programmi, e questo ha richiesto ulteriori sforzi (e tempo) per illustrare l’effettivo scopo e le attività dell’Alleanza ai partner saheliani[10].

Nel febbraio 2018 l’Alleanza ha cercato di cementare la sua presenza nella regione in occasione di una conferenza di alto livello dei donatori a Bruxelles, evento che ha generato impegni per oltre 400 milioni di euro a favore del G5 Sahel. Nell’ottobre dello stesso anno l’Alleanza del Sahel ha firmato un protocollo di partenariato con gli Stati del G5 per contribuire a raccogliere fondi per alcuni programmi del G5 in modo più efficiente e per fornire un quadro giuridico preciso per la cooperazione tra l’Alleanza e il G5. A dicembre l’Alleanza del Sahel si è assicurata 1,3 miliardi di euro di finanziamenti per il Priority Investment Program (PIP) del G5. Lo ha fatto alla Conferenza di coordinamento dei partner del G5 Sahel, dove sono stati raccolti a livello internazionale 2,4 miliardi di euro, il che significa che in quel momento l’Alleanza ha fornito un contributo finanziario significativo, nonostante inizialmente si proponesse di non raccogliere o donare ulteriori fondi.

Nel corso del tempo, la cooperazione tra l’Alleanza e il G5 si è rafforzata. Ma questo è avvenuto a scapito di chiare linee di demarcazione del ruolo dell’Alleanza, che richiede una strutturazione adeguata per adempiere alle proprie crescenti responsabilità. Da un lato, la maggiore collaborazione tra l’Alleanza e il G5 (in particolare con il suo segretario permanente Maman Sidikou) ha permesso una più chiara definizione delle priorità sia in relazione all’importante PIP di cui sopra, sia riguardo a un’altra significativa area di azione, l’Emergency Development Programme. L’Alleanza ha svolto un ruolo chiave a sostegno di questo programma, spesso indicato dall’acronimo francese PDU, creato dai capi di Stato del G5 per aiutare a finanziare e accelerare progetti a impatto rapido nelle zone di confine dei loro Paesi. La presenza di Sidikou alle riunioni di alto livello dell’Alleanza in Europa e, nel 2020, a Nouakchott, oltre al frequente avanti e indietro dei funzionari del G5 e dei rappresentanti dell’Alleanza tra l’Europa e il Sahel, suggerisce un maggiore livello di coordinamento e condivisione di responsabilità e uno sforzo volto a definire le priorità in base alle esigenze individuate dal segretariato del G5.

È essenziale che anche gli Stati del Sahel adottino un processo chiaro per definire le loro priorità di sviluppo nel quadro della “responsabilità reciproca”, così che i partner dell’Alleanza e il G5 lavorino di concerto per garantire l’efficacia e la pertinenza del programma. Tuttavia, è altrettanto essenziale che l’Alleanza del Sahel collabori con gli Stati del Sahel a tutti i livelli di governo al fine di garantire che i programmi finanziati dai suoi membri rispondano a effettive esigenze a medio e lungo termine senza occuparsi solo di far fronte a richieste a breve termine o di progetti a impatto rapido.

Sarebbe anche utile trasferire il processo di coordinamento nel Sahel, poiché per ora rimane ancora in gran parte incentrato in Europa e fisicamente lontano dagli attori e dalle realtà saheliane. Inizialmente, il piccolo segretariato dell’Alleanza e l’Unità di coordinamento dell’Alleanza (UCA) erano ospitati a Parigi, all’interno del Ministero degli Esteri francese e dell’AFD. L’UCA era inizialmente diretta da un funzionario dell’AFD, Jean-Marc Gravellini, ed è attualmente guidata da Adrien Haye, un altro funzionario dell’AFD. Nel 2019 l’UCA si è trasferita da Parigi a Bruxelles, assicurandosi un budget dedicato ora finanziato dall’Agenzia tedesca per lo sviluppo (GIZ), a riprova del crescente interesse tedesco verso il Sahel e verso le alternative all’opzione militare (come si dirà in seguito). Una presenza istituzionale più significativa nel Sahel contribuirebbe a rafforzare i legami tra l’Alleanza e i suoi partner regionali e a far sì che i suoi sforzi siano concentrati sulle effettive esigenze della regione.

Come detto, oggi il portafoglio dell’Alleanza del Sahel è cresciuto fino a comprendere circa 800 programmi da realizzare da qui al 2022. L’Alleanza ha talvolta faticato a scostarsi come auspicato dalle pratiche di sviluppo “tradizionali”[11]. Molti dei numerosi programmi rimangono in gran parte di natura tecnica o sono incentrati solamente sullo sviluppo economico e sul capacity building[12]. Ciò rispecchia un atteggiamento comune nelle operazioni di sicurezza e di formazione o di mentoring nella regione, in base al quale la Francia e altri attori tendono a considerare le questioni attraverso una lente tecnica e depoliticizzata, trascurando fondamentali considerazioni politiche e i processi in atto in ambito statale e civile nel Sahel, eclissate da altre priorità. Di conseguenza, fino a poco tempo fa, l’Alleanza non era riuscita a ripensare realmente il suo approccio alle iniziative per lo sviluppo nella regione.

Nonostante la crescita del numero di membri e l’espansione del suo portafoglio, per buona parte della sua esistenza l’Alleanza ha semplicemente applicato nuove etichette a progetti dei partner dell’Alleanza già in corso o già finanziati e pianificati[13]. Inoltre, nonostante la partecipazione a riunioni regionali come i vertici del G5, quasi tutte le riunioni ad alto livello si sono svolte inizialmente nelle capitali europee o a Washington. La situazione è cambiata con la prima Assemblea Generale, tenutasi a Nouakchott, Mauritania, il 25 febbraio 2020, in concomitanza con un vertice del G5[14].

Inoltre, per troppo tempo il problema relativo a se e come “ripristinare lo Stato” è passato sotto silenzio. La comunità internazionale ha posto grande enfasi sulla necessità di rimettere in piedi le istituzioni statali senza pensare a come riformarle o comunque garantirne un funzionamento più efficace. Questo è particolarmente vero nelle aree più rurali del Sahel, dove la presenza dello Stato è spesso limitata in termini di personale o servizi ma è comunque repressiva. Per affrontare questo problema è essenziale considerare quale tipo di Stato verrebbe ripristinato e come esso debba cambiare per evitare una nuova instabilità a lungo termine, soprattutto in aree come il Mali centrale (discusso in dettaglio più avanti) dove la corruzione, i fallimenti della governance e della giustizia e i conflitti comunitari hanno contribuito ad alimentare il malcontento nei confronti dello Stato. Dando almeno in apparenza prova di condividere tali preoccupazioni, la nuova giunta militare del Mali, che risponde al nome di Comitato per la salvezza del popolo, ha criticato la presunta corruzione e le carenze di governance del precedente governo e ha fatto pressione affinché i primi negoziati regionali dessero priorità alle riforme politiche e di altro tipo rispetto a una rapida transizione verso le elezioni.

