Quali sono le priorità del presidente francese Macron nel Mediterraneo? Che politica sta seguendo nei rapporti con i Paesi nord-africani e con quelli del Medioriente? Si muove secondo una strategia europea, come annunciato in campagna elettorale oppure, in linea con la tradizione dell’Eliseo, sta portando avanti gli interessi di Parigi? Ne parliamo con Manuel Lafont Rapnouil, direttore della sezione francese dell’European Council on Foreign Relations(ECFR) ed esperto dell’area «Mena».

Cominciamo dall’Iran: la Francia ha incassato una pesante sconfitta con l’addio americano all’accordo sul nucleare. Cosa succede adesso?

«Posto che non credo ci fossero margini di negoziato con Trump, credo che Macron fosse consapevole dell’esito già segnato del suo viaggio a Washington. Sapeva cioè che gli Stati Uniti sarebbero usciti dal negoziato sul nucleare ma è andato lo stesso, ed è stato importante che andasse per affermare alcuni punti. Innanzitutto bisognava provare a salvare l’accordo del 2015 fin tanto che era ancora in piedi, l’Europa doveva poi dimostrare di essere seria abbastanza da affrontare le conseguenze del cambiamento in arrivo, infine l’Iran: come ancorare l’Iran agli impegni presi in assenza di un partner come l’America? È interessante notale che stavolta l’Eliseo e la Casa Bianca si sono mossi in maniera opposta rispetto tre anni fa: allora era la Francia a frenare, insistendo con Obama per un accordo più severo; oggi invece, in continuità con la linea di Hollande, Macron insiste nel rivendicare la robusta piattaforma negoziale ottenuta anche grazie alla linea ferma di Parigi e vorrebbe non smantellarla per andare oltre e chiedere conto a Teheran del suo destabilizzante attivismo regionale, dei missili balistici, di cosa accadrà dopo il 2025, termine ultimo dell’accordo».

L’impressione è che la Francia di Macron si stia muovendo nell’area Mena secondo linee d’interessi nazionali più che europei. Non doveva essere il contrario?

«In realtà, sia nel caso dell’Iran che del raid in Siria, la Francia si è mossa in stretto coordinamento con la Germania e con il Regno Unito, ma è vero che ha dato l’impressione di prendere iniziative individuali. Il punto è che l’accordo sul nucleare, così come le eventuali conseguenze economiche delle sanzioni americane allargate, avranno un impatto su tutta l’Europa, è una di quelle questioni che chiamano direttamente in causa l’intera Unione Europea. In questo senso quello che possiamo leggere come un fallimento di Macron nel convincere Trump può riportare positivamente la palla nel campo europeo perché le questioni diplomatiche e soprattutto economiche che si aprono non sono bilaterali».

Un terreno critico è anche la Libia, dove l’Italia si è sentita a più riprese incalzata da Parigi. Esiste una competizione diplomatica e d’interessi tra i nostri due Paesi?

«Il momento di maggior tensione è stato l’estate scorsa con l’incontro tra le “due Libie” organizzato a Parigi, un errore da neofiti da parte dell’Eliseo. Da allora Macron ha fatto lo sforzo di assumere un atteggiamento meno unilaterale e di appoggiarsi sulle Nazioni Unite e su Salamé. È vero che c’è un gap tra cosa ci si aspettava da Macron in base alle sue dichiarazioni europeiste e il suo approccio alla politica estera che finora pare assai tradizionalmente francese. Ma il presidente ha la nitida consapevolezza che sul Mediterraneo, sulle migrazioni e sull’Iran nessun Paese europeo possa muoversi da solo».

E il rapporto con Putin, che Macron vedrà da solo a fine maggio?

«L’Europa non ha una politica estera comune. Macron ha avviato un rapporto bilaterale con Putin sulla Siria ma non ha ottenuto molto, né sulle armi chimiche e neppure sull’accesso degli aiuti umanitari. Tanto è vero che non è stato invitato da Mosca ai colloqui di Astana. Con Putin vale quanto vale con Trump, Macron gioca le sue carte ma la partita è aperta: anche Trump lo ha seguito sul raid in Siria distanziandosene però nel ribadire la sua volontà di ritirare le truppe. Tanto con Mosca che con Washington il dialogo sulla Siria non cancella il fatto che ci siano interessi diversi. E non vale solo per la Siria».

