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IL MONDO OGGI

Riassunto geopolitico della giornata, con analisi e link per approfondire e ricostruire il contesto.

Le proposte di Cameron contro il Brexit e le altre notizie di oggi

La rassegna geopolitica della giornata, con link per approfondire e ricostruire il contesto.
a cura di Niccolò LocatelliFederico Petroni
Pubblicato il Aggiornato alle
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Le proposte di Cameron per evitare il Brexit

La lettera del premier britannico Cameron al presidente del Consiglio Europeo Tusk con alcune proposte di riforma dell'Ue per spingere Downing Street a fare campagna a favore della permanenza del Regno Unito nell'Unione (referendum previsto entro il 2017) fa discutere a Londra e a Bruxelles.

Ci scrive Arianna Giovannini:

La lettera a Tusk ha forse rafforzato la retorica del messaggio di Cameron sul rapporto tra Regno Unito e Unione Europea, ma in termini di contenuti non c’è molto di nuovo.

Il premier ha usato un tono duro ma allo stesso tempo aperto alla cooperazione: un approccio che tende apertamente la mano ai leader europei.

Alcuni dei conservatori più euroscettici hanno criticato le richieste da lui avanzate con un laconico “Tutto qui?”, volto a sottolineare come a parer loro l’approccio del primo ministro sia stato troppo morbido e possibilista. I rappresentanti delle campagne per il Brexit e il leader di Ukip Nigel Farage hanno commentato in maniera simile, sottolineando la natura triviale dei punti di Cameron.

laburisti, che sostengono posizioni pro-UE, hanno visto nella lettera del leader conservatore un semplice tentativo (riuscito solo in parte) di placare i suoi peones euroscettici.

Ad ogni modo, il problema principale di Cameron non è convincere gli altri leader europei (per quello c'è il meeting del Consiglio Europeo a dicembre), ma l'opinione pubblica britannica, che percepisce il dibattito sull'Ue in termini diversi da quelli di Westminster.

L’immigrazione è forse il punto più controverso e difficile da negoziare, anche se il primo ministro ha lasciato spiragli anche su questo tema e si dice pronto a valutare proposte alternative. A parte questo, diversi diplomatici dell'Ue hanno riconosciuto che la lista di riforme proposta da David Cameron è "complessa ma negoziabile".

Dal punto di vista di Bruxelles, il problema principale non è il negoziato ma il referendum che si terrà nel 2017, con l'annesso rischio che tale negoziato diventi una semplice perdita di tempo se il Regno Unito votasse per uscire dall’Europa.

Per approfondire:

L'impero è Londra, il numero di Limes dedicato al Regno Unito

Brexit? No grazie, di I. Roberts

Nel Regno Unito s’intensifica il dibattito sull’assetto geopolitico interno e sull’eventuale uscita dall’Ue. Gli errori degli anni Cinquanta, da non ripetere oggi. I dilemmi di Cameron. Londra non può difendere i suoi interessi in Europa senza svolgere un ruolo attivo a Bruxelles.


Il Burundi sull'orlo del collasso

La comunità internazionale teme che il Burundi possa precipitare in una terribile spirale di violenza, dopo il lancio di una vasta operazione di polizia contro l'opposizione politica al termine di un ultimatum per deporre le armi.

Il paese è spazzato dalle violenze da aprile, quando il presidente uscente Nkurunziza si è candidato per un terzo mandato (di dubbia costituzionalità), ottenuto con successo alle elezioni del 21 luglio scorso. Da allora, proteste, omicidi politici e un fallito colpo di Stato hanno portato alla morte di 240 persone e spinto altre 200 mila a fuggire all'estero.

Attenzione però a non etichettarlo come conflitto etnico, come ci scrive Gaia Lott:

Quando si parla di Burundi e Ruanda, lo spettro etnico è sempre in agguato. Non perché hutu e tutsi provino un reciproco odio atavico, ma perché in questi paesi le autorità in difficoltà continuano a considerare la carta etnica un valido strumento di mobilitazione popolare.

Non fa eccezione l’attuale crisi burundese: di fronte alla contestazione politica - inizialmente non etnicizzata - contro la candidatura del presidente Nkurunziza, alcune personalità vicine al capo di Stato hanno iniziato a ricorrere a un messaggio etnico strisciante per guadagnare consensi.

Le possibilità di scongiurare la profezia autoavverante dello scontro etnico dipendono dal ripristino del dialogo interno al Burundi. Ma le pressioni internazionali in tal senso restano per ora lettera morta.

La diplomazia continentale, infatti, è impotente: la Comunità dell’Africa Orientale è paralizzata dalle divisioni interne e dal timore di “creare un precedente”, mentre l’Unione Africana è lontana. La comunità internazionale non si dimostra molto più attiva: i paesi donatori si confermano incapaci di adottare una posizione incisiva, sia a livello bilaterale che multilaterale.