In sintesi, dal momento della sua fondazione nel 2017, l’Alleanza del Sahel ha dovuto lottare per guadagnare terreno nel 2018 e nel 2019, nonostante i crescenti impegni finanziari e di altra natura da parte degli Stati membri dell’UE che hanno aderito all’Alleanza, così come da parte di altri attori internazionali.

La violenza e l’instabilità in atto nella regione hanno portato molti, tra cui alcuni dei principali Stati membri fondatori come la Germania, a concludere che l’Alleanza non sarebbe riuscita a raggiungere, nemmeno in parte, gli obiettivi prefissati. In particolare, era forte la sensazione che gli Stati locali non godessero di un sostegno sufficiente a rafforzare i meccanismi di sicurezza interna e a garantire il ritorno delle istituzioni statali nelle zone più tormentate del Mali, del Burkina Faso e del Niger. È questo senso di letargia che ha contribuito alla nascita del P3S.

Il P3S: Vecchi problemi, strumenti imperfetti

L’annuncio della nascita della Partnership per la sicurezza e la stabilità nel Sahel (P3S), un’iniziativa congiunta franco-tedesca, è stato un evento chiave del vertice del G7 di Biarritz nell’agosto 2019. L’obiettivo dichiarato del partenariato era quello di rafforzare i sistemi giudiziari e migliorare la sicurezza interna attraverso programmi di capacity-building e di formazione rivolti alle forze locali. L’attività di questo partenariato avrebbe dovuto integrare le attività degli attori internazionali. Per quanto riguarda le modalità di collegamento con l’Alleanza già costituita, si trattava di “integrare gli sforzi dispiegati nell’ambito dell’Alleanza del Sahel, sulla base della consapevolezza che, per essere efficaci, sia le misure di sviluppo a lungo termine che le misure di sicurezza rappresentano parte della soluzione all’instabilità della regione”. L’attenzione alle forze di sicurezza interne e ai meccanismi di giustizia era intesa a controbilanciare l’enfasi posta da partner internazionali come la Francia, gli Stati Uniti e l’UE sull’addestramento e la cooperazione con le forze armate regionali e a migliorare l’accesso alla governance[15].

Per la Germania, a lungo scettica nei confronti di quella che considera un’enfasi eccessiva sull’elemento militare nel Sahel, il P3S è stato da subito una priorità. Negli ultimi anni è aumentata nella regione la presenza del corpo diplomatico tedesco e delle unità di sicurezza, compresa una partecipazione significativa alla Missione di pace dell’ONU in Mali (MINUSMA), alla Missione di addestramento dell’UE in Mali (EUTM) e a quello che fino a poco tempo fa era un distaccamento autonomo di forze speciali in Niger con il compito di addestrare le forze di sicurezza nigeriane. Quest’ultima continuerà ora sotto l’egida dell’EUTM e sarà estesa a tutta la regione. Il nuovo mandato dell’EUTM, che durerà fino al 2024, prevede anche un addestramento ampliato e “l’accompagnamento fino al livello tattico” delle forze militari regionali. Sebbene il linguaggio del mandato non consenta esplicitamente il coinvolgimento in operazioni di combattimento, è sufficientemente vago da permettere potenzialmente al personale dell’EUTM di lavorare in contesti ad alto rischio a fianco delle truppe in addestramento, portandole a più diretto contatto con le operazioni militari in corso rispetto al passato. Le missioni PSDC in Mali sono state temporaneamente sospese in seguito al colpo di stato del 18 agosto.

I funzionari europei coinvolti nelle questioni del Sahel confermano che la Germania reputa importante il P3S in virtù della sua enfasi sulla stabilizzazione[16]; i francesi hanno inoltre riconosciuto la necessità di sostenere programmi che si concentrano sulla giustizia. Ciò riflette il riconoscimento da parte della comunità internazionale, in particolare della Francia, dell’attuale trascuratezza degli sforzi di sicurezza e di sviluppo rispetto alle esigenze di governance della popolazione locale[17]. Secondo alcuni funzionari interni, l’Alleanza del Sahel si è concentrata troppo sul “nesso sicurezza-sviluppo” e il P3S avrebbe colmato una lacuna importante al fine di contribuire a definire una strategia di governance più coerente per la regione[18]. Numerosi interlocutori giudicano che il P3S e l’Alleanza siano stati in parte concepiti per promuovere una più stretta cooperazione franco-tedesca sul Sahel e su questioni di difesa più ampie.

Tuttavia esiste un problema non da poco relativo al P3S: in pratica, esso non esiste. Questo è in parte dovuto alla continua confusione tra Francia, Germania e UE sul ruolo preciso e sull’organizzazione del P3S e su quali dovrebbero essere le sue responsabilità e la sua autorità sul campo. Ad oggi il P3S non ha ancora un segretariato né un mandato chiaramente definito [19]. Tuttavia, in occasione del primo incontro a livello ministeriale della Coalizione per il Sahel nel giugno 2020, il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas ha confermato con entusiasmo che il P3S rientrerà nel secondo e terzo pilastro della Coalizione. Tuttavia, resta ancora molto da fare per rendere il P3S una realtà.

La Coalizione per il Sahel: Una migliore distribuzione dei compiti o un’altra iniziativa come tante?

In aggiunta alle già numerose iniziative nel Sahel, nel gennaio 2020 la Francia e gli Stati del G5 Sahel hanno annunciato la nascita della Coalizione per il Sahel, creata in risposta all’ambiguità sul ruolo delle iniziative internazionali esistenti e alla mancanza di progressi, nonché alla luce del deterioramento dello scenario politico e di sicurezza della regione alla fine del 2019. In Mali, Burkina Faso e Niger sono aumentate le proteste contro la presenza militare straniera nel Sahel, che hanno alimentato la frustrazione di Parigi data la portata degli impegni militari, politici e di sviluppo francesi nella regione. A ciò si sono aggiunti la morte di 13 soldati francesi d’élite in un incidente di elicottero nel nord-est del Mali e i devastanti attacchi alle basi militari maliane e nigeriane da parte dello Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS), l’affiliato saheliano dello Stato islamico[20].

