Insicurezza alimentare e operazioni di peacekeeping Onu sono due delle tematiche più controverse quando si affronta il complesso contesto africano. Negli ultimi 30 anni sono stati impiegati da parte delle Nazioni Unite ingenti finanziamenti in entrambi i settori per migliorare e salvare la vita di milioni di persone in Africa. Quali sono stati i risultati? Iniziamo dalla questione più stringente, ossia quella legata alla carestia. Il World Food Programme, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare, ha comunicato che 20 milioni di persone stanno morendo di fame. Tre dei quattro Paesi più colpiti sono in Africa: Somalia, Nigeria e Sud Sudan. Si tratta della più grossa crisi alimentare dalla nascita delle Nazioni Unite e per evitare il peggio servono 6,1 miliardi di dollari entro luglio. Fame e guerra, due elementi spesso correlati. Il maggior numero di missioni di pace targate Onu, 9 su 16, sono in Africa: Repubblica democratica del Congo, Sud Sudan, Darfur, Centrafrica, Mali. Una lunga lista di Paesi dove sono schierati quasi 100mila caschi blu. In alcuni casi, i militari sotto egida Onu, sono stati accusati di stupri, vendita di armi a milizie ribelli e mancata protezione della popolazione civile. Nel 2016 sono stati spesi dalle Nazioni Unite 7,78 miliardi di dollari nelle missioni di pace. Negli Stati sopra citati, quelli in cui sono presenti i maggiori contingenti di caschi blu, i conflitti tra le diverse parti in causa sono riesplosi. Richard Gowan*, analista dell’European Council on Foreign Relations, tenta di chiarire le due controverse questioni.

Qual è il bilancio degli ultimi vent’anni di missioni di peacekeeping dell’Onu in Africa?

«I maggiori successi ottenuti dalle Nazioni Unite nelle operazioni di pace in Africa sono avvenuti in Stati con una limitata popolazione e con apparati militari molto deboli. È il caso della Sierra Leone e della Liberia e più recentemente, nel 2011, della Costa d’Avorio. Quando, invece, bisogna operare in contesti più complessi, è il caso della zona orientale della Repubblica democratica del Congo, del Darfur in Sudan o più recentemente della missione Unmiss in Sud Sudan, le difficoltà aumentano. Il Consiglio di Sicurezza è consapevole che le operazioni di pace sono una soluzione economica per mitigare una crisi. Ma è il primo responsabile della scarsa efficacia di queste missioni, dato che non garantisce ai militari sul campo equipaggiamenti e mezzi adeguati. L’Onu fatica a reclutare militari motivati e ben addestrati. La maggioranza proviene da Paesi africani che li inviano principalmente per un ritorno finanziario. Le grandi potenze europee stanno alla larga dal partecipare alle missioni in Africa, salvo quella in Mali che si è trasformata in un’operazione antiterrorismo contro Al-Qaeda e dove sono coinvolte truppe tedesche e olandesi».

I costi elevati, gli scarsi risultati e la richiesta di Trump di ridurre le spese sono tre indizi che fanno pensare che in futuro le missioni di pace Onu in Africa diminuiranno. Esistono formule alternative?

«Secondo alcuni ufficiali Onu l’unico modo sarebbe rafforzare i contingenti sul terreno, come è stato fatto in Mali. Ma il nuovo Segretario generale, Antonio Guterres, sta valutando varie alternative: tra cui quella di introdurre un approccio che privilegi un lavoro di maggior prevenzione e mediazione e ridurre le operazioni di peacekeeping. Si tratterebbe di creare piccole squadre in grado di intervenire nella fase iniziale di un conflitto. Una soluzione che diminuirebbe notevolmente i costi, anche se in certi teatri sarà difficile eliminare completamente la presenza militare. È probabile che per soddisfare le richieste di Trump il contingente in Darfur verrà ridotto e le missioni in Liberia e Costa d’Avorio non saranno rinnovate».

L’Onu ha dichiarato che 20 milioni di persone rischiano di morire per fame se non si interverrà al più presto. Tre dei Paesi più colpiti sono in Africa. Si riuscirà ad arrivare in tempo?

«Le Nazioni Unite hanno detto che serviranno entro luglio 6,1 miliardi di dollari, ma al momento ne sono stati raccolti solo il 36%. Si spera che grandi donatori come il Regno Unito e i Paesi europei intervengano all’ultimo minuto, altrimenti la crisi alimentare che sta colpendo Somalia, Nigeria e Sud Sudan peggiorerà. Il cambiamento climatico influisce sulla carestia, ma il problema principale è legato all’instabilità di questi Stati che senza sviluppo economico non possono combattere contro la fame. La crisi siriana ha drenato molti degli aiuti umanitari verso il Medio Oriente facendo dimenticare ciò che sta succedendo in altre zone del mondo».

* Richard Gowan è un analista dello European Council on Foreign Relations specializzato in Nazioni Unite e gestione del conflitto

I commenti dei lettori