MOSCA. La politica estera della Russia in questi ultimi anni è stata caratterizzata da un aspro confronto con Usa e Ue. La futura generazione di diplomatici russi post-Putin potrebbe però mettere in discussione la centralità che Mosca attribuisce all’Occidente. È questa la conclusione a cui giunge Kadri Liik, ricercatrice senior dello European Council on Foreign Relations, nel suo articolo «Gli ultimi degli offesi: i primi diplomatici della Russia post-Putin». La politologa ha parlato con giovani esperti russi di politica internazionale di vario livello e di età compresa tra i 20 e i 45 anni. Si tratta di diplomatici, funzionari, manager e accademici, ma anche di studenti del prestigioso Istituto statale delle Relazioni internazionali di Mosca (Mgimo).

Dalle interviste, Liik ha capito che i giovani professionisti russi di politica estera non sono né fedelissimi di Putin né liberali di tipo occidentale e non credono nelle ideologie preconfezionate. Gli esperti che stanno iniziando adesso a ricoprire incarichi di responsabilità nutrono spesso un sentimento di «disillusione» verso l’Occidente, ma gli under 30 ne sono esenti e hanno «una visione decisamente realista e pragmatica». Questo, secondo la ricercatrice, potrebbe offrire «alle due parti maggiori opportunità di diventare partner in futuro, cooperando per difendere i propri interessi in modo concreto». Ciò però non significa che dopo Putin la Russia tornerà automaticamente all’ottimismo nei confronti dell’Occidente che ha caratterizzato gli anni ‘90 dopo il crollo dell’Urss. Inoltre, il ruolo dei giovani diplomatici nel forgiare la politica estera russa dipenderà dall’equilibrio di potere tra i ministeri “civili”, come quello degli Esteri, e gli apparati “di forza”, come il ministero della Difesa e i servizi di intelligence, che appaiono sempre più potenti.

Dottoressa Liik, lei scrive che i diplomatici russi over 50 vedono l’Occidente come un blocco compatto, mentre gli studenti distinguono tra Usa e Ue. Quali possono essere le conseguenze nella diplomazia russa post-Putin?

«Effettivamente, gli studenti che hanno preso parte ai focus group dell’ECFR sono molto critici nei confronti degli Usa e si aspettano che le relazioni della Russia con Washington rimangano antagonistiche, ma sono molto più positivi sull’Ue, con cui si aspettano che la cooperazione riprenda prima. Non si tratta necessariamente di un’opinione informata: si potrebbe facilmente ribattere che mentre lo stallo della Russia con gli Usa suscita maggior clamore, le differenze normative con l’Ue sono meno evidenti ma di fatto in qualche modo più profonde. In ogni caso, è vero che se questa tendenza continua e la Russia comincia a vedere Ue e Usa come enti con personalità politiche diverse, allora Mosca avrà bisogno di sviluppare una politica propria verso l’Ue, qualcosa che finora non ha avuto. La Russia ha discusso con gli Stati Ue, ha discusso con gli Usa, ha discusso con l’Occidente nel suo complesso, ma le è sempre mancata una strategia propria verso l’Ue. Persino quando le relazioni erano buone e Russia e Ue tenevano summit biennali, la Russia non aveva nulla che potesse essere chiamata politica per l’Europa nel senso vero del termine».

La Russia di Putin sta rafforzando sempre più i suoi rapporti economici e politici con la Cina. Che opinione hanno i giovani esperti russi della Cina e come questo loro punto di vista potrà influire sulle future relazioni tra Mosca e Pechino?
«Mi pare che i giovani russi non si fidino della Cina, sebbene la temano meno di molti in Occidente. Sento questa mancanza di fiducia, loro non credono nelle buone ragioni di Pechino. Uno studente ha commentato un suo disegno sul futuro ordine mondiale dicendo: “Ho disegnato un’aquila americana e un orso russo, stanno lottando, ma dietro di loro, calmo, un cinese con un coltello aspetta il suo momento”. La vecchia generazione è cresciuta guardando alla Cina come a un fratello minore dell’Urss ed emotivamente segue ancora questa visione del mondo. Loro sanno che la Cina è economicamente molto più potente della Russia e che presto sarà anche più potente militarmente, ma questa consapevolezza non è riportata del tutto nel pensiero politico. La giovane generazione potrebbe avere una visione più chiara della Cina. Difficile dire come ciò influenzerà la politica. La politica dipende sempre da molti fattori e non tutti possono essere previsti. La mia ipotesi è che nei prossimi anni Russia e Cina continueranno a essere alleati tattici su molte questioni ma non formeranno mai un’alleanza piena. Ritengo anche che l’aumentata esposizione verso la Cina alla fine renderà Mosca più positiva sull’Occidente. Adesso molti nell’élite che fa la politica estera di Mosca sono offesi perché l’Occidente, così la vedono loro, si è permesso di “insegnare alla Russia come vivere”. La Cina non avanza richieste normative alla Russia, non pone l’accento sui diritti umani o su questioni del genere, ma allo stesso tempo persegue i suoi interessi politici ed economici in maniera molto più robusta di quanto l’Occidente abbia mai fatto, incluso nei rapporti diretti con la Russia».