Il deterioramento della sicurezza ha indotto Macron a sollecitare una risposta da parte dei leader del G5 alle proteste in corso. A seguito di un attacco alla base militare nigeriana di Inatès in cui hanno perso la vita almeno 71 soldati nigeriani, il vertice originariamente previsto per il dicembre 2019 nella città francese di Pau è stato rimandato al 13 gennaio. Questa ondata di eventi ha anche sottratto energia agli sforzi iniziali volti a dare al P3S una struttura e una funzione coerente. La percezione generale della situazione da parte della Francia e la necessità di assumere una nuova direzione nella politica del Sahel sono sfociate nella creazione della Coalizione per il Sahel.

L’iniziativa, di ampia portata, è stata annunciata dal presidente del Burkina Faso Roch Marc Christian Kaboré in una conferenza stampa congiunta dopo l’incontro di Pau. La Coalizione, originariamente proposta dagli Stati del G5 a dicembre ma guidata da Parigi, prevedeva di riunire questi Stati, la Francia e tutti gli altri Paesi impegnati nel Sahel, lasciando aperta la possibilità di adesione da parte di altre nazioni[21]. La Coalizione per il Sahel è stata concepita per assorbire l’Alleanza e diverse altre partnership internazionali nella regione e per offrire uno strumento di coordinamento più efficace rispetto al mutevole e stratificato insieme di operazioni e collaborazioni in atto, in un ennesimo tentativo di dare ordine a una congerie confusa di attori e programmi.

Come l’Alleanza, la Coalizione organizzerà le sue azioni intorno a quattro pilastri: lotta al terrorismo, rafforzamento della capacità militare degli Stati regionali, sostegno al ritorno degli Stati e delle amministrazioni in tutti i loro territori e fornitura di assistenza allo sviluppo.

Il primo pilastro, che copre gli aspetti militari dell’intervento nel Sahel, è incentrato sui gruppi jihadisti regionali, in particolare l’ISGS. Oltre all’operazione Barkhane, comprende anche la nuova Task Force Takuba per le operazioni speciali capitanata dalla Francia, che dovrebbe coordinare operazioni di combattimento diretto sotto il comando francese e missioni di addestramento e assistenza per le forze armate maliane, comportando l’accompagnamento delle operazioni.

Il secondo e il terzo pilastro riguardano il P3S e le sue componenti ancora in gran parte indefinite e comprendono anche le numerose missioni di sostegno, addestramento e capacity-assistance in corso nella regione, come le operazioni dell’ONU e le attività PSDC dell’UE. Riguardano anche la formazione di amministratori statali e funzionari giudiziari oltre alle forze di sicurezza interne, nel tentativo non solo di ripristinare i servizi di base, ma anche di fornire meccanismi di accesso alla giustizia, almeno in linea teorica. Nell’aprile 2020, durante una teleconferenza congiunta UE-G5, l’UE si è impegnata a stanziare ulteriori 194 milioni di euro per rafforzare le capacità di sicurezza e di difesa dei Paesi del G5, nonché l’assistenza allo sviluppo, che rientrerebbe in buona parte nelle aree di intervento del P3S.

Infine, il quarto pilastro si concentra sullo sviluppo, ovvero principalmente sulle attività dell’Alleanza del Sahel. I partecipanti e gli osservatori della Coalizione per il Sahel hanno elogiato i “primi risultati” dell’Alleanza e hanno chiesto maggiori sforzi ai suoi partner e un più stretto coordinamento con le attività di sicurezza. Hanno anche chiesto un impegno costante affinché le iniziative siano più in linea con le priorità stabilite dal G5 Sahel. Inoltre, hanno domandato ai donatori di mantenere le promesse di finanziamento del PIP del G5 risalenti al febbraio 2018, segno che alcuni degli sforzi di finanziamento e di coordinamento si sono arenati, anche se l’UE e il G5 continuano a introdurre nuovi tentativi di partenariato come il Cadre d’Actions Prioritaires Integré (CAPI), annunciato durante il vertice del G5 del febbraio 2020 a Nouakchott. Come le precedenti iniziative, il CAPI si concentra su programmi a impatto rapido “realistici, misurabili e flessibili” lungo l’asse sicurezza-sviluppo. Il CAPI sostiene un maggiore coordinamento e legami finanziari più stretti tra l’UE e il G5, con l’esplicito scopo di integrare sicurezza, sviluppo e governance (anche se con ancora poca chiarezza su come il partenariato raggiungerà tale integrazione).

Nessuna delle strutture della Coalizione esisteva ancora quando ne è stata annunciata la creazione. Per mesi i partner europei della Francia sono stati in gran parte tenuti all’oscuro di ciò che avrebbe comportato nella pratica[22]. Solo all’inizio di febbraio l’inviato dell’ambasciata francese per il Sahel Christophe Bigot è stato nominato segretario generale della Coalizione. Come per l’Alleanza del Sahel, pare che a un certo punto il segretariato della Coalizione sarà spostato da Parigi a Bruxelles, almeno in parte per europeizzare la sua attività[23].

Alla fine di giugno 2020 i capi di Stato del G5 e la Francia si sono riuniti a Nouakchott per valutare i progressi compiuti dalla Coalizione. Hanno celebrato quelli che hanno descritto come significativi, seppur fragili, passi avanti in ambito militare; al contempo vari leader, e Macron in particolare, hanno evidenziato il preoccupante aumento delle vittime civili e dei presunti abusi da parte delle forze di sicurezza e delle milizie regionali. Hanno messo in guardia contro un’ulteriore etnicizzazione dei conflitti della regione e, in particolare, contro la presa di mira delle comunità Peul, un grande gruppo etnico presente in tutto il Sahel, oggetto di ripetuti attacchi a seguito di accuse di sostegno ai gruppi jihadisti. Se questa presa di coscienza è benvenuta, essa mostra anche quali sfide siano insite in approcci che favoriscono il rafforzamento e il potenziamento di Stati talvolta presumibilmente coinvolti nella repressione delle popolazioni civili o nella creazione delle condizioni in cui tali abusi e uccisioni possono continuare a verificarsi. Questo è il rischio che si corre concentrandosi sul “ripristinare lo Stato” senza apportare cambiamenti significativi al funzionamento e al comportamento delle autorità statali nei confronti delle popolazioni, un rischio che riguarda alcune delle componenti meno consolidate della Coalizione per il Sahel.

