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Perché ora gli Usa premono in Libia

Con il vertice di domenica sulla Libia organizzato dalla diplomazia italiana col sostegno di Washington, la Casa Bianca ha dato prova di aver deciso di fare anche del dossier nordafricano una priorità, affidata stavolta a un alleato come Roma. La scelta rappresenta un’evoluzione nella strategia obamiana. Ma cosa ha spinto il presidente americano a preoccuparsi anche dell’ex regno di Muammar Gheddafi?

IL CAMBIO DI STRATEGIA

Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, scriveva ieri Vincenzo Nigro su Repubblica, “fa notare che la svolta più decisiva è maturata quando John Kerry in persona”, segretario di Stato Usa, “e quindi l’amministrazione Obama, hanno deciso di ritornare a impegnarsi sulla Libia, di non tenersi più distaccati in attesa che gli eventi portassero chissà a che cosa. L’Italia ha fatto capire a Kerry che senza l’appoggio pesante degli Usa ogni idea o invenzione diplomatica italiana sarebbe stata debole. E Kerry spiega che nella divisione dei compiti «Gentiloni ha fatto pressioni su molti altri Paesi a muoversi con più velocità e con un maggior senso di urgenza sulla Libia, che è nel Mediterraneo, proprio al di là delle coste italiane»”. Anche se, rilevano cronisti e analisti, non sarà facile. L’annuncio di Kerry alla conferenza di Roma di un governo di unità nazionale a Tripoli entro quaranta giorni, dice oggi Alberto Negri sul Sole 24 Ore, “sembra più una scommessa che una previsione”. O, peggio, “pare un vero e proprio azzardo: questa intesa al momento è soltanto un pezzo di carta”, come sostiene al quotidiano confindustriale Michel Cousins direttore e proprietario insieme a Sami Zaptia del Libya Herald, quotidiano in lingua inglese di Tripoli.

L’OCCHIO ALLA POLITICA INTERNA

Per Cinzia Bianco, analista esperta di Medio Oriente e Mediterraneo per la Nato Defense College Foundation, l’accelerazione americana sulla Libia ha una duplice chiave di lettura. “La prima – dice a Formiche.net – ha a che fare con la politica interna. Negli Usa Barack Obama è spesso accusato di essere inerme davanti all’avanzata dello Stato Islamico, che guadagna posizioni anche nel Paese nordafricano”. Per contrastare questa percezione, anche alla luce della campagna elettorale negli Stati Uniti, “il presidente Usa ha deciso di non uscire fuori dai limiti di politica estera che si è imposto, ovvero di un minor protagonismo militare. Ma ha scelto di percorrere la strada di una maggiore responsabilizzazione degli alleati regionali, in questo caso l’Italia, che ha assunto l’onere di seguire questo processo di concerto con Washington”.

IL PERICOLO ISIS

Questa tesi è condivisa anche da Mattia Toaldo, analista presso lo European Council on Foreign Relations di Londra, secondo il quale “l’ascesa di Daesh in Libia, fortemente riportata sulla stampa americana nei giorni della strage di San Bernardino”, si è rivelata “cruciale nell’attrarre l’attenzione della Casa Bianca”. Non è un caso che la stampa Usa sia stata tra le prime a rimarcare preoccupata che la Libia potrebbe essere, per lo Stato Islamico, il piano di emergenza nel caso il progetto del Califfato tra Siria e Iraq tramontasse. Tuttavia, sottolinea, “non bisogna farsi illusioni”. Gli Usa daranno una mano, “ma la responsabilità del processo di pacificazione resterà dell’Italia”.

IL QUADRO REGIONALE

C’è poi, secondo Cinzia Bianco, un seconda ragione nell’impegno Usa, che coinvolge sempre i drappi neri ma che va ricercata stavolta nel rischio che l’Isis guadagni ulteriori posizioni, facendo saltare anche la Libia con un effetto a catena, che preoccupa tutti gli alleati regionali degli Usa, dai Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita fino ad arrivare a Roma. “La Libia – prosegue Cinzia Bianco – va vista come un tappo, che tiene chiusi tre fronti: sud, est ed ovest. Per questo molte intemperanze di Muammar Gheddafi venivano tollerate. Oggi le potenze regionali sono convinte che se anche la Libia dovesse scivolare in un caos peggiore di quello attuale, si rischierebbe una destabilizzazione totale. A Sud ci sono Ciad, Mali e Sudan, in forte difficoltà. Ad ovest c’è l’Egitto, punto di riferimento del mondo arabo. E ad est la Tunisia, unico Paese che sta tentando un percorso di democratizzazione più meno di successo”. C’è infine da considerare che un ritorno alla normalità in Libia permetterebbe al Paese di tornare a usare le proprie risorse energetiche, con benefici effetti a cascata su tutti i Paesi più prossimi”.

LE NUOVE RAGIONI DI OBAMA

Ma i timori domestici ed esteri per l’ascesa del Califfato non sarebbero i soli motivi del ripensamento americano. Secondo molti analisti, sarebbe anche il timore di nuove azioni del Cremlino ad aver spinto il capo di Stato Usa a decidere di intensificare l’impegno nel Paese nordafricano. Per il generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa, alla base della scelta del presidente Usa c’è una doppia valutazione. “L’intelligence americana sta consigliando a Obama di intervenire, perché la situazione in Libia sta degenerando. E soprattutto perché, a differenza della Siria, non può permettersi di non farlo. L’Egitto è molto preoccupato di ciò che sta accadendo ai suoi confini e, se Washington non dovesse ascoltare il suo appello, il generale Abdel Fattah Al Sisi potrebbe rivolgersi ai russi”. La Casa Bianca, conclude Arpino, vuole però evitare questo scenario e quindi sta cercando di lanciare qualche segnale di attivismo”. In fondo, commenta in conclusione Toaldo, “che la paura che la Russia giocasse un ruolo sempre più grande nella regione è alla base non solo del nuovo impegno americano in Libia, ma anche di quello, assunto ben prima, sul futuro della Siria”.

LA RILUTTANZA INIZIALE

D’altronde questa visione era già emersa proprio oltre Atlantico, dove anche dalle pagine di giornali “vicini” all’amministrazione democratica, ad esempio il New York Times, editorialisti come Roger Cohen avevano più volte avvertito sui rischi impliciti nell’atteggiamento “riluttante” del presidente americano. “In Siria e la Libia, ha commentato Cohen, (Obama, ndr) “si è lavato le mani di conflitti ai quali gli Stati Uniti non potevano voltare le spalle. Questa negligenza torna a mordere l’America, come ha dimostrato l’esperienza in Afghanistan a partire dal 1980. Nessuno ama il vuoto come un jihadista. E a nessuno piace l’instabilità statunitense come a Vladimir Putin“. Ora la Casa Bianca sembra voler sì combattere l’Isis, ma anche scongiurare questo pericolo.

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