L’Europa ha messo in campo una strategia ambiziosa nel Sahel, uomini e investimenti, ma il protagonismo francese e la priorità data al rafforzamento della sicurezza rispetto ai programmi di sviluppo rischiano di renderla poco efficace, «con un impatto limitato sul terreno». L’ultimo rapporto dell’European Council on Foreign Relations su questa regione strategica, che divide il Maghreb dall’Africa occidentale e centrale, mette in luce i punti deboli di programma che doveva diventare il faro di un politica estera comune, indipendente e autonoma dall’alleato americano. «L’Europa ha puntato a rafforzare le forze di sicurezza di Paesi come il Niger e il Mali – nota Andrew Lebovich, analista dell’Ecfr e autore della ricerca -. Ma ha chiesto poco in cambio, soprattutto per quanto riguarda la certezza del diritto e l’attenzione umanitaria».

Perché è così importante il Sahel per l’Europa?

«Abbiamo assistito a un attivismo notevole. L’Alto rappresentante Federica Mogherini si è impegnata molto per delineare una politica incisiva e comune. I cinque Paesi del cosiddetto G5 - Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad – sono un cerniera strategica fra il Sud del mondo, il Maghreb e l’Europa. I punti più importanti per l’Ue sono il terrorismo e l’immigrazione. Impossibile affrontarli senza tenere in conto il Sahel. Ma l’approccio è stato, per così dire, troppo “tecnico”. Si è puntato molto al rafforzamento delle forze di sicurezza, sia per renderle in grado di affrontare i gruppi terroristici jihadisti che per controllare i flussi dei migranti, specie verso la Libia. Ma si è investito poco per affrontare le questioni alla base dell’emigrazione».

Servivano più aiuti economici?

«Non è soltanto una questione di soldi. Nei Paesi del Sahel, specie in Niger e Ciad, servirebbe una riforma profonda del sistema giudiziario. Serve la certezza del diritto per i cittadini, un potere meno arbitrario, la possibilità di puntare sulla crescita nel proprio Paese, in sicurezza. L’Europa avrebbe dovuto chiedere di più ai governi locali in termini di riforme in questo senso».

Quanto ha pesato il ruolo della Francia?

«Il ruolo predominante della Francia ha destato preoccupazioni negli ambienti diplomatici, specie di area germanica. È chiaro che il passato coloniale pesa, tutti i cinque Paesi hanno fatto parte dell’impero francese fino agli Anni Sessanta. Parigi ha nella regione 4 mila soldati, nella missione anti-terrorismo Barkhane. Ma la Francia non deve rimanere il solo attore nella regione se vogliamo una strategia europea. Parigi ha bisogno dell’Europa, in termini finanziari e di appoggio nell’azione militare, le servono soldati anche di altri Paesi. Non può fare tutto da sola e ne è consapevole».

Lo scontro fra Francia e Italia in Niger rischia di aver conseguenze?

«In questo momento mi sembra superato. L’Italia si è mossa, a quanto sembra, senza coordinarsi con il governo francese e questo ha creato un forte contrasto anche con i nigerini, che dipendono in maniera massiccia dalla Francia per le loro forze di sicurezza. È chiaro che Roma ha come priorità rallentare i flussi di migranti dal Niger verso la Libia. Ma bisogna valutare con la massima attenzione le dinamiche locali, per esempio le rivalità fra le tribù, i loro interessi economici».

L’azione dell’Ue nel Sahel riuscirà rimettere sotto controllo i flussi migratori?

«Abbiamo già visto una forte riduzione dei flussi. Ma dobbiamo anche chiederci a che prezzo. Puntare solo sul rafforzamento del controllo del territorio, della sicurezza, aumenta i rischi per le popolazioni locali. Dobbiamo porci il problema di che cosa accade a quelli che vorrebbero partire. In che condizioni vivono? Ci sono disastri ambientali, governi repressivi, possibilità di lavoro molto limitate. Non basta sigillare il coperchio della pentola, bisogna agire sul terreno per far diminuire la pressione».

Andrew Lebovich è analista dello European Council on Foreign Relations. È esperto di Nord Africa e Sahel

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