2020: Progressi faticosi

Dal vertice di Pau del gennaio 2020, la Coalizione per il Sahel, il P3S e l’Alleanza per il Sahel si sono evoluti dando vita ad alcuni promettenti cambiamenti ma evidenziando anche ulteriori problemi futuri.

Secondo diverse fonti coinvolte nell’Alleanza per il Sahel, l’organizzazione ha intrapreso una sorta di reset lo scorso anno per concentrarsi maggiormente sulla mappatura completa e la raccolta di informazioni su tutti i programmi facenti capo a essa[24], con l’obiettivo di migliorare il coordinamento degli stessi tra i diversi partner esecutivi dell’Alleanza. Nel giugno 2020 l’Alleanza ha pubblicato una mappa interattiva per ciascun programma in cui il relativo budget è consultabile per paese o per categoria. Se questo ha da un lato aumentato la trasparenza, dall’altro ha rivelato come, anche in ambiti come la governance o la sicurezza interna, i progetti dell’Alleanza rimangano ancora spesso altamente tecnici e incentrati sulle infrastrutture senza raggiungere l’integrazione olistica di sviluppo, sicurezza e governance, rischiando di replicare proprio quelle pratiche per lo sviluppo che l’Alleanza si proponeva di evitare.

Se è sconfortante considerare quanto tempo ci sia voluto per portare a termine la mappatura dei programmi[25], la leadership e i gruppi di lavoro dell’Alleanza del Sahel ora dispongono presumibilmente di una panoramica più chiara delle riforme di governance necessarie, e concordano sulla necessità di non replicare semplicemente le pratiche per lo sviluppo del passato, spesso sfociate in infrastrutture difficili da sostenere, progetti lasciati a metà e una valutazione limitata dell’efficacia dell’azione o delle esigenze locali. Uno specialista di conflitti e sviluppo che ha lavorato a stretto contatto con l’Alleanza osserva che le discussioni interne sono passate dalla mappatura e dal rebranding dei programmi esistenti alla discussione di nuove strategie, come l’adozione di un approccio più interconnesso e territoriale che guardi ai problemi a livello regionale piuttosto che solo a livello nazionale[26]. Non si tratta certo di una nuova ambizione per l’Alleanza, ma dimostra un impegno più serio nella costruzione di un approccio integrato, sostenuto da un’aperta condivisione di informazioni e di analisi tra gli attori della sicurezza, dello sviluppo e umanitari[27]. In effetti, ci sono voluti quasi tre anni perché l’organizzazione si avvicinasse in modo coerente a ciò che si era prefissata di fare all’inizio della sua esistenza, ovvero fornire un’alternativa a modelli di sviluppo inefficaci nella regione e tenere maggiormente in conto questioni trasversali come la governance e la politica nella pianificazione di futuri interventi di sviluppo.

L’Alleanza sembra adesso prendere le questioni di governance più seriamente di quanto non facesse all’inizio, in particolare riguardo alla definizione del ruolo dello Stato e delle strutture di governance nazionali e locali negli sforzi di stabilizzazione. Secondo un funzionario coinvolto nel coordinamento delle azioni per lo sviluppo, mentre la cooperazione tra i militari e gli attori in questo ambito è migliorata in modo significativo, “è emersa a poco a poco la necessità di riportare la politica al centro di queste tematiche”, in particolare per quanto riguarda le modalità di attuazione della governance[28]. Tra gli attori dello sviluppo e quelli militari c’è ora maggiore consapevolezza, in particolare, del fatto che il semplice ripristino delle funzioni statali in regioni tormentate non è sufficiente e che gli Stati saheliani hanno bisogno di riforme profonde, di un migliore accesso alla giustizia e di forze di sicurezza imparziali, così come di sistemi politici più equi e rappresentativi, piuttosto che di un semplice esercizio di capacity-building[29]. Si tratta di una svolta importante, in quanto per assicurare che gli sforzi di sviluppo e di sicurezza abbiano successo e durino nel tempo è fondamentale considerare non solo il ritorno dello Stato ma il tipo di Stato che ritorna.

In una dichiarazione ufficiale dopo la prima Assemblea Generale dell’Alleanza del Sahel, l’Alleanza ha adottato un tono molto più deciso sulle questioni politiche rispetto alle precedenti comunicazioni, segno del crescente riconoscimento dell’importanza della politica nel lavoro di sviluppo. La dichiarazione sottolinea la necessità non solo di razionalizzare i finanziamenti e l’organizzazione dei progetti, ma anche di “ambiziose riforme delle funzioni pubbliche” degli Stati del G5. A tal fine, la dichiarazione auspicava la creazione di un dialogo ad alto livello tra l’Alleanza del Sahel e gli Stati del G5 sulle riforme della governance, sui tempi per la loro attuazione e su come i membri dell’Alleanza potrebbero facilitare questi processi[30]. Ciò è anche in linea con l’enfasi posta dall’Alleanza sulla responsabilità reciproca, che ha portato alla sospensione temporanea di alcuni aiuti di bilancio in Mali quando i progressi sui progetti relativi alla sicurezza sono stati inferiori alle aspettative[31]. Tale responsabilità può essere molto utile a garantire i progressi e la dimensione locale di questi progetti, ma deve essere costante e applicata in senso più ampio, anche quando le forze di sicurezza statali o allineate allo Stato e le milizie commettono abusi contro i civili.

Sebbene si tratti di un impegno costruttivo verso i processi di riforma, non è chiaro come un dialogo ad alto livello possa tradursi in un cambiamento reale. Gran parte della comunità internazionale sta esercitando pressioni per reintegrare lo Stato piuttosto che per riformarlo, o per fare l’uno prima dell’altro, in aree particolarmente fragili (come illustrato dalla discussione sulla Coalizione in precedenza e di Konna a seguire). Ma l’effettiva attuazione di queste idee da parte dell’Alleanza e il loro impatto sul terreno rimangono da vedere. Le discussioni e i cambiamenti evidenziati hanno avuto luogo in gran parte poco prima che la crisi del COVID-19 colpisse l’Europa e l’Africa. Di conseguenza, alcune discussioni e processi a livello di attività sono stati temporaneamente sospesi per permettere al personale di affrontare questioni più urgenti relative al virus.