La risoluzione che verrà adottata in settimana dal Consiglio di Sicurezza potrebbe segnare un momento di discontinuità: la Francia preme affinché venga adottata (e già questa è una novità), ma le prime reazioni di Russia e Cina non sembrano giustificare grandi ottimismi.

Per approfondire:

Il Burundi a un passo dal caos, di R. Colella

La riconferma di Nkurunziza è arrivata in violazione della Costituzione e in un clima d’intimidazione e violenza, confermato dall’attentato contro un suo generale. Il rischio che si scateni una nuova guerra civile è alto.


L'Ue dà i voti alla Turchia

"Significativi limiti" nel settore giudiziario e nella libertà d'espressione. "Crescente pressione e intimidazione" sui giornalisti. "Serio deterioramento della sicurezza". Il rapporto della Commissione Europea sulla Turchia - pubblicato solo ora dopo le elezioni per non far deragliare i negoziati con Ankara sui migranti - usa toni pesanti.

Commenta per noi Daniele Santoro:

L’aspetto più interessante del rapporto Ue sulla Turchia è la tempistica della sua pubblicazione, originariamente prevista per ottobre e fatta slittare a dopo le elezioni del 1° novembre per non indispettire il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.

Già solo questo basterebbe a dimostrare l’ipocrisia di un’Europa che da un lato si erge ad autorità morale e dall’altro non esita a trattare con chi a suo giudizio viola apertamente i presunti valori che sarebbero alla base del progetto europeo. Il rapporto lascia dunque il tempo che trova, dal momento che la relazione tra Turchia e Ue è ormai entrata in un’altra dimensione.

I leader del Vecchio Continente, che come dimostra la visita di Angela Merkel a Istanbul due settimane prima delle elezioni turche fanno a gara per accaparrarsi i favori del sultano di Ankara, intendono fare di quest’ultimo una sorta di “nuovo Gheddafi” al quale affidare la gestione dei flussi di esseri umani che dal Levante cercano di raggiungere l’Europa attraverso la rotta del Mediterraneo orientale.

Si tratta di una questione esistenziale. Il vice presidente della Commissione europea Frans Timmermans ha ribadito che senza la cooperazione della Turchia l’Ue non è in grado di arrestare l’ondata di profughi, che secondo il ministro degli Esteri lussemburghese Jean Asselborn potrebbe addirittura portare al collasso del progetto europeo.

Per recitare il ruolo che fu del colonnello libico, Erdoğan, oltre a un cospicuo contributo economico (si parla di tre miliardi di euro), ha posto tre condizioni che l’Ue potrebbe essere costretta ad accettare: liberalizzazione del regime dei visti entro il 2016; apertura dei capitoli negoziali congelati dal veto di Francia, Austria e Cipro greca; invito dei leader turchi ai vertici Ue. Il rapporto Ue ha ricevuto una scarsa eco sui media turchi.

Quando il premier Davutoğlu afferma che l’unico modo per risolvere la crisi dei migranti è creare le condizioni perché i profughi possano tornare nel loro paese vuole intendere che Ankara si aspetta non solo carta bianca, ma anche il sostegno politico e militare dell’Europa (per quel che conta) alla sua strategia siriana.

Erdoğan non ha mai prestato grande attenzione ai giudizi dell’Europa nei suoi confronti. Tantomeno lo farà ora che ritiene di tenere in scacco un continente terrorizzato dall’invasione dell’Altro.

Per approfondire:

Resa dei conti o pacificazione: le opzioni di Erdoğan dopo il trionfo, di D. Santoro

Dopo la vittoria elettorale, il presidente turco può scegliere: guerra totale ai nemici interni ed esteri o compromesso per ottenere la riforma presidenziale e riportare Ankara al centro dei giochi nel Mediterraneo orientale.

Turchia-Ue: la farsa è all'ultima scena
, di A. Albanese Ginammi

Bruxelles puntava a tenersi stretta Ankara, senza però volerla mai del tutto nel club. Anche e soprattutto per motivi religiosi. Ma il rifiuto dell’islam rischia di ghettizzare i musulmani d’Europa. E soffia sul fuoco del fondamentalismo.


Come arginare il flusso di migranti dalla Libia

I leader dell'Ue si riuniranno oggi e domani a La Valletta con i paesi africani per discutere di immigrazione, con l'obiettivo di stringere più accordi di rimpatrio con i paesi d'origine. In cambio l'Europa promette due miliardi di euro.

Queste politiche rischiano di non funzionare se prese singolarmente, come scrive in un rapporto per Ecfr Mattia Toaldo. Senza metodi legali di immigrazione in Europa, i trafficanti continueranno a prosperare, infiltrando quelle stesse strutture governative con cui vuole cooperare Bruxelles.