Quali sono gli interessi della Francia in Siria, in Libia, nel Mediterraneo?

«Sulla Libia gravano le polemiche su Sarkozy ma è evidente che la Francia tenta di ritagliarsi uno spazio contando sulla delusione della regione per le politiche di Obama. I veri interessi commerciali di Parigi sono con il Magreb e il Golfo, anche se le relazioni sono più complesse dei titoli dei giornali. Ci sono per esempio moltissimi contratti annunciati e poi non firmati e c’è l’Iran, rispetto al quale la linea della fermezza di Parigi è molto meno conveniente dal punto di vista economico dell’understatement tenuto da Italia e Germania. Il punto però è un altro. Sin dal 2011, con il fallimento delle primavere arabe, la politica francese nella regione è stata guidata da ragioni di sicurezza più che da ragioni economiche. Macron su questo ha ripreso la linea del predecessore parlando a più riprese della minaccia degli Stati falliti. Il terremoto in corso è evidente, l’area Mena è attraversata da tensioni domestiche, regionali e internazionali. La forte spinta della Francia è la sicurezza, in particolare dopo gli attentati del 2015: l’interesse è riaffermare il partneriato militare con i Paesi Mena».

Perché l’accento sembra essere sul contenimento dell’Iran sciita e non del Golfo sunnita, da cui pure proviene l’ideologia jihadista alla base degli attentati del 2015?

«L’obiettivo è il contenimento dell’Iran non della galassia sciita, tanto che la Francia non fa alcuna pressione sull’Iraq. Macron crede che l’Iran svolga un ruolo destabilizzante sulla regione ma non cerca in alcun modo l’escalation. Anzi, questo è proprio quanto lo distanzia dalle posizioni di Stati Uniti e Arabia Saudita: Parigi punta alla de-escalation del conflitto sunnita-sciita. Di più, Macron è consapevole che il terrorismo jihadista da cui è stata colpita la Francia è legato all’uso politico di una versione sunnita dell’islam ma proprio per questo vuole evitare che il coinvolgimento dell’Iran renda tutto più complicato. È già successo e sta risuccedendo che i sunniti iracheni formino delle sezioni anti-sciite di auto difesa, gruppi di facile deriva jihadista. Il terrorismo che ha colpito la Francia non viene dall’Iran ma Macron si indirizza all’intera regione. Prova ne sia anche la sua volontà di dialogare con Hezbollah in Libano, gruppo che l’America vorrebbe fosse messo al bando ma che Macron continua ad ingaggiare, convinto che sia un partito libanese di forte rappresentanza e non un partito iraniano».

Che futuro vede per la Siria, dal punto di vista francese?

«Diversamente da Hollande, Macron non ha mai parlato di cambio di regime in Siria, non ha mai detto che Assad dovesse andarsene, si è limitato a porre le sue linee rosse agli attacchi chimici e alla situazione umanitaria. Ripete però che la soluzione deve essere politica e inclusiva, lasciando intendere che la permanenza di Assad al potere mette parecchi limiti alla inclusività. Su questo la sua posizione è diversa da quella di Trump, interessato solo alla sconfitta dell’Isis, ma anche da quella di Putin, che pur consapevole della minaccia degli jihadisti caucasici di ritorno per la Russia non sembra ancora persuaso ad abbandonare Damasco».

E i migranti, il fantasma che si aggira per l’Europa?

«La Francia sa bene che la soluzione al problema dei migranti non può che essere europea e che lo status quo non è sostenibile. Ricorderete come oltre che sui confini Macron abbia più volte insistito sul lavoro da fare nei Paesi d’origine, gli hotspot, gli investimenti economici. Purtroppo su questo fronte la sponda con la Germania si è indebolita, l’apertura della Merkel del 2015 appartiene a un passato lontano. Macron ripete che il suo approccio sarà più pragmatico ma, in assenza di un accordo su base europea, le politiche ministeriali mantengono una continuità con il vecchio approccio unilaterale. Il risultato purtroppo, per ora, è un circolo vizioso, la Francia fa la Francia in assenza dell’Europa ma il suo fare la Francia rende più complicato un compromesso europeo».

Manuel Lafont Rapnouil, direttore della sezione francese dell’European Council on Foreign Relations(ECFR) ed esperto dell’area «Mena»

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