La crescente cooperazione in materia di sicurezza nella regione e l’emergere della Coalizione per il Sahel potrebbero relegare a un ruolo secondario importanti discorsi sulla governance all’interno dell’Alleanza, dal momento che tali questioni rientrano più chiaramente nel P3S e nei pilastri due e tre della Coalizione. Quasi tutti i funzionari interpellati per questa analisi hanno espresso una certa confusione circa la responsabilità per il coordinamento e l’attuazione dei quattro pilastri della Coalizione per il Sahel. La segreteria della Coalizione dovrebbe tentare di risolvere questi problemi di organizzazione nel modo più rapido ed efficiente possibile, in modo che i meccanismi possano diventare operativi. Diversi interlocutori hanno anche espresso preoccupazione per il fatto che molti di questi processi sono ancora francocentrici, con particolare riferimento a dichiarazioni di iniziative ad hoc che la Francia consegna all’UE nella speranza di dare coerenza a un confuso miscuglio di programmi, idee e attori.

Finora sono pochi i segnali incoraggianti di un serio sforzo inteso ad affrontare le questioni di governance, che rischiano di essere perse di vista. Ad esempio, la Coalizione per il Sahel, lanciata ufficialmente nell’aprile 2020, ha riunito il 12 giugno più di 60 rappresentanti in una grande riunione ministeriale, a cui hanno partecipato anche i ministri degli Esteri della Mauritania e della Francia e l’Alto Rappresentante dell’UE Josep Borrell. Le “conclusioni informali” dell’incontro hanno sottolineato la necessità di affrontare le cause strutturali dell’instabilità nel Sahel, individuate in “povertà, crescita e sviluppo fragili, shock climatico”, ma non fanno menzione delle sfide di governance e del loro rapporto con la stabilizzazione.

L’incontro e il lancio ufficiale della Coalizione e una riunione tenutasi a fine giugno a Nouakchott hanno offerto l’opportunità di riflettere sui cambiamenti del quadro della sicurezza nel periodo successivo al vertice di Pau. I funzionari francesi, in particolare, hanno sottolineato il miglioramento del coordinamento in seguito all’istituzione di un Centro di Comando Congiunto (PCS) a Niamey, dove l’operazione Barkhane, il comando della Forza congiunta del G5 e altri partner possono condividere l’intelligence e pianificare insieme le operazioni. Nello stesso periodo Barkhane e la Forza congiunta del G5 hanno lanciato insieme diverse azioni, tra cui l’operazione su larga scala Sama, che è durata vari mesi e ha coinvolto migliaia di soldati, in gran parte provenienti dai Paesi del G5, nonché gli sforzi in corso per attaccare e infastidire le forze jihadiste nella regione di Liptako-Gourma.

Queste operazioni, così come la recente uccisione di Abdelmalek Droukdel, leader di Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), da parte delle forze speciali francesi e la cattura di Mohamed al-Mrabat (noto anche come Higo al-Mauritani), hanno portato i funzionari francesi, in particolare, a parlare di un miglioramento dello scenario di sicurezza e a offrire speranze per il prosieguo degli sforzi volti a indebolire i gruppi jihadisti[32]. Allo stesso modo, il 18 giugno scorso il ministro francese delle forze armate, Florence Parly, ha affermato di fronte alla commissione di difesa del Senato francese che “siamo sulla strada giusta” e che la situazione nel Sahel sta migliorando, anche se resta precaria ed è “troppo presto per cantare vittoria”. Tuttavia, tutti questi progressi rimangono in gran parte incentrati sulla sicurezza e potrebbero rivelarsi illusori.

Negli ultimi mesi Parly, come altri leader europei, si è fatta sentire molto di più nel condannare le presunte ondate di attacchi contro i civili da parte delle forze di sicurezza saheliane che hanno suscitato una feroce condanna da parte degli osservatori internazionali e degli osservatori dei diritti umani. Parly si è dichiarata convinta che i leader saheliani sapessero cosa c’era in gioco e comprendessero i costi degli attacchi ai civili e che “non possiamo conquistare il cuore di nessuno se permettiamo che abusi come quelli a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi possano continuare “. Ad agosto anche Borrell ha rilasciato una dichiarazione forte contro gli abusi in Mali e ha sottolineato la necessità di perseguire i responsabili compresi, se necessario, anche i membri delle forze armate del Paese.

Queste dichiarazioni, come quella di Macron a Nouakchott, mostrano una maggiore consapevolezza pubblica della necessità di proteggere i civili dagli abusi e dell’impatto di questi crimini sugli sforzi per stabilizzare la regione. Tuttavia, per quanto forti, queste dichiarazioni dovranno essere seguite da azioni concrete se ambiscono ad avere credibilità ed efficacia. Per ora, l’azione concreta rimane limitata, dato che il P3S sta ancora prendendo forma e anche i programmi francesi ed europei ampliati incontreranno probabilmente difficoltà nel tentativo di apportare cambiamenti significativi. Ad esempio, nonostante le dichiarazioni ottimistiche sulla Task Force Takuba e i rinforzi più recenti, è improbabile che il grosso della missione sia operativo prima del 2021. Inoltre, sebbene il mandato dell’EUTM, in scadenza solo nel 2024, preveda un ampio programma di formazione e di capacity-building anche al di fuori del Mali, non sarà possibile accompagnare i soldati in addestramento nelle operazioni di combattimento, limitando così l’efficacia di quanto fatto senza poter monitorare le violazioni dei diritti umani.

Approcci integrati in azione? Il PSDG nel Mali

Fin dalle prime fasi, l’Alleanza del Sahel ha cercato di perseguire nuovi approcci nella programmazione di coordinamento e sviluppo. Alcuni dei principali progetti pilota si concentrano nella città di Konna, nel Mali, dove le precedenti iniziative della Banca Mondiale sono state portate avanti sotto l’egida dell’Alleanza e poi rietichettate come tali. Questi progetti intendono applicare l’approccio integrato che l’Alleanza è stata originariamente creata per promuovere. Sempre a Konna anche l’UE sta perseguendo ambiziosi progetti per ripristinare la sicurezza nella zona, a dimostrazione del suo approccio integrato alla pace e alla sicurezza. Tra questi, il Secured Development and Governance Pole (PSDG) consiste nella creazione di una base fortificata e autosufficiente per un distaccamento della Guardia Nazionale e della Gendarmeria del Mali, anche se in futuro essa potrebbe ospitare altre istituzioni statali. L’obiettivo del PSDG è creare isole di sicurezza in espansione e ripristinare l’autorità statale in luoghi particolarmente difficili. L’UE ha già stanziato fondi per altre quattro iniziative simili a quella di Konna nella regione di Mopti e mira a lanciarne fino a 15-20 in Mali e forse anche altrove[33].

