Perché l’Europa dovrebbe prestare attenzione all’accordo Italia-Albania sui migranti
L’accordo migratorio tra Italia e Albania non sta avendo l’effetto desiderato. I Paesi europei non dovrebbero considerarlo come modello per le politiche future ma piuttosto lavorare per una soluzione più coesa
L’accordo sui migranti tra Italia e Albania ha avuto un inizio difficile. Con l’arrivo dei primi migranti sulle coste albanesi nell’ottobre 2024, l’accordo istituisce un’enclave giurisdizionale italiana vicino al porto di Shengjin, a circa 50 miglia a nord di Tirana. Due centri di detenzione sono stati costruiti in territorio albanese per la gestione delle richieste di asilo presentate dai migranti provenienti da “Paesi di origine sicuri” e per la detenzione dei migranti in attesa di rimpatrio.
Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha elogiato il Memorandum d’intesa come modello di politica migratoria. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen lo ha addirittura presentato come un esempio “fuori dagli schemi”. Tuttavia, la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) e il Tribunale di Roma hanno bloccato la detenzione dei richiedenti asilo in arrivo in Albania, mettendo di fatto l’accordo in stand-by.
Per i policymaker europei, l’impasse di tale esperimento migratorio dovrebbe servire da monito sulla fattibilità ed efficacia di accordi di questo tipo. La sua problematica attuazione dovrebbe inoltre dissuadere altri Paesi dell’UE, o Paesi terzi come il Regno Unito, dal considerare quello Italo-Albanese come un modello per il futuro management della migrazione europea.
L’UE e i Paesi terzi devono piuttosto impegnarsi per un approccio paneuropeo a 360° nei confronti della migrazione. Questo dovrebbe astenersi dall’utilizzare metodi di esternalizzazione e affrontare invece la migrazione in un’ottica risolutiva, salvaguardando nel contempo la coesione e la credibilità del blocco a livello internazionale.
Un approccio sbagliato
Il protocollo d’intesa, firmato da Roma e Tirana, rappresenta un unicum nella gestione dei flussi migratori, in quanto istituisce enclavi giurisdizionali italiane nelle città albanesi di Shengjin e Gjader. Oltre a condurre lo screening, la registrazione iniziale e il trattamento delle richieste di asilo dei migranti provenienti da Paesi di origine sicuri, l’accordo – dal costo di 830 milioni di euro in cinque anni – prevede una procedura di frontiera accelerata, in base alla quale la decisione sull’ammissibilità del migrante deve essere presa entro 28 giorni, compreso il ricorso.
L’accordo si differenzia dai modelli utilizzati in passato in Paesi come la Turchia e la Tunisia, o dal fallito “schema Ruanda” del Regno Unito, in quanto sposta la procedura di asilo dell’UE oltre i confini del blocco senza trasferire la responsabilità giurisdizionale al Paese terzo. Questa pratica di de-territorializzazione pone problemi pratici come la gestione del tempo. Ad esempio, con un viaggio dalle acque italiane all’Albania che può durare fino a tre giorni, vi è la possibilità che i migranti subiscano un trattamento degradante, oltre alla difficoltà nel garantire che le procedure di asilo soddisfino gli standard dell’UE. Le autorità italiane hanno garantito di applicare gli stessi standard per le procedure di asilo come se i migranti fossero in Italia; tuttavia, sulla base delle esperienze passate di migranti con procedure attuate in altri Paesi “terzi”, ONG e vari gruppi per i diritti umani hanno sollevato la preoccupazione che un trattamento al di fuori della giurisdizione dell’UE possa non garantire procedure eque o accesso alla protezione.
Luoghi di scambio
In questo contesto, le decisioni della CGUE e del Tribunale di Roma sono dovute soprattutto alle liste di “Paesi d’origine sicuri” stilate a livello nazionale. La CGUE ha stabilito che gli Stati membri dell’UE non possono classificare un Paese terzo come sicuro se le condizioni di sicurezza non sono soddisfatte in modo uniforme su tutto il suo territorio. Ciò a sua volta ha portato alla sentenza del Tribunale di Roma: questa si basa sul fatto che il primo gruppo di richiedenti asilo arrivato in Albania proveniva dal Bangladesh e dall’Egitto, due Paesi che non soddisfano i criteri generali di Paesi d’origine sicuri, nonostante l’Italia abbia incluso entrambi nella sua lista nazionale. Nel fare ciò, il governo non aveva tuttavia considerato che alcuni gruppi, come le persone LGBTQ+, le vittime di mutilazioni genitali femminili e gli oppositori politici, non godono di adeguate condizioni di sicurezza nei loro Paesi d’origine. La sentenza ha portato dunque al rimpatrio del gruppo in Italia dall’Albania, insieme a parte del personale italiano che lavora nei centri di detenzione. Tale trasferimento dei richiedenti asilo tra i due Paesi aumenta la loro vulnerabilità e prolunga e complica il processo di asilo.
