Europa e Stato di diritto nel vortice dell’onda pandemica

Proteste contro le annunciate nuove restrizioni all'aborto in Polonia. (EPA-EFE/ANTHONY ANEX)

Malgrado l’Europa ed i 27 leader politici siano rimasti per giorni con il fiato sospeso in attesa dell’esito elettorale americano e per le sue inevitabili conseguenze sul futuro dei rapporti transatlantici, presidenza tedesca del Consiglio dell’UE e Parlamento europeo sono riusciti a raggiungere un’intesa parziale sulla condizionalità legata all’elargizione dei fondi del bilancio europeo e del Recovery Fund in base al principio dello stato diritto.

Per molti si tratta di una svolta e di una pietra miliare del processo di integrazione europeo, in un momento estremamente difficile per un continente europeo nel pieno della seconda ondata pandemica; nel mezzo della guerra tra Cina e Stati Uniti; alla ricerca di un nuovo rapporto con la Russia e nella ridefinizione di quello con una Turchia sempre più lontana; impegnato nella gestione delle crisi nel vicinato a Sud.

Tutti questi dossier di politica estera per mesi hanno rischiato di congelare la gestione delle criticità interne e delle relazioni con i relativi attori coinvolti. Per questo, il raggiungimento dell’accordo, in attesa del via libera finale, costituisce una vittoria per molti come anche una sconfitta per quegli Stati membri verso i quali – seppur in maniera indiretta – la decisione è stata indirizzata. Ungheria in primis: Budapest, attraverso le parole del premier Viktor Orbán ha definito l’intesa un “ricatto inaccettabile”.

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L’accordo costituisce l’ennesima tappa dello scontro intra-europeo a cui assistiamo da diversi mesi tra salvaguardia dei valori fondanti dell’UE e sfida politica ai meccanismi di governance democratica europea.

I recenti mesi hanno visto i dossier dello stato di diritto e della difesa delle minoranze al centro del dibattito europeo e dello scontro tra Bruxelles e le diverse capitali europee coinvolte. A partire dalle richieste di dimissioni per la vicepresidente della Commissione Vera Jourová, avanzate da Orbán, per aver definito l’azione del leader ungherese finalizzata a creare una “democrazia malata”; alla decisione europea di sospendere i fondi a sei cittadine polacche dichiaratesi “LGBT-free”, atto che, seppur di poco impatto economico, ha generato una forte reazione anti-europea da parte di Varsavia. Interessante è stata inoltre, per la sua non appartenenza all’UE, la presa di posizione e simil decisione del governo norvegese di sospendere un programma di finanziamenti di 100 milioni di euro a tutte le cittadine polacche che non avessero abolito l’utilizzo della terminologia “ideologia LGBTQI”.

La relazione sullo stato di diritto pubblicata dalla Commissione europea lo scorso 30 settembre avanza forti preoccupazioni su Polonia e Ungheria, specialmente su indipendenza del sistema giudiziario, pluralismo dei media e bilanciamento dei poteri. La reazione di Varsavia e Budapest non si è fatta attendere, attraverso la minaccia politica del potere di veto in seno alle votazioni su budget europeo e Recovery Fund in caso di applicazione del principio di condizionalità sulla concessione dei fondi UE in base al rispetto dello stato di diritto – punto su cui si è, come dicevamo, trovata la quadra appena qualche giorno fa -. Se è vero che, in un momento di crisi senza precedenti l’uso emergenziale dei fondi non possa essere vincolato alle discussioni tra Bruxelles e le capitali europee, dall’altra parte non è accettabile che i valori fondanti dell’UE siano indeboliti e messi in pericolo dall’ondata populista ed euroscettica.

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Nel recente pacchetto sulle infrazioni aggiornato il 30 ottobre, la Commissione europea ha deciso di portare avanti il procedimento d’infrazione per la tutela e la salvaguardia dell’indipendenza del sistema giudiziario polacco, lasciando al governo due mesi per rispondere e conformarsi prima di procedere presso la Corte di Giustizia. Ed a brevissimo la Commissione dovrebbe lanciare la LGBTI Equality strategy, un’ambiziosa roadmap finalizzata ad eliminare qualsiasi tipo di discriminazione rivolta contro i membri delle comunità LGBTQI indipendentemente dalla loro cittadinanza attraverso protezione legale, monitoraggio delle legislazioni, campagne di sensibilizzazione, dialogo con gli attori ed interlocutori coinvolti, ricerca, sostegno finanziario e nazionali anti-discriminazione. La pandemia di Covid-19 ha avuto forti conseguenze sulle minoranze, LGBTQI inclusa, e rappresenterà una forte sfida per l’implementazione della strategia, sia a livello UE come anche a livello dei Paesi target di tale iniziativa, tra cui è probabile figureranno Polonia ed Ungheria, duramente colpite dall’ondata pandemica.

Pochi giorni fa, in un video di sei minuti pubblicato sul profilo Facebook del partito polacco  di maggioranza relativa Prawo i Sprawiedliwośc (PiS), il leader politico e vicepremier Jaroslaw Kaczynski è intervenuto in maniera diretta per legittimare la recente decisione del tribunale costituzionale polacco in tema di aborto e per condannare fermamente le proteste che stanno agitando le piazze polacche. Durante il discorso, che a molti ha ricordato il più celebre intervento del 13 dicembre 1981, quando il generale Wojciech Jaruzelski proclamò lo stato di guerra in Polonia, il leader polacco ha fortemente criticato le proteste in piazza ed esortato i militanti di partito ed i cittadini a difendere Chiesa e stato, secondo lui sotto attacco e rischio di distruzione.