Tuttavia, anche se l’approccio integrato sembra aver fatto qualche progresso, non riesce ancora a fornire un modello replicabile in altri settori.

La scelta di Konna per i progetti di ricostruzione è comprensibile, alla luce dell’importanza sia simbolica sia economica della città. Quando i gruppi jihadisti hanno iniziato ad addentrarsi nel Mali centrale nel gennaio 2013, hanno occupato per breve tempo Konna spingendo le truppe maliane e francesi ad agire per proteggere la città di Mopti, liberando rapidamente il nord del Mali dal controllo jihadista nell’ambito dell’operazione Serval. Tuttavia la città e le aree circostanti hanno subito danni significativi nell’attacco e nel contrattacco. Insieme alle cicatrici fisiche, i danni economici sono ingenti e duraturi per un crocevia commerciale così importante e le attività di pesca non sono ancora riprese completamente dal 2015, quando la situazione della sicurezza nel Mali centrale ha cominciato a deteriorarsi.

Nel 2018 il programma della Banca Mondiale mirava a incoraggiare la ricostruzione economica a Konna. Ora riclassificato nella categoria “governance” dell’Alleanza del Sahel, quello di Konna è stato uno dei primi cinque progetti prioritari intesi a mettere in atto interventi innovativi in aree pericolose o ritenute a rischio. Esso ha anche dimostrato come i progetti “multi-settoriali e multi-donatore” possano assumere un ruolo centrale nella programmazione dell’Alleanza, soddisfando all’apparenza lo scopo generale dichiarato del partenariato.

Il progetto è assistito da MINUSMA e ha riguardato il ripristino delle infrastrutture pubbliche. Oltre allo sminamento e alla ripristino del porto di pesca di Konna, il progetto ha permesso di ricostruire, ad aprile 2019, 50 chilometri di strada rurale (anche grazie al sostegno dell’AFD nell’ambito dell’Alleanza del Sahel), di formare 200 persone in attività volte a rilanciare la produzione di latte in un’area con importanti risorse pastorali, di formare diverse migliaia di giovani e di persone vulnerabili in diverse attività professionali, di lavorare a programmi di alfabetizzazione per le donne e di contribuire alla creazione di una piccola rete elettrica nelle zone rurali intorno a Konna.

Nel corso di una presentazione a Washington nel 2019, un rappresentante dell’Alleanza del Sahel ha parlato dell'”approccio Konna” come esempio di progresso nella cooperazione operativa, definendolo un “progetto emblematico” dell’Alleanza il cui approccio è stato sperimentato anche a Ménaka (sotto l’egida dell’AFD), Gao (a guida tedesca) e Ansongo, vicino al confine con il Niger (con la Banca Mondiale) [34]. L’esperienza di queste operazioni sperimentali ha aiutato l’AFD a plasmare in particolare un approccio integrato alle operazioni di sviluppo nelle zone a rischio[35]. Tuttavia, si trattava di progetti molto orientati alle operazioni di sviluppo tradizionali e scarsamente integrati in seno a obiettivi politici e di sicurezza più ampi.

Mentre questi programmi erano in corso, lo scenario della sicurezza a Konna e dintorni è rimasto fragile. I pattugliamenti dell’esercito congiunto MINUSMA-maliano sono iniziati alla fine del 2018 e hanno contribuito a ripristinare un certo livello di sicurezza e di attività economica, ma non hanno potuto sostituire un’effettiva presenza governativa a Konna o nelle aree circostanti. Alla fine del 2019 l’UE ha cercato di adattare il suo approccio al Plan de Sécurisation Intégrée des Régions du Centre (PSIRC) del governo maliano. Il programma, concepito con il significativo sostegno e il contributo europeo e in particolare del Programma di capacità e assistenza dell’UE (EUCAP Sahel-Mali), mirava a creare centri di sicurezza e di governance a Mopti e Segou. Come affermato in un documento del 2018 di questo autore, tali programmi non sono riusciti a risolvere i problemi di governance e hanno seguito un processo di attuazione lento e disomogeneo. Ad esempio, il fatto che la postazione militare costruita nell’ambito del PSDG Konna, la prima del suo genere, sia stata inaugurata solo nell’autunno del 2019 è prova del ritardo nell’esecuzione.

Nel settembre 2019 l’ambasciatore Boubacar Gaoussou Diarra, diplomatico maliano con grande esperienza nella risoluzione dei conflitti in Africa, è stato nominato segretario permanente responsabile degli aspetti politici della gestione delle crisi nel Mali centrale dall’allora primo ministro Boubou Cissé, segnale per l’UE di un rinnovato impegno a favore di un approccio più olistico nell’attuazione del PSIRC[36]. Nell’ambito delle quattro componenti del PSIRC (sicurezza, governance, sviluppo socioeconomico e comunicazione), la missione EUCAP Sahel-Mali sostiene gli sforzi di sicurezza che riguardano il rafforzamento della sicurezza locale e del sistema giuridico, mentre le altre tre ricevono sostegno direttamente dalla missione UE in Mali. La delegazione ha inoltre inviato tre esperti per rafforzare la componente di governance del PSIRC, uno presso l’ufficio di Diarra e due rispettivamente presso i governatori di Mopti e Segou.

Un documento interno del 2020 che delinea le priorità, gli obiettivi e le azioni del PSIRC e del PSDG mostra la chiara comprensione da parte dei responsabili del progetto della necessità di un approccio che integri sicurezza, sviluppo e governance [37]. Nell’ambito dell’approccio integrato, il documento chiarisce che la sicurezza è solo un mezzo per consentire lo sviluppo socio-economico e il ritorno delle istituzioni statali. La presenza delle forze di sicurezza è concepita per costruire legami con le comunità locali e scoraggiare sia il banditismo sia gli abusi da parte delle forze di sicurezza.

