Strumenti di potere: La proliferazione dei droni in Medio Oriente e Nord Africa

Gli Stati della regione MENA si stanno sempre più impegnando nella progettazione e produzione dei loro droni. L’UE dovrebbe rispondere investendo a sua volta in questa tecnologia e creando un sistema condiviso di responsabilità per l’uso di tali sistemi.

In this photo released on Tuesday, Jan. 5, 2021 by the Iranian army, drones are displayed prior to a drill, in an undisclosed location in Iran. The Iranian military began a wide-ranging, two-day aerial rill in the country’s north, state media reported, featuring combat and surveillance unmanned aircraft, as well as naval drones dispatched from vessels in Iran’s southern waters. (Iranian Army via AP)
Presentazione di droni militari prima di un’esercitazione, in una località non specificata dell’Iran (5 gennaio 2021)
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Nell’attuale corsa globale al riarmo, il Medio Oriente e Nord Africa non sta certo sfigurando. Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), nell’ultimo decennio la regione è stata quella che ha importato più armamenti al mondo dopo Asia e Oceania. I Paesi nell’area MENA, tuttavia, non sono soltanto grandi importatori di armi. Essi puntano sempre di più a sviluppare le proprie capacità di difesa al fine di diventare esportatori. Il loro obiettivo è quello di inserirsi nel lucroso settore della difesa, ridurre la pressione sui loro bilanci grazie alla produzione locale e sostenere gli alleati in tutta la regione con i sistemi militari. Tale tendenza non avrà conseguenze solo sulla sicurezza della regione ma anche sull’Europa e sul modo in cui si rapporta con Stati che non condividono gli stessi standard etici dei Paesi europei.

A fare da apripista agli altri Paesi dell’area in questo contesto è stata la Turchia. Ankara sta raccogliendo i benefici geopolitici della produzione e della vendita di veicoli aerei senza pilota (UAV o droni), soprattutto in termini di sicurezza e capacità di deterrenza. La Turchia, infatti, ha utilizzato i droni per proteggere i propri interessi di politica estera in Siria e nel Mediterraneo orientale e per estendere la propria influenza al di fuori della regione, contribuendo per esempio alla vittoria dell’Azerbaigian nel conflitto del 2020 con l’Armenia per il Nagorno-Karabakh. Se Ankara ha potuto assumere questo ruolo è stato perché ha impiegato anni per sviluppare una solida competenza tecnologica e una base industriale. Altri Paesi ora ne seguono l’esempio, basti pensare agli Emirati Arabi Uniti, che al momento stanno sviluppando una propria industria dei droni e hanno impiegato tali dispositivi a sostegno dei propri alleati e partner in Libia, Yemen ed Etiopia.

Le aziende locali stanno ora investendo massicciamente nei sistemi senza pilota, in particolare in quelli aerei da combattimento (UCAV), e nelle munizioni circuitanti, ossia missili in grado di rimanere in volo per un certo periodo di tempo prima di identificare un bersaglio e attaccarlo. Questi sistemi hanno dato ottimi risultati in zone di guerra come la Libia e la Siria. Le società turca Baykar e la Israel Aerospace Industries hanno scalato le classifiche dei produttori globali di droni. A rendere possibile l’ampliamento della loro presenza sul mercato sono stati i loro sistemi innovativi e relativamente economici, come l’UCAV TB-2 e le munizioni circuitanti Harpy, che sono già state ampiamente utilizzata in battaglia, anche in Ucraina. La spendibilità, l’economicità e l’efficacia del TB-2 turco lo hanno reso il drone più venduto della storia: infatti, almeno dieci Paesi utilizzano già tale sistema e altrettanti ne stanno negoziando l’acquisto, dando così il via all’ascesa della Turchia come potenza mondiale nell’ambito della tecnologia dei velivoli a pilotaggio remoto.

La regione è destinata a diventare uno dei maggiori hub al mondo per quanto riguarda l’uso dei droni militari. Senza le limitazioni legali e i vincoli etici associati all’uso di sistemi statunitensi o comunque occidentali, gli Stati della regione potranno capitalizzare sui droni e sulle munizioni circuitanti prodotti localmente per ridurre la propria dipendenza dai prodotti occidentali. I benefici di questa strategia includono la mitigazione del rischio di interruzioni della catena di approvvigionamento, l’aumento del margine di manovra in quei momenti in cui la diplomazia non riesce ad ottenere risultati e la creazione di partnership di sicurezza vantaggiose con altri attori a livello locale e internazionale. Le munizioni circuitanti stanno attirando sempre più attenzione in quanto sistemi di attacco di precisione a medio e lungo raggio particolarmente vantaggiosi in termini di costi.

Per i Paesi della regione, una maggiore produzione interna potrebbe contribuire ad alleggerire il carico fiscale sulle casse nazionali, riducendo così la necessità di importazioni costose, e potrebbe sostenere le economie nazionali creando forza lavoro altamente qualificata. Gli Stati stanno effettivamente andando in questa direzione: soltanto nell’ultimo anno, infatti, la regione ha ospitato quattro prestigiose mostre sulla difesa, tra cui la più grande del mondo, che si è recentemente conclusa a Riyadh. Inoltre, l’Arabia Saudita sta tentando di aumentare la capacità di coprire le proprie esigenze di approvvigionamento in materia di difesa da appena il 2% nel 2018 al 50% entro il 2030. Gli Emirati Arabi Uniti, invece, hanno già sviluppato una capacità di produzione di armi a livello locale, principalmente attraverso il conglomerato statale della difesa – l’EDGE Group – che oggi si trova al 23° posto nella classifica dei 100 produttori mondiali di armi e difesa stilata dal SIPRI, con vendite di armi per un valore stimato di 4,8 miliardi di dollari nel 2020. In questo modo, il Paese è diventato il 18° esportatore di armi al mondo, davanti a Sudafrica e Brasile, soprattutto grazie alla vendita di armi a clienti come Egitto, Giordania e Algeria.