In Libia, scrive Toaldo, si può iniziare a fare qualcosa anche in assenza di accordo politico tra le fazioni. Per esempio lavorare con le autorità locali o sostenere le strutture che combattono gli abusi contro i migranti. Soprattutto, bisogna lavorare con le comunità di confine per convertire l'economia del contrabbando, separando il commercio di beni legali da quello di esseri umani.

Per approfondire:

Libia anno zero, di M. Toaldo

Il paese, crocevia dei flussi migratori panafricani e mediorientali, è preda di una guerra tra bande che miete vittime, prosciuga l’erario e moltiplica i traffici. La resistibile avanzata dello Stato Islamico. Nel vuoto geopolitico, Italia e Onu puntino sulle comunità locali.

Le rotte dei nostri migranti, di P. Monzini

Dai Balcani alla Libia, come e perché sono mutate tecniche e vie di approdo al Belpaese. Il contrasto dei governi non ha contenuto il fenomeno, l’ha solo reso più pericoloso e più costoso.


Cina e Gibuti

La visita a Gibuti di Fang Fenghui, capo di Stato Maggiore dell'Esercito di liberazione popolare cinese (Pla), ha sollevato speculazioni sul fatto che Pechino potrebbe installare una base militare nel piccolo ma strategico Stato africano alle porte dello stretto di Bab al-Mandeb. Qui tra l'altro ci sono già la più importante base americana in Africa, Camp Lemonnier (perno delle guerre dei droni in Yemen e Somalia) e una base francese.

Commenta per noi Giorgio Cuscito:

Pechino non ha smentito né confermato l’ipotesi secondo cui starebbe negoziando con Gibuti la costruzione della sua prima base militare all’estero. Tuttavia il viaggio di Fang Fenghui ha dato nuovamente adito a questa teoria. Il governo cinese si è limitato a dire che la cooperazione con Gibuti sta crescendo in diversi campi e che Feng ha visitato la nave da guerra del Pla Sanya, che sta partecipando ai pattugliamenti antipirateria lungo le coste dello strategico Corno D’Africa.

Qualcosa certamente bolle in pentola. A maggio, il presidente di Gibuti aveva detto che i negoziati sulla base militare “erano in corso” e che la presenza cinese era “ben accetta”. Il quotidiano cinese Global Times ha tentato di confutare la teoria per cui una simile infrastruttura fuori dai confini nazionali rappresenti una “minaccia” per la sicurezza di altri paesi. Un esperto di marina militare intervistato dal giornale ha affermato che “la base servirà principalmente come stazione di rifornimento, anche se sarà creata per offrire supporto alle unità impegnate nelle missioni antiterrorismo e antipirateria in mare aperto”. Attività che Pechino svolge da anni, come del resto Usa e Francia.

La Cina è il più importante partner commerciale dell’Africa e negli ultimi venti anni oltre un milione di cinesi si sono trasferiti qui per motivi di lavoro. Inoltre, l’Impero del Centro è diventato il primo paese per unità fornite alle missioni di peacekeeping tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu e le sue truppe si concentrano nel continente. Pechino contribuisce alla salvaguardia della stabilità in Africa per tutelare i propri interessi economici, consapevole dell’importanza strategica che la sua presenza militare potrebbe avere in futuro.

Per approfondire:

Non solo giraffe: Pechino ha un piano per conquistare l'Africa, di E. Knoll

Rapporti diretti con i leader africani; enormi investimenti; vendita di armi. Ecco i tre cardini della strategia africana di Pechino. La sconvolgente crescita del commercio con il Continente nero. L’Occidente non sa che fare.

Soccorso giallo: la crisi battezza Cinafrica, di J.L. Touadi

Il continente nero è devastato dalle conseguenze della Grande Recessione. La Cina ne profitta per consolidarvi la sua penetrazione economica e geopolitica, con l’appoggio delle élite locali. L’Occidente ha altre priorità.


Limes Bonus

Carta degli insediamenti israeliani. I prodotti provenienti da qui e venduti nell'Ue andranno etichettati.


Aggiornamenti

La Corte suprema del Messico aveva aperto la porta alla legalizzazione della marijuana. Il presidente Enrique Peña Nieto e due terzi dei messicani vogliono richiuderla.


Anniversari geopolitici dell'11 novembre

1620 - Firmato il patto del Mayflower

1869 - Nasce Vittorio Emanuele III

1918 - Finisce la prima guerra mondiale

1918 - Indipendenza della Polonia

1945 - Nasce Daniel Ortega

1975 - Indipendenza dell'Angola

2004 - Muore Yasser Arafat


Carta di Laura Canali animata da Marco Terzoni.