Meloni non fa marcia indietro
Nonostante l’esito ad oggi, il governo Meloni continua a difendere l’accordo. Dopo le sentenze, il Consiglio dei Ministri ha emanato un decreto per consentire al governo di modificare la lista dei Paesi d’origine sicuri, che la Corte di Cassazione ha recentemente ribadito essere un compito che spetta ai ministeri. Si tratta però solo di un’ordinanza preliminare: la decisione finale spetta alla CGUE, che ha il primato sulla giurisdizione nazionale.
Per i sostenitori del patto migratorio, le sentenze di CGUE e Tribunale di Roma rafforzano la posizione di “underdog” dell’Italia, dipingendo il governo italiano come sotto attacco da parte di “giudici politicizzati”. Ma ricorrere a decisioni governative ad hoc per sostenere uno schema mal implementato potrebbe portare a ulteriore responsabilità nazionale nella gestione della migrazione, isolando ancor più gli Stati membri gli uni dagli altri in un momento in cui la coesione dell’UE nel processo comune di asilo è imperativa.
Se le singole nazioni dovessero continuare a dare priorità ai propri interessi nazionali rispetto alla responsabilità collettiva, non tenendo conto del principio di solidarietà dell’UE, l’Unione rischierebbe di essere accusata di ipocrisia verso etica e diritti umani dei richiedenti asilo.
Reality check per l’UE
Il caso Italo-Albanese dimostra che, a prescindere da quanto la propaganda politica ne gonfi l’efficacia, le politiche europee di esternalizzazione della migrazione hanno dei limiti. La decisione della CGUE evidenzia come esse possano creare più sfide che vantaggi per gli Stati membri contraenti; perseguendole si rischiano complicazioni legali interne, problemi etici e tensioni all’interno e tra le istituzioni dell’UE.
Fare affidamento a liste nazionali di “Paesi d’origine sicuri” per incanalare i flussi migratori è anche pericoloso per la coesione dell’UE. Porta a una gestione divergente della migrazione tra gli Stati membri e mina ulteriormente l’integrità del sistema migratorio comune, che è già minacciato dagli approcci nazionali alla migrazione adottati anche da politici liberali come il tedesco Olaf Scholz e il polacco Donald Tusk.
I Paesi dovrebbero invece attendere l’attuazione del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, previsto per il 2026. Questo probabilmente ridefinirà il concetto di Paesi d’origine sicuri a livello UE, consentendo agli Stati membri di attuare un approccio più unificato e globale rispetto ad accordi bilaterali ad hoc. Le azioni scoordinate ed autoreferenziali intraprese finora dagli Stati membri dovrebbero anche servire da campanello d’allarme per l’UE, affinché acceleri l’attuazione del patto, dandovi priorità e implementando le componenti chiave in tempi rapidi.
Piuttosto che replicare il modello Italia-Albania, gli altri Paesi dovrebbero attendere l’operatività del patto e affrontare la migrazione in modo coordinato all’interno di un quadro europeo. Ciò eviterebbe ai loro governi di dover affrontare controversie legali con altre giurisdizioni, accuse di scarsa osservanza di procedure eque per la protezione dei richiedenti asilo e l’uso di decreti legge controversi che possono indebolire ulteriormente la coesione interna dell’UE.
Una rotta per il futuro
Il protocollo Italia-Albania offre un’altra preziosa lezione ai policymaker dell’UE. Nonostante la propaganda politica a breve termine che tali politiche possono generare, esternalizzare la gestione dell’immigrazione attraverso accordi controversi e giuridicamente precari è controproducente e miope. Una soluzione più sostenibile ed efficace investirebbe in sistemi di asilo efficienti e inclusivi, sostenuti da misure di integrazione e regolarizzazione e affiancati da partenariati politico-economici che affrontino le cause profonde della migrazione.
Questo approccio sarebbe vantaggioso per l’UE nel lungo periodo, in quanto affronterebbe il problema anziché aggirarlo con misure securitarie. Ciò può avvenire in almeno tre modi: aiutando a sviluppare un senso di responsabilità collettiva a livello europeo; cercando di mitigare i problemi locali che spingono le persone a migrare, riducendo potenzialmente i flussi migratori; anticipando una parziale risoluzione del problema del declino demografico dell’UE che probabilmente si verificherà nel prossimo futuro.
Allo stesso tempo, un approccio di questo tipo andrebbe anche a vantaggio dei migranti. Una soluzione più sostenibile e che guarda all’individuo potrebbe alleviare in modo significativo il loro rischio di sofferenza e offrire una maggiore garanzia di tutela dei diritti.
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