Il califfo Abu Bakr al-Baghdadi incita i jihadisti della «provincia dell’Africa occidentale», elogia il comandante dell’Isis nell’Africa subsahariana, Adnan Abu al-Walid al-Sahrawi. E invita a «intensificare gli attacchi contro la Francia crociata e i suoi alleati». L’ultimo messaggio del leader dell’Isis, e la sua seconda apparizione in video in cinque anni, ha posto l’accento sulla nuova frontiera della jihad globale, che punta all’Africa e in particolare ai Paesi del Sahel. Una scelta strategica che però vede lo Stato islamico competere e a volte allearsi con una miriade di gruppi locali. Anche Al-Qaeda, già prima della nascita dell’Isis, ha individuato nel Mali e nelle nazioni confinanti la cerniera debole nel dispositivo difensivo occidentale. Le missioni francesi, prima Serval per stoppare l’avanzata qaedista in Mali alla fine del 2012, poi Barkhane per stabilizzare i cinque principali Stati del Sahel, affiancate dalla onusiana Minusma, non sono riuscite a debellare i jihadisti. Anche perché alle dinamiche della guerra santa si aggiungono le tensioni etniche locali, sfruttate dai terroristi, come si è visto nei recenti massacri incrociati in villaggi Dogon e Fulani. Per questo un aspetto fondamentale della strategia anti-terrorismo è censire i gruppi attivi e capirne le caratteristiche. Un lavoro condotto da Andrew Lebovich, visiting fellow all’European Council on Foreign Relations.

Quanto è forte la minaccia dell’Isis sul Sahel, è davvero la principale preoccupazione?
«In realtà l’Isis è molto più attivo in Niger, Ciad e Nigeria rispetto a Mali e Bourkina Faso. Il centro di gravità dello Stato islamico in questa regione resta il Lago Ciad. Nella zona più occidentale del Sahel è Al-Qaeda la formazione internazionale più influente. Un dato che preoccupa è che però, a differenza che in Siria e Iraq, qui Al-Qaeda e l’Isis hanno instaurato una sorta di collaborazione. O comunque non sono in conflitto fra loro, e questo li rende più forti».

Quali sono i gruppi più pericolosi, a suo parere?
«Il Jamaat Nusrat al-Islam wa al-muslim ovvero il “Gruppo dei sostenitori dell’Islam e dei musulmani”. È il più attivo in Burkina Faso, Mali, Niger. Nonostante le azioni di contro-insorgenza i suoi militanti sono in grado di compiere attacchi devastanti, come quello del gennaio scorso che ha portato all’uccisione di dieci Caschi Blu ad Aguelhoc, quelli alle basi dell’esercito maliano a Dioura e Guiré, e altri attentati contro le forze di sicurezza in Niger e Burkina Faso. All’interno del gruppo, conosciuto con l’acronimo Jnim, sono confluiti tutti i gruppi qaedisti della regione: Ansal al-Din, Al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), Al-Mourabitoun, Katibat Macina. La nuova formazione è guidata dal tuareg Iyad Ag Ghali e ha quindi un forte radicamento locale».

Perché il Sahel è diventata la nuova frontiera della jihad globale?
«La regione è al centro di tensioni di tutti i tipi, gli Stati sono deboli, con forze armate poco efficienti, corruzione molto elevata. I gruppi jihadisti cercano di capitalizzare le tensioni etniche e il risentimento contro i governi locali per impiantarsi con più sicurezza. Prendono parte ai conflitti etnici, e si presentano come protettori di comunità locali, siano i Tuareg nel Nord, o i fulani nelle regioni centrali del Sahel».

Quanto influisce l’instabilità in Libia?
“Il Sahel è al centro di traffici, dai migranti alle armi, che hanno certo sbocchi in Libia. Ma l’influenza libica sull’instabilità di questa regione in questo momento è sopravvalutata. Le origini sono soprattutto locali”.

La missione Minusma sembra la più esposta agli attacchi terroristici, come se lo spiega?
«Dobbiamo tenere presente che la Minusma è la più grande missione Onu al mondo, con 13.200 soldati e 1900 poliziotti impegnati. Copre un territorio molto vasto in zone ad alto rischio. I militari caduti, fino a marzo 2019, sono stati ben 122, più 358 feriti gravi. Poi va tenuto conto che gli uomini del Minusma spesso hanno equipaggiamenti inferiori a quelli delle forze occidentali presenti nel Sahel».

Una delle contromisure è il cosiddetto programma Ddr, che prevede di reclutare ex jihadisti nelle forze di sicurezza locali. E’ un rischio che vale la pena di essere corso?
«Il programma Ddr è già stato sperimentato in altre regioni del mondo come strategia di post-conflitto, a volte con risultati soddisfacenti. Il problema del Sahel è che non ci troviamo affatto in una situazione di post-conflitto. Il conflitto è in corso. In queste condizioni il programma Ddr potrebbe essere un azzardo».

Andrew Lebovich è visiting fellow all’European Council on Foreign Relations. È esperto di Nord Africa e Sahel

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