La conferenza stampa alla Casa Bianca fra il presidente americano Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha messo per la prima volta apertamente in discussione la soluzione “due popoli, due Stati” nelle trattative fra Israele e palestinesi. Ma i due leader non hanno proposto un’alternativa e il processo di pace vive una crisi senza precedenti. Che prospettive ci sono? Lo abbiamo chiesto a Hugh Lovatt, analista dell’European Council on Foreign Relations, e a Efraim Inbar, direttore del Begin-Sadat Center for Strategic Studies.

Il processo di pace rischia di interrompersi?

Lovatt: «Se intendiamo quello che abbiamo visto a partire dal 1993, è la sua fine. Oslo è morto, ma non ci sono alternative ai “due Stati”».

Inbar: «Il processo di pace di Oslo è morto in realtà nel 2007 quando Hamas ha preso il potere a Gaza e la leadership israeliana non ha più potuto fidarsi di quella palestinese. Tanto più ora che Hamas è in mano all’ala militare. Solo un cambio radicale della leadership palestinese può rilanciarlo».

Come siamo arrivati a questo punto?

Lovatt: «Il processo di pace è stato utilizzato negli ultimi anni dalla leadership israeliana come una copertura per la politica di espansione degli insediamenti. Credo che Netanyahu sia stato meno che onesto quando diceva di credere alla soluzione “due Stati”. Questo è avvenuto sotto la spinta della maggioranza dell’opinione pubblica israeliana. Dall’altra parte abbiamo una leadership palestinese debolissima, delegittimata, con in vista una difficile successione ad Abu Mazen».

Inbar: «Non bisogna essere così pessimisti. La soluzione “due Stati” non è stata accantonata. È ancora possibile ma ad alcune condizioni irrinunciabili per Israele, prime fra tutte mantenere Gerusalemme unita e poter controllare la riva del Giordano dal punto di vista della sicurezza militare».

Crede che la nuova amministrazione Usa sosterrà in pieno questa svolta?

Lovatt: «Non credo che gli Stati Uniti possano abbandonare la soluzione “due Stati”. Le dichiarazioni dell’ambasciatrice all’Onu vanno già in questo senso. I “due Stati” sono indispensabili anche per mantenere le relazioni con gli alleati arabi».

Inbar: «L’influenza degli Stati Uniti è importante ma non decisiva. La soluzione va cercata a livello regionale. Del resto anche i Paesi arabi, e il silenzio di queste ore lo dimostra, non vedono la questione palestinese come una priorità, per molti ormai Israele non è più un avversario, è un alleato indispensabile per contenere l’Iran».

Che cosa farà Israele?

Lovatt: «Senza maggiori pressioni internazionali Israele continuerà la politica degli ultimi anni. Continuerà a espandere gli insediamenti e cercherà di dar loro una qualche cornice legale. Di fatto l’Area C della Cisgiordania è già annessa, anche se non credo che si arriverà a un passo formale».

Inbar: «Israele può puntare prima di tutto a una pace “economica” con i palestinesi, fornire più aiuti, investimenti, trovare un modo di aggirare la cronica corruzione nelle istituzioni governate dall’Anp e migliorare la vita degli abitanti nei Territori».

Che cosa può fare la comunità internazionale?

Lovatt: «È importante che insista sul rispetto del diritto internazionale. Bisogna far capire che gli insediamenti sono illegali e che il rapporto costi/benefici alla lunga è negativo per Israele, dal punto di vista della sua credibilità e anche economico».

Inbar: «È meglio che non faccia nulla. Certe pressioni sono controproducenti: è impossibile realisticamente pensare di smantellare gli insediamenti ebraici. Serve un compromesso e anche i palestinesi devono fare i loro passi, per esempio abolendo la legge che punisce con la morte chi vende terreni a un ebreo».

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