Negli ultimi cinque anni la presenza militare cinese in Africa è cambiata. Fino al 2012 si limitava a fornire supporto di basso profilo nelle operazioni internazionali di peacekeeping, preferiva mandare ingegneri e medici che militari. Oggi non è più così. Di fatto la Repubblica popolare è l’ottavo paese per numero di unità militari che partecipano alle operazioni dei Caschi blu in Africa e il primo in assoluto tra i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu. Mathieu Duchatel, analista dell’European Council on Foreign Relations, spiega cosa sta succedendo.

Com’è la presenza cinese in Africa?

«Dal 2000 la presenza in Africa della Cina cresce esponenzialmente. Ma il segno dei tempi che cambiano sono proprio le forze militari. Un tempo, a parte qualche considerevole eccezione durante la Guerra Fredda, l’influenza cinese era limitata al campo economico. La Repubblica popolare si presentava come un partner per lo sviluppo dei Paesi africani che avrebbe aderito al “principio di non interferenza” negli affari interni di uno Stato. Non c’era nessun interesse ad avere un ruolo nella sicurezza».

E come è cambiata?

«L’evoluzione è lunga. In primo luogo si è trattato di proteggere i propri investimenti e le infrastrutture che andava costruendo dai momenti di “instabilità” di diverse nazioni africane. Ma il punto di svolta sono stati i piani di evacuazione per i propri cittadini durante le crisi. Lo abbiamo visto in Libia, nella Repubblica centroafricana, in Sierra Leone e Gibuti. A quel punto era necessaria una logistica più sofisticata».

Solo piani di evacuazione quindi?

«No. C’è anche la questione dei Caschi Blu. Se inizialmente la Cina forniva per lo più personale medico e ingegneri, per la prima volta ha accettato di far combattere i suoi soldati in Mali e Sud Sudan. Sicuramente anche questa è una decisione che rispecchia la volontà di proteggere i propri interessi economici, ma si tratta di un cambiamento notevole che esula dai compiti di un partner esclusivamente commerciale e sfocia in quelli di un partner militare e politico».

Un esempio?

«In Nigeria la Cina si è messa al fianco del governo contro Boko Haram. Qui si tengono insieme l’esportazione di armi e una cooperazione politica. Potrebbe anche decidere di costruire una base militare, come quella in Gibuti».

Non tutti la considerano una base militare vera e propria...

«Anche se i cinesi non la chiamano “base” ma “hub di facilitazione logistica per le missioni in corso”, anche se insistono sul fatto che serve a proteggere gli affari e non a far la guerra, è chiaramente molto più di quello. È il supporto logistico delle evacuazioni e delle operazioni di peacekeeping. È a tutti gli effetti una base militare ed è il simbolo del cambiamento paradigmatico dei cinesi alla sicurezza africana: un tempo l’eventualità di costruire una base militare all’estero era esclusa, oggi c’è e, verosimilmente, ne verranno costruite altre».

Che significa in termini geopolitici?

«La presenza militare cinese in Africa ci parla in definitiva delle aspirazioni e delle ambizioni della Repubblica popolare a potenza mondiale. È già molto di più che la mera difesa degli interessi economici».

Con buona pace del «principio di non interferenza»?

«La prova della verità deve ancora arrivare. Il principio di non interferenza ha guidato la politica estera cinese per decenni, ma oggi qualcosa sta cambiando. Diciamo che viene ancora rispettato, ma in maniera “flessibile”. Poniamo il caso di una guerra civile che scoppia in un Paese in cui la presenza militare cinese è consistente. La Cina si troverebbe ad avere una moneta di scambio che potrebbe far pendere la fortuna dall’una o dall’altra parte. Siamo sicuri che non la userà?».

Mathieu Duchatel è un analista dello European Council on Foreign Relations

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