Con un mix inedito di guerra asimmetrica, coerenza strategica, tenacia e capacità di sfruttare gli errori degli avversari la repubblica islamica dell’Iran ha guadagnato molte posizioni sulla scacchiera del Medio Oriente, e ora si trova in una posizione strategica migliore rispetto al 2003. Per Ellie Geranmayeh - analista dell’Ecfr, autrice di «Engaging with Iran: A European Agenda» - la marea «non ha ancora cambiato verso, e per ora la situazione rimane favorevole all’Iran», in attesa di capire quale sia davvero la strategia mediorientale di Donald Trump e che impatto avrà nel medio termine.

Come è riuscito l’Iran, che pure è meno ricco e con forze armate meno potenti dei rivali regionali, a mettere a segno così tanti punti a suo favore?

«Se consideriamo le armi convenzionali, è chiaro che non c’è partita con Israele e l’Arabia Saudita, per non parlare degli Stati Uniti. Queste potenze, se volessero, potrebbero infliggere colpi durissimi e in profondità all’Iran. Ma la conseguenza sarebbero rappresaglie da parte delle milizie alleate, come Hezbollah, o anche da parte dell’arsenale missilistico iraniano. Un prezzo da pagare alto, che agisce da deterrenza. L’Iran è tenace, porta fino in fondo i suoi interventi sui terreni di guerra, ed è in grado di sopportarne il prezzo economico e politico, almeno finora. Ha una strategia coerente fra aspetto militare e politico. Per decenni molti osservatori occidentali hanno pensato che il regime stesse per crollare, ma non è successo. Nel frattempo Teheran ha sviluppato una capacità di manovra notevole attraverso le guerre asimmetriche, in particolare con milizie. Ma dispone anche di una grande conoscenza, nei dettagli, dei meccanismi politici regionali, in Iraq, Siria, Libano, Yemen, dei legami che ci sono fra questi Paesi e come possono essere utilizzati. Un esempio è la recente crisi nel Kurdistan iracheno. Teheran l’ha sfruttata appieno. Ha stretto nuovi patti con il governo di Baghdad, ma anche con i curdi. Si è fatto accettare come un “onesto mediatore”, credibile, cosa che l’America non è stata in grado di fare».

In Siria, Yemen, in quasi tutti i conflitti regionali, l’Iran è riuscito a contenere la nuova alleanza fra Israele e Paesi del Golfo. Ci riuscirà anche in futuro?

«È difficile vedere una alleanza organica fra Israele, Arabia Saudita, Emirati arabi. L’establishment militare e politico di questi Paesi ha certo la volontà di cooperare e l’amministrazione Trump spinge in questa direzione. Ma esistono ostacoli politici e tecnici. A livello politico una completa normalizzazione è impossibile senza una soluzione della questione palestinese. Per Riad e Abu Dhabi sarebbe un passo molto difficile, che susciterebbe una forte opposizione interna. A livello “tecnico” ci sono molti dubbi che questa alleanza possa funzionare sul campo. Le performance saudite in Yemen, guerra convenzionale, e Siria, guerra asimmetrica, sono state molto deludenti».

In Siria si va forse verso una «pace Trump-Putin», ed ecco che l’Iraq è di nuovo nel caos, con le proteste di massa nel Sud. È il nuovo anello debole della sfida sunniti-sciiti?

«È un Paese in bilico. Può diventare una piattaforma per nuove instabilità, se prevarranno a livello interno le spinte settarie. Importante è il ruolo di Moqtada al-Sadr, che finora ha mostrato interesse a un compromesso. Può essere tentato di sfruttare il malcontento a suo favore, ma non ci sono segnali in questo senso. Se il prossimo governo manterrà una posizione di equilibrio fra Iran e Arabia Saudita, l’Iraq potrebbe diventare invece una piattaforma di compromesso politico anche a livello regionale. Bin Salman ha cercato di normalizzare i rapporti, e per la prima volta dalla caduta di Saddam Hussein l’Arabia saudita ha accettato un governo a maggioranza sciita. E questo può essere un prima passo verso il compromesso. Ma dipende anche dalle politiche occidentali verso l’Iran».

Cioè?

«Non sappiamo ancora con chiarezza le ragioni dietro la rottura del patto nucleare da parte di Trump. Vuole arrivare a un altro grande accordo, migliore di quello attuale? Al momento sembra una fantasia. O vuole puntare al collasso del regime? E in questo caso, che cosa è previsto per il dopo? L’Iran è un Paese di ottanta milioni di abitanti, uno dei più stabili della regione. L’Europa si deve chiedere prima di tutto l’impatto che avrebbe un eventuale crollo, in termini di instabilità, flussi migratori, terrorismo. L’accordo nucleare, a nostro parere, era un fattore di stabilità nella regione. Distruggerlo significa per esempio rinunciare alle ispezioni della Aiea senza nessuna alternativa concreta. Per questo sosteniamo lo sforzo dell’Europa per preservarlo. I Paesi europei hanno più interesse a puntare sulla de-escalation dei conflitti, a partire da quello Israele-Iran».

Ellie Geranmayeh è Senior Policy Fellow dell’Ecfr. È esperta delle relazioni Europa-Iran

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