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Il discorso di Kaczynski ha avuto luogo in un momento di grande inquietudine e di protesta sociale, protesta che ricorda molto quelle in atto in Bielorussia, sia per il principale motore – le donne polacche – come anche per la motivazione – difendere lo stato di diritto ed il processo democratico -, motivazione che da settimane sta agitando le piazze del Paese, la diaspora all’estero, il dibattito pubblico nazionale, diviso tra tv di stato pro-governo e reti private liberali, suscitando forte preoccupazione tra le cancellerie europee.

La sentenza è stata, per scelta del governo, momentaneamente bloccata con la decisione di rinviarne la traduzione in legge, facendo decadere i termini di pubblicazione ufficiale. Tuttavia, forti rimangono le preoccupazioni sulla Polonia, sull’attuale assetto politico ed istituzionale del paese e sulla sua particolarità all’interno del contesto europeo. Da una parte, un’economia tra le più forti in Europa con stime  di crescita del PIL tra le meno indebolite dalla pandemia di Covid-19; in prima linea nel sostenere le istanze democratiche del popolo bielorusso; con tassi di disoccupazione, anche giovanile, tra i più bassi in Europa; con una capitale, Varsavia, all’avanguardia ed europea; un Paese il cui 49% della popolazione alle elezioni presidenziali dello scorso luglio, pur confermando il candidato del PiS Andrzej Duda con un margine del 2%, ha scelto di essere più vicina all’Europa.

Dall’altra parte, un Paese in forte sintonia politica con l’Ungheria “orbánizzata” con cui porta avanti le battaglie su migrazione, fondi europei e Recovery Fund; il cui attuale assetto istituzionale conservatore ed euroscettico rimarrà in vigore almeno fino al 2023, anno in cui si tornerà alle elezioni politiche, per poi proseguire fino al 2025, quando la carica di Duda sarà rinnovata; in cui il ruolo della Chiesa, “alleata” di governo, continua a definire il percorso politico nazionale; da anni protagonista di una azione contro lo stato di diritto e di una forte propaganda anti-minoranze che in passato ha incluso migranti, comunità ebraica e comunità LGBTQI.

A questo si aggiunge la questione pandemica. Le immagini delle proteste in piazza si scontrano nettamente con gli aggiornamenti che riceviamo sulla situazione pandemica del paese, tra i più colpiti attualmente in Europa, in termini di numeri ma soprattutto di carenza delle strutture sanitarie. Se la prima ondata fu gestita in anticipo ed i tassi polacchi rimasero tra i più bassi in Europa, la seconda ondata sta colpendo il Paese non solo numericamente, con più di 20mila contagi giornalieri, ma anche economicamente, tanto da spingere la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ad annunciare che proprio la Polonia, insieme ad Italia e Spagna, sarebbe stati tra i primi beneficiari dei fondi SURE destinati alla tutela del mercato del lavoro.

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Il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha minacciato di porre il veto sul Quadro finanziario pluriennale (QFP), dopo l’accordo tra Parlamento Ue e presidenza tedesca sulla condizionalità legata al rispetto dello Stato di diritto.

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Se la risposta del governo al dilagare della pandemia appare debole e non coordinata, più forte e marcata è quella messa in atto per fronteggiare e limitare le proteste in piazza e per avanzare le istanze nazionaliste e conservatrici. I prossimi giorni saranno cruciali per il governo polacco, costretto a gestire manifestazioni le cui immagini riportano a tempi passati ed a dover rispondere alle richieste di confronto che provengono da Bruxelles.

Tra difesa dell’Articolo 2 del Trattato dell’UE e ricorso all’uso dell’Articolo 7, finora senza grandi risultati in termini di cambio di rotta da parte di Varsavia e Budapest, l’UE si trova a uno snodo cruciale e di svolta per decidere quale posizione adottare rispetto a quegli Stati membri in aperto contrasto e sfida verso le istituzioni e l’assetto europeo. Cruciale in questo senso sarà il futuro della discussione attorno al sistema di voto, ancora oscillante tra unanimità e maggioranza qualificata, e che rischia di continuare a bloccare importanti processi decisionali come quello ad esempio sulla riforma di Dublino.

La diplomazia rischia di indebolire l’assetto istituzionale comunitario ma soprattutto di congelare la capacità dell’UE di agire e reagire in una delle più grandi crisi, insieme a quella finanziaria e migratoria, che ha colpito il Vecchio continente dalla fine dalla Seconda Guerra Mondiale.

Non si tratta solamente di uscire dal tunnel pandemico ma di accompagnare tale percorso con un avanzamento costruttivo e concreto del processo di integrazione europeo affinché nel prossimo futuro l’UE sia capace di gestire nuove possibili crisi imparando dalle lezioni e sfide già affrontate. Servono coraggio politico ed ambizione geopolitica, soprattutto in questi giorni in cui purtroppo la freschezza dei venti democratici che soffiano sulle strade europee viene frenata dalle triste ondate di violenza di matrice terrorista che rischia di oscurare proprio i valori fondanti dell’UE.

Teresa Coratella è Program Manager dell’European Council on Foreign Relations di Roma

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