A che punto siamo in Libia? Cosa significa per l’Italia il rinnovato attivismo francese nel cercare una soluzione al più che prolungato caos post Gheddafi? Dobbiamo prepararci come ogni estate a una ripresa consistente degli sbarchi in Sicilia e a Lampedusa? Che ruolo hanno gli attori regionali nell’instabilità sempre più minacciosa del Mediterraneo? Le sfide che giungono dal Nordafrica pongono all’Europa mille domande e lesinano risposte, un’incertezza amplificata oggi dalla profonda crisi politica italiana. Ne parliamo con Stefano Maria Torelli, geopolitologo ed esperto dell’area MENA dell’European Council on Foreign Relations.

Macron ha convocato a Parigi i principali protagonisti della partita libica per un summit che si è concluso con qualche stretta di mano, molti buoni propositi, nessuna firma in fondo all’impegno, pieno d’incognite, di portare il Paese al voto entro la fine del 2018. Comincia a muoversi qualcosa o siamo ancora al maquillage?

«A quanto pare la situazione sul terreno non è cambiata molto. L’unica variante è rappresentata dal fatto che da un lato la Francia sembra aver preso in mano le redini della questione e dall’altro il fronte più oltranzista, parlo del generale Haftar e del suo sponsor egiziano al Sisi, mostra una certa disponibilità a cercare un punto d’incontro. L’eventuale accordo però presenta un primo grande problema, ossia che in Libia decidono le milizie e le milizie sono cani sciolti. Voglio dire che per un verso sono l’espressione di diverse fazioni in conflitto fra loro ma al tempo stesso incarnano le nuove transitorie istituzioni libiche, i governi locali, i ministeri. Si tratta di un contesto assurdo perché abbiamo attori non statali che determinano gli equilibri sul campo e che sono anche attori inglobati nel sistema parastatale. La Libia contemporanea è un grande paradosso. Prendiamo per esempio le migrazioni: l’Europa e l’Italia si sono trovate ad accordarsi con le autorità provvisorie il cui potere ruota intorno alle milizie, in altre parole hanno dato un ruolo ad attori non statali che mentre ostacolano lo “state building” sono protagonisti del medesimo processo di “state building”. In questo contesto per quanto la Francia o l’Egitto cerchino di portare i politici al tavolo del negoziato resta il fatto che questi politici sono ostaggio delle rispettive milizie».

Come si è mossa a suo giudizio l’Italia in Libia, almeno fin quando ha mantenuto una centralità?

«Dipende dallo scopo che si perseguiva. Il realista più realista del re direbbe che il cosiddetto “Minniti compact” ha funzionato benissimo perché se l’obiettivo era fermare gli sbarchi dei migranti l’ha centrato, soprattutto all’inizio. Se guardiamo agli effetti sul territorio invece è più complicato, perché l’Italia ha negoziato indirettamente con le milizie ma le milizie sono talmente numerose e diverse che è impossibile raggiungerle tutte. Di fatto nell’estate del 2017 i trafficanti di esseri umani hanno capito che qualcuno in Europa sarebbe stato disposto a pagarli per tenere i migranti in Libia e tutti, milizie comprese, si sono buttati sull’accordo mandando le proprie “application” nella forma di nuovi barconi in partenza da nuovi porti. È lì che abbiamo iniziato a registrare partenze non solo dalle spiagge a ovest di Tripoli ma anche a est. A quel punto le milizie hanno preso a combattersi per il diritto di gestire i flussi e l’instabilità è lievitata. Le milizie insomma hanno cercato di accaparrarsi il monopolio dei traffici per ottenere fondi e riconoscimenti politici con risultati catastrofici sul fronte umanitario e delle condizioni dei migranti che, mutato il business dagli scafisti ai carcerieri, sono rimasti la prima fonte di introito di bande criminali e milizie».

I riposizionamenti geo-politici hanno modificato le rotte dei migranti?

«I flussi dalla Libia sono diminuiti del 50% e quelle rotte non sono state sostituite. Contemporaneamente però abbiamo assistito all’apertura di nuove rotte, con numeri minori, dalla Tunisia in direzione dell’Italia e dal Marocco verso la Spagna. In realtà parliamo di fenomeni diversi che si sovrappongono e di persone diverse. Il boom delle partenze dalla Tunisia riguarda migranti tunisini mentre in Libia si imbarcavano eritrei, nigeriani, bengalesi. Voglio dire che la Libia è la Libia poi però ci sono anche, simultanee, l’instabilità della Tunisia, da cui gli abitanti scappano sempre di più, la crisi del Marocco nel Rif, il puzzle algerino».

Per quanto riguarda invece le “rotte interne”, quelle che attraversano l’Africa prima di raggiungere la Libia o gli altri porti del Mediterraneo?

«La differenziazione delle rotte mediterranee dipende da cosa succede all’interno e qui il nodo è il Niger. Fino a metà del 2016 il Niger era il Paese che raccoglieva tutti i migranti dell’Africa occidentale e sub-sahariana e li smistava. Poi, sotto la pressione europea, ha cominciato a cambiare politica. A un certo punto l’Ue ha capito che il transito dei migranti in Libia dipendeva dal Niger e ha spinto il governo di Niamey ad approvare una legge tipo quella approvata adesso dall’Ungheria, per cui chi, direttamente o indirettamente, contribuisce al traffico di esseri umani viene arrestato. Il problema è che l’80% dell’economia sommersa del Niger è legata ai migranti e questo non vuol dire per forza criminalità organizzata. Il business dei migranti comprende i trafficanti veri e propri e i cosiddetti “facilitatori”: ci sono i tassisti, gli affitta-camere, i ristoranti dove mangiano quelli in transito, un indotto di centinaia di migliaia di persone. Cosa succede se a tutto questo sommerso non offri alternative? Molta gente resta senza lavoro e questo favorisce le grosse organizzazioni criminali che alzano i prezzi, peggiorano le condizioni, rendono più rischiosi i viaggi».

Cosa ha offerto l’Europa al Niger in cambio di questo impegno?

«È stato creato un fondo, il Trust Fund for Africa, al quale nel 2015 sono stati destinati 2 miliardi e mezzo per progetti di sviluppo. È un fondo ad ampio raggio ma il Niger è il destinatario principale. Il problema è che manca un meccanismo istituzionale per l’assegnazione dei fondi e la distribuzione è arbitraria. Inoltre gran parte del Trust Fund for Africa è stata dirottata sulla sicurezza, confermando che l’immigrazione non viene trattata come una questione di assistenza allo sviluppo ma di sicurezza».

Se l’accordo con il Niger dovesse funzionare e il Paese facesse da tappo, vede un altro Paese pronto a sostituirlo?

«C’è il Ciad, non a caso molto attenzionato dalla Francia e dall’Ue. Il Niger però è un po’ insostituibile perché è l’ultimo Paese di frontiera dell’Ecowas (Economic Community of West African States), vale a dire che il migrante proveniente dall’Africa occidentale è legale finché si trova in Niger, perché l’Ecowas funziona come Schengen. A conti fatti direi che chiuso il Niger l’altro polo critico sarebbe il Mali, il “miglior” candidato a diventare un’altra terra di nessuno».

Stefano Maria Torelli è esperto dell’area MENA dell’European Council on Foreign Relations

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