L’idea di istituire zone sicure è centrale per il PSDG e, in teoria, è stata concepita per consentire a piccoli distaccamenti di forze di sicurezza di impegnarsi nei pattugliamenti senza troppi rischi, di istituire servizi sanitari per le comunità locali e di migliorare la comunicazione con le istituzioni e i rappresentanti dello Stato. Questi funzionari statali potrebbero anche restare all’interno di tali zone se l’ambiente esterno si rivelasse troppo rischioso. Queste basi potrebbero, secondo i piani attuali, ospitare giudici di stanza con responsabilità ampliate che possano esprimersi su questioni relative, per esempio, alla gestione del territorio o a controversie sull’allevamento degli animali. Si tratta di tematiche che, in aree fortemente pastorali, hanno talvolta eroso la credibilità dello Stato a favore dei gruppi militanti, a causa di una radicata percezione del favoritismo statale nei confronti delle comunità agricole.

L’UE e i suoi Stati membri considerano il modello PSDG Konna promettente e hanno in programma di replicarlo altrove [38], in quanto comporta una serie di vantaggi rispetto ai modelli precedenti. Secondo un diplomatico europeo coinvolto nel progetto, il PSDG di Konna rappresenta l’unico concetto che, almeno per il momento, integra pienamente sviluppo e sicurezza. Ha permesso la ripresa delle attività commerciali e ha ottenuto nel complesso risultati positivi in termini di sicurezza[39]. I funzionari militari e diplomatici francesi sembrano condividere questa prospettiva, sostenendo che a Konna, e più in generale nell’Alleanza del Sahel, si intravedono gli inizi di una “visione condivisa” tra partner al di là delle agenzie governative francesi[40]. Riconoscono il potenziale di creare “bolle” in cui le forze di sicurezza interne sostengono la protezione dei civili e facilitano il ripristino dei servizi di base e delle istituzioni statali[41].

Anche se la creazione di una zona sicura nella sua forma più elementare non è, in termini generali, particolarmente esosa (con un costo unitario pari a poco più di 1 milione di euro), la manutenzione e l’approvvigionamento di queste basi richiederanno per un certo periodo di tempo un sostegno importante da parte dell’UE e dei potenziali partner dell’Alleanza. Inoltre, mentre la sicurezza sembra essere gradualmente aumentata nella città di Konna, i maliani che lavorano nelle zone limitrofe lamentano il fatto che i gruppi militanti rimangono nelle vicinanze, in alcuni casi poco fuori dai villaggi e sulla sponda opposta del fiume Niger[42]. Altri rapporti suggeriscono che gruppi radicali e altre milizie rimangono attivi non lontano da Konna, mentre l’insicurezza resta diffusa in altre parti di Mopti, sia in prossimità del Delta del Niger sia più vicino al confine con il Burkina Faso.

L’approccio integrato messo in pratica a Konna dimostra che rimangono sfide significative da affrontare, poiché le attuali iniziative di sicurezza non hanno ancora agevolato un reale progresso in materia di governance. Allo stesso tempo, il modello dimostra chiaramente i limiti dell’attuale concezione internazionale di governance e come la sicurezza e lo sviluppo siano spesso prioritari rispetto agli obiettivi di governance. Anche in questo caso, parlare di “governance” nelle comunità in fase di sviluppo rischia di limitarsi al ritorno dello Stato e al rafforzamento delle sue funzioni, in particolare nell’ambito della giustizia e della sicurezza interna. Potrà sembrare il modello da preferire per un approccio integrato, ma non è necessariamente di buon auspicio per il futuro di molti programmi dell’Alleanza all’interno della Coalizione per il Sahel, anche quando i leader politici e i funzionari diventano più consapevoli dell’importanza di un approccio realmente integrato e multidimensionale.

Conclusioni

Talvolta può essere difficile per i responsabili politici tenere traccia della moltitudine di programmi e strategie in atto nel Sahel, non da ultimo perché devono anche monitorare le iniziative e gli organi aggiuntivi intesi a garantirne il coordinamento. Al momento della sua fondazione, l’Alleanza del Sahel si riprometteva di adottare un nuovo approccio per integrare le strategie e gli strumenti per la sicurezza, lo sviluppo e la governance. Fin dall’inizio, tuttavia, non era chiaro se l’Alleanza fosse un meccanismo di coordinamento, uno strumento per raccogliere fondi o un raggruppamento più strutturato in grado di ridurre gli sprechi e favorire una nuova consapevolezza e una nuova modalità operativa per varie componenti della comunità internazionale.

Le carenze nell’organizzazione e nella comunicazione con e all’interno dell’Alleanza del Sahel ne hanno rallentato lo sviluppo. Dopo ripetuti sforzi per rinnovarla e rilanciarla, quanto fatto per la definizione di un nuovo approccio allo sviluppo, alla sicurezza e alla politica regionale sembrava aver portato frutto ­- almeno fino a quando la pandemia di COVID-19 non ha ulteriormente complicato un processo già di per sé estremamente intricato. L’aggiunta di nuove iniziative congiunte, come il P3S e ora la Coalizione per il Sahel, rischia di complicare invece che razionalizzare gli sforzi, e mentre il denaro continua a confluire nella regione, la sicurezza dei civili e la stabilità governativa rimangono fragili.

Finora, nell’ambito delle iniziative internazionali per il Sahel, i progressi volti ad affermare la rilevanza della governance sono limitati e le nuove iniziative potrebbero rendere ancora più difficile portare a termine gli sforzi concertati in tal senso. Più specificamente, sono tre i rischi da considerare. In primo luogo, il rischio di concentrarsi principalmente sulla sicurezza poiché, seppure essenziale, qualsiasi approccio alla sicurezza nella regione deve essere accompagnato da obiettivi a medio e lungo termine. Il secondo rischio è che, laddove la governance è stata presa in considerazione o più pienamente integrata nelle operazioni, queste nuove iniziative si concentrino generalmente sul ripristino dello Stato senza prestare sufficiente attenzione al perpetuarsi dei problemi di governance del passato. Infine, considerato che la Francia continua a svolgere un ruolo militare e politico dominante nella regione, permane la tensione riguardo a iniziative e programmi guidati da Parigi con scarsi contributi da parte dei partner, anche se i funzionari francesi stanno cercando di garantire una maggiore condivisione degli oneri e una discussione più aperta. In tal senso, i partner europei e internazionali dovrebbero prendere in considerazione le seguenti azioni:

  1. Nell’ambito del quadro di responsabilità reciproca dell’Alleanza del Sahel, esercitare pressioni sul fronte dei finanziamenti per aumentare la protezione dei civili e promuovere l’adozione di criteri di governance di riferimento. Ciò potrebbe tradursi nel ritiro del sostegno finanziario e in sanzioni per gli ufficiali governativi o militari vicini alle milizie che commettono crimini contro i civili o che commettono abusi.
  2. Assicurare che i meccanismi di coordinamento come il segretariato della Coalizione del Sahel esercitino un reale peso istituzionale. Sebbene l’eccessiva istituzionalizzazione dei meccanismi di coordinamento costituisca un rischio, gli sforzi in questo senso devono essere realmente multilaterali e devono poter contare su personale e finanziamenti adeguati per ottenere l’impatto desiderato; altrimenti, essi rischiano di aggiungere ulteriore burocrazia senza migliorare i processi reali sul campo.
  3. Ampliare le missioni multilaterali di addestramento come EUTM, garantendo al tempo stesso il coinvolgimento di tutte le parti nelle azioni sul campo, quando le condizioni politiche consentono la piena ripresa dei programmi. Ciò eliminerebbe almeno in parte l’ambiguità del linguaggio degli attuali mandati. Se i diversi Paesi applicano standard e condizioni diverse per consentire alle truppe di impegnarsi in combattimento, è essenziale che i formatori accompagnino le forze di sicurezza dei partner sul campo per garantire un migliore addestramento e per contribuire a prevenire gli abusi contro i civili.
  4. Prendere seriamente in considerazione il ricorso alle sanzioni all’interno del Comitato per le sanzioni dell’ONU per il Mali o di un’autorità regionale allargata, valutando altre misure punitive contro funzionari governativi o membri delle forze di sicurezza che siano coinvolti in crimini contro i civili o che abbiano collaborato con gruppi armati non statali coinvolti in tali abusi.

Informazioni sull’autore

Andrew Lebovich è Policy Fellow del Programma Africa dell’ECFR e dottorando alla Columbia University, dove sta lavorando a una tesi sulla storia dei movimenti riformisti musulmani in Algeria, Mali e Senegal.

Ringraziamenti

L’autore desidera ringraziare Yvan Guichaoua e diversi altri revisori per i loro commenti sul presente documento.

Questo progetto è stato reso possibile dal sostegno della Compagnia di San Paolo e del Ministero degli Esteri della Norvegia al programma di ECFR per il Medio Oriente e il Nord Africa.


[1] Intervista con uno specialista regionale della riforma del settore della sicurezza, agosto 2018.

[2] Interviste con specialisti europei e regionali dello sviluppo, maggio e giugno 2020.

[3] Intervista con un alto diplomatico francese, agosto 2018.

[4] Comunicazione personale con lo specialista del Sahel Yvan Guichaoua, giugno 2020.

[5] Osservazioni di un alto ufficiale militare francese, Parigi, novembre 2019.

[6] Intervista con uno specialista dello sviluppo regionale, giugno 2020.

[7] Intervista con uno specialista dello sviluppo regionale, giugno 2020.

[8] Intervista con uno specialista dello sviluppo regionale, giugno 2020.

[9] Intervista con uno specialista dello sviluppo regionale, giugno 2020.

[10] Intervista con uno specialista dello sviluppo regionale, giugno 2020.

[11] Intervista a un diplomatico regionale e specialista dello sviluppo, marzo-giugno 2020

[12] Presentazione dell’Alleanza del Sahel, Washington, aprile 2019 (documento in possesso dell’autore).

[13] Intervista con un esperto di sviluppo regionale e di sicurezza, giugno 2020.

[14] Intervista con uno specialista dello sviluppo regionale, giugno 2020.

[15] Intervista con un diplomatico europeo, giugno 2020.

[16] Intervista con un funzionario dell’UE coinvolto nella pianificazione del Sahel, giugno 2020.

[17] Intervista con uno specialista dello sviluppo regionale, giugno 2020.

[18] Intervista con un funzionario dell’Alleanza del Sahel, giugno 2020.

[19] Intervista con diplomatici e funzionari politici europei, giugno 2020.

[20] Intervista a funzionari dell’UE e francesi e a diplomatici europei distaccati in Sahel, maggio e giugno 2020. L’ISGS rientra nella Provincia dello Stato Islamico dell’Africa Occidentale nelle comunicazioni dello Stato islamico.

[21] Intervista con un diplomatico francese, giugno 2020.

[22] Intervista con un funzionario tedesco, giugno 2020.

[23] Intervista con un funzionario dell’UE coinvolto nella pianificazione del Sahel, giugno 2020.

[24] Intervista con specialisti e funzionari europei e del Sahel coinvolti nelle attività dell’Alleanza del Sahel, maggio e giugno 2020.

[25] Intervista con un funzionario dell’UE coinvolto nella pianificazione del Sahel, giugno 2020.

[26] Intervista con uno specialista dello sviluppo regionale e della sicurezza, giugno 2020

[27] Intervista con uno specialista dello sviluppo regionale e della sicurezza, giugno 2020; intervista con un funzionario francese per lo sviluppo, giugno 2020.

[28] Intervista con un responsabile dello sviluppo regionale, giugno 2020.

[29] Intervista con un funzionario francese per lo sviluppo, giugno 2020.

[30] Intervista con un funzionario dell’Alleanza del Sahel, giugno 2020.

[31] Intervista con un diplomatico francese, giugno 2020.

[32] Intervista con un alto ufficiale militare francese, maggio 2020.

[33] Intervista con un alto diplomatico europeo in Mali, giugno 2020; revisione della pianificazione interna dell’UE e dei documenti di presentazione forniti all’autore.

[34] Presentazione dell’Alleanza del Sahel, Washington, aprile 2019 (documento in possesso dell’autore).

[35] Comunicazione con un funzionario dello sviluppo regionale, luglio 2020.

[36] “Pôles sécuritisés de développement et de gouvernance (PSDG)”, documento non datato in possesso dell’autore. Salvo diversa indicazione, le seguenti informazioni provengono da questo documento.

[37] “Pôles sécuritisés de développement et de gouvernance (PSDG)”.

[38] Interviste a diplomatici europei con sede in Mali, maggio e giugno 2020.

[39] Intervista con un diplomatico europeo in Mali, maggio 2020.

[40] Intervista con un alto ufficiale militare francese, maggio 2020.

[41] Intervista con un diplomatico francese, giugno 2020.

[42] Intervista con ricercatori e specialisti della sicurezza maliani, giugno 2020.

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