I tentativi di produzione locale su piccola scala hanno dato un impulso anche alle industrie della difesa di Egitto e Qatar. All’Egypt Defence Expo 2021, infatti, il Cairo ha presentato l’UAV tattico Noot e il prossimo Thebes-30, un drone da combattimento progettato dall’azienda locale Industrial Complex Engineering Robots. La stessa azienda produce anche l’EJune-30, una copia su licenza dello Yabhon Flash 20 progettato dagli Emirati, sottolineando così la forte relazione tra il Cairo e Abu Dhabi nella cooperazione nel settore della difesa. In Qatar, un incubatore locale di tecnologia militare, Barzan Holdings, sta lavorando a diversi sistemi senza pilota, tra cui un drone ad alta quota e a lunga resistenza e veicoli terrestri senza pilota, questi ultimi prodotti nell’ambito di una joint venture con il gigante tedesco della difesa Rheinmetall.

Egitto, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti sono gli Stati mediorientali più attivi nel potenziare le proprie flotte di droni con piattaforme prodotte internamente. Il Gruppo EDGE ha recentemente sviluppato la serie Hunter-2 di UAV tattici portatili e di munizioni circuitanti. Questi sono facilmente dispiegabili, possono operare in sciami e completeranno l’inventario di droni del gruppo, che comprende il modello da combattimento Reach-S. EDGE Group è inoltre la prima azienda araba a sviluppare sciami di droni con capacità di intelligenza artificiale. Analogamente, il conglomerato saudita INTRA Defence Technologies ha presentato il suo ultimo UCAV, il Samoom, che potrebbe essere una soluzione promettente per le forze armate saudite e che si aggiunge alla famiglia di UAV Saker del Paese. Sia Abu Dhabi sia Riyadh si sono finora affidate a droni cinesi come i Wing Loong I e II, ma potrebbero progressivamente orientarsi verso sistemi nazionali più facili da mantenere e da integrare nelle loro strutture di comando e controllo.

Così come Turchia e Israele, anche l’Iran si sta posizionando come una delle potenze maggiori in materia di droni nella regione. Ciononostante, l’approccio iraniano nello sviluppo dei droni è significativamente differente da quello dei suoi vicini. Il Paese ha costruito la sua vasta flotta di droni nel corso di molti anni principalmente per necessità, mirando a compensare la decadenza della propria forza aerea, la quale aveva risentito dell’effetto di decenni di sanzioni. Grazie all’ingegneria inversa e al contrabbando di componenti, l’Iran può ora contare su diversi tipi di droni e munizioni da combattimento, alcuni dei quali vantano cosiddette capacità di comunicazione oltre la linea visibile e di attacco a lungo raggio. Tra questi, si annovera il nuovo Gaza UCAV, che è una copia modificata dell’MQ-9 Reaper di produzione statunitense. Tuttavia, i droni iraniani sono rimasti in gran parte ai margini del mercato globale della difesa. Ad esempio, l’Iran ha esportato un numero non specificato di Mohajer-6 in Etiopia e ha consegnato altri sistemi ad alleati regionali come il governo siriano, a Hezbollah in Libano e agli Houthi in Yemen. Per Teheran, infatti, la dimensione di mercato dei droni è di importanza secondaria rispetto al loro ruolo di rafforzamento della sicurezza nazionale e di propaganda del regime per alimentare il consenso interno e incrementare le capacità di deterrenza.

Nel teatro nordafricano, l’Algeria e il Marocco sono diventati hotspot per la proliferazione dei droni. Alimentati da una rivalità geopolitica di lunga data, i due Paesi hanno rafforzato in modo significativo le loro capacità di utilizzo dei droni acquistando sistemi stranieri. Tra questi, si annoverano l’acquisto da parte di Rabat del TB-2 e del Wing Loong I, nonché l’acquisizione da parte dell’Algeria di diversi modelli della famiglia cinese CH. I tentativi di produzione locale di Algeria e Marocco sono di minore portata rispetto a quelli di molti altri Paesi della regione. Ma il Marocco rimane ambizioso in questo campo: di recente ha firmato un importante accordo con le Industrie Aerospaziali Israeliane per l’aviazione, che probabilmente comprenderà anche la tecnologia UAV.

La proliferazione degli UCAV in Medio Oriente e Nord Africa non è stata accompagnata da una regolamentazione efficace in termini di utilizzo; la loro crescita ha portato, infatti, a un gran numero di vittime civili e a violazioni del diritto umanitario internazionale in tutti i conflitti della regione. Ciò sta avvenendo in un momento in cui le importazioni complessive di armi da parte di Arabia Saudita, Egitto e Qatar sono aumentate rispettivamente del 27%, 227% e 73%. Ciò dovrebbe spingere la comunità internazionale, compresi gli europei, ad assumere un ruolo di primo piano nel garantire che l’uso dei droni risponda a standard di controllo, trasparenza e responsabilità riconosciuti a livello internazionale. L’Unione Europea ha comunque un interesse fondamentale a sviluppare la propria tecnologia dei droni e a preservare e ampliare i partenariati di difesa degli Stati membri. Tuttavia, l’UE dovrebbe anche investire il proprio capitale politico e diplomatico nell’elaborazione di un sistema condiviso di responsabilità per l’utilizzo dei droni, volto a limitare le vittime civili e a rendere intollerabile il costo dell’uso improprio di tali sistemi.

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