I professionisti russi di politica estera tra i 30 e i 45 anni nutrono un sentimento di “disillusione” verso l’Occidente. Quali sono le possibili responsabilità dell’Occidente in questo senso?
«Questa disillusione ha origini diverse per diverse persone. È molto eterogenea, sfaccettata. Alcune dovrebbero in effetti far pensare l’Occidente ed essere autocritico, ma altre dovrebbero far fare lo stesso alla Russia. I russi tendono ad accusare l’Occidente di “trionfalismo” dopo il 1989, e hanno un qualche motivo. La fine della Guerra Fredda e l’emergere dell’Occidente come vincitore indiscusso ci hanno resi molto sicuri di noi stessi e, di conseguenza, in qualche modo disattenti e superficiali. Si potrebbe dire che questo abbia portato ad alcune cattive politiche (pensiamo alla guerra in Iraq), che noi non sempre mettiamo in atto ciò che predichiamo o che abbiamo perso curiosità per gli altri pensando che essi alla fine convergeranno in ogni caso verso i nostri standard. Questo ha influito sul modo in cui gli altri ci percepiscono e dovrebbe farci impegnare in un esame autocritico. Allo stesso tempo, vorrei mettere in guardia da un’eccessiva auto-flagellazione. Se la Russia non è diventata un membro “eguale” della comunità occidentale è colpa della Russia più che dell’Occidente visto che i piani di politica interna della Russia non si sono mai adeguati agli standard democratici occidentali. Anche la Russia quindi dovrebbe fare delle riflessioni autocritiche. E potrebbe aver bisogno di correggere alcuni dei suoi obiettivi di politica estera, non ultimo nel vicinato orientale: il tipo di controllo che Mosca desidera avere sopra il processo decisionale in geopolitica dei suoi vicini poteva essere possibile nel mondo della Guerra Fredda, quando era sostenuto dalla potenza militare, ma non è possibile adesso, nell’era di una maggiore autonomia dei popoli, almeno finché Mosca sarà restia ad assumere il pieno controllo militare ed economico di questi Paesi. Questo rimane un obiettivo irrealistico, negato non dall’Occidente ma dalla vita stessa, e non c’è ragione di accusare l’Occidente per questo».

Il suo lavoro sottolinea come le differenze generazionali contino, anche nella politica estera russa. Cosa può significare questo per le future relazioni tra Russia e Occidente?
«Per la generazione sovietica dei russi, l’Occidente era qualcosa di alieno, esclusivo, e per molti versi un faro, anche se l’ideologia comunista non consentiva di ammetterlo. Per i giovani russi non è così: loro hanno visitato l’Occidente, lo hanno conosciuto, sono stati esposti ai suoi lati positivi e a quelli negativi. Adesso, questa conoscenza spesso si traduce in delusione o in disillusione. Si rendono conto che l’Occidente non è perfetto come si aspettavano. Molti di loro sono molto severi nei loro giudizi sull’Occidente, tendono a focalizzarsi sulle imperfezioni, perdendo di vista le cose che funzionano e funzionano bene. Ma questa probabilmente è una fase di passaggio. Spero che arriverà il tempo in cui la giovane generazione di russi che si occupano di politica estera vedrà che le democrazie occidentali sono veramente delle società libere ma guidate da comuni mortali, il che significa che l’Occidente può sbagliare ma ha anche una capacità superiore alla media di correggere questi errori. Una visione così equilibrata – senza idealizzazione e senza ostracismo – potrebbe portare a una relazione più pragmatica e realistica tra la Russia e l’Occidente. Molti russi la hanno già, ma c’è ancora della strada da fare prima che diventi un pensiero mainstream che pervade il fare politica».

I risultati però dipenderanno anche dall’effettiva influenza del ministero degli Esteri nella politica internazionale russa. Lei scrive che dopo l’annessione della Crimea nel 2014 e l’inizio dell’operazione russa in Siria nel 2015 il dicastero «è divenuto molto meno centrale» nel dar forma alle politiche di Mosca. Come mai?
«Nella visione di Mosca, la Siria è stata una storia di grande successo in politica estera, ma la questione siriana è largamente condotta dai militari. Per lo meno, le forze armate russe hanno avuto successo lì, hanno battuto la ribellione e hanno assicurato che Assad restasse al potere. La soluzione diplomatica, alla quale il ministero degli Esteri russo sta lavorando è molto più difficile da ottenere. Ciò dà alle forze militari un qualche tipo di vantaggio in molte discussioni sulla politica. Il ministero degli Esteri, al contrario, recentemente è stato piuttosto messo da parte. A Mosca è noto che non era a favore dell’annessione della Crimea, ma non è stato ascoltato. Alla fine l’influenza dei diplomatici si è limitata alle questioni procedurali. Questa situazione potrebbe anche avere radici più profonde nella condizione di continuo cambiamento in cui si trova il mondo. L’ordine mondiale precedente si sta erodendo, ma non c’è ancora all’orizzonte nulla per sostituirlo. Una tale situazione complica inevitabilmente il lavoro dei diplomatici, non solo in Russia. Gli accordi internazionali devono essere basati su alcune strutture normative più o meno universalmente riconosciute, che a loro volta devono essere piuttosto radicate nelle realtà sul terreno. Così, quando tutto è in divenire, fare diplomazia diventa arduo. O diventa molto difficile concludere accordi o questi non riescono a produrre effetti. Ma anche questa è una fase che passerà. In un mondo più ordinato, la diplomazia riavrà il suo posto e la sua